VIII
L’errore fatale
«Re: qual è la più gran pazzia dell’uomo?
Bertoldo: il reputarsi savio».
(G. C. Croce)
Ogni civiltà è destinata presto o tardi a morire o, se ha ragione Toynbee, a suicidarsi. La fine può arrivare rapida e inaspettata ma è in realtà effetto di un accumularsi di cause. Ogni civiltà, incalzata dalle sue passioni, lotta con il suo Demone, ingaggia con lui una sorta di laboriosa e tormentata partita a scacchi, il cui esito è scontato. Ma il suo Nero avversario la costringe a cercare mosse efficaci per rimandare il più a lungo possibile lo scacco matto.
Così, ogni civiltà può commettere piccoli errori, ancora rimediabili, o errori gravi, che la espongono a gravi perdite di pezzi. Infine, vi sono errori che la portano a una rapida sconfitta. E forse, proprio nel momento in cui credeva di poter vincere, la nostra civiltà ha commesso un errore fatale. Ha fatto quella mossa che la Morte attendeva per poter esercitare il suo naturale diritto su tutto ciò che vive.
Quell’errore, io temo, ci ha chiusi in uno schema di gioco in cui non v’è più tempo per escogitare brillanti, originali manovre per salvarci da una situazione ormai compromessa. Tutto, nel finale di partita, si riduce infatti a ineluttabili geometrie, a schemi rigorosi. La nostra unica speranza è distrarre il Demone, indurlo a fare come noi un errore grossolano, eventualità assai improbabile.
È difficile per noi riconoscere questo errore fatale, perché ancora crediamo d’aver giocato una mossa vincente, e non ne vediamo l’intrinseca follia, ovvero questa forma di irragionevolezza che è, paradossalmente, la nostra cieca fiducia nella razionalità. Questa “insonnia della ragione”, veglia generatrice di mostri, suicida imprudenza che ci ha convinti fosse giusto mettere il pensiero tecno-scientifico a governo del mondo – come porre la Regina in una casa indifendibile.
Non voglio dire che sviluppare conoscenze scientifiche o fabbricare macchine sia in sé sbagliato. Da sempre l’uomo si avvale della sua intelligenza per scoprire nessi causali e creare strumenti che lo sostengano nel suo dialogo-conflitto con la natura. Scienza e tecnica sono quindi membri di una generale e necessaria filosofia della vita.
Ma non possiamo accettare i loro contributi pratici e teorici senza preoccuparci di integrarli in una complessiva immagine del mondo, in armonia con istanze etiche, sentimentali, spirituali, subordinandoli a quell’unico fine essenziale che è una compiuta e avverata idea del Bene. Perché una filosofia che faccia astrazione da questo compito si riduce a sciocca oziosità e diviene una minaccia alla felicità dell’uomo.
I diversi elementi che formano la nostra visione del mondo dovrebbero quindi fondersi in una solida lega, costituire un sicuro appoggio al nostro proposito d’esser felici, e il livello di una civiltà andrebbe stimato in base alla sua capacità di liberare gli uomini da condizioni di sofferenza, sciogliendoli dall’asservimento a difficoltà materiali e ancor più dalle catene di insensate passioni.
Potremo perciò dire evoluta solo la società in cui prevalgono le condizioni della pace, dell’amore, dell’armonia con la natura, del benessere interiore, della bellezza. E per converso, definire barbara quella in cui regnano l’odio, la violenza, il conflitto, la paura, la volgarità. Nella prima riconoscere una vera ricchezza e un autentico progresso umano, nell’altra un bestiale abbruttimento.
La nostra follia non sta quindi nel progresso in sé, ma nell’aver creduto che le conquiste del pensiero tecnico-scientifico fossero criterio valido e sufficiente per misurare il grado di evoluzione di una civiltà, indipendentemente dal contesto generale in cui tali acquisizioni si collocano e dagli effetti che producono.
Ispirato da tutt’altre certezze, qualcuno, non so se miope o troppo lungimirante, pensò un giorno fosse invece possibile un’evoluzione fondata sulla cristianizzazione, mediante una pedagogia dell’uomo fedele al messaggio del Vangelo. E altri, in modo analogo, hanno certo immaginato di poter costruire una società che riflettesse gli insegnamenti di Zoroastro, del Buddha o di Confucio.
Utopie fragili, destinate a infrangersi contro un muro di dure realtà. Forse utopie premature, che devono attendere tempi nuovi per realizzarsi. Di fatto, le visioni del mondo che auspicavano un’evoluzione dell’uomo in senso etico e spirituale sono rimaste lettera morta, e vengono oggi confutate da un pensiero che usa come parametro evolutivo coordinate scientifiche e tecnologiche.
Incanalare l’ingegno umano su questa strada apparentemente a senso unico è diventato per noi conditio sine qua non del Progresso. Troviamo una tipica espressione di questo pregiudizio nell’idea, oggi apparentemente indiscutibile, che civiltà più antiche di quella terrestre, se esistono, debbano essere necessariamente più evolute di noi, e che questo necessariamente significhi aver raggiunto livelli di conoscenza fisica e di efficienza meccanica superiori ai nostri.
Ma queste presunte necessità logico-evolutive non sono che un parto della nostra fantasia. E v’è in esse un grave pericolo, perché il nostro concetto di progresso finisce col prescindere da ogni valore spirituale. Così, una civiltà il cui livello etico sia pari a quello di uno squalo, ma in compenso ultra-razionale e ultra-tecnologica, ci apparirebbe assai più evoluta di una società saggia e pacifica le cui interazioni col mondo si svolgessero attraverso linguaggi poetici o l’uso di semplici utensili.
La nostra arbitraria ‘gerarchia di civiltà’, ordinata secondo una crescente capacità di rubare alla materia i suoi poteri, di dominare la natura, di dotarsi di trascendentali mezzi tecnici, tradisce solo un delirio di onniscienza e onnipotenza. E noi, si dice, saremmo solo ai primi gradini. Perciò cerchiamo indizi di civiltà superiori, come bambini che desiderano carpire i segreti degli adulti.
Da questo immaginario processo di crescita pare debba venir escluso tutto ciò che attiene alla nostra sfera spirituale, alle dimensioni profonde del cuore umano. L’evoluzione diventa così un processo totalmente esteriore, guidato da leggi meccaniche e deterministiche. In questo progresso materiale alcuni vedono l’inverarsi di attese messianiche, altri una mossa dell’Anticristo o il destino, forse dimenticando che in ogni destino risuona un libero arbitrio, una volontà che può scegliere.
Così, il nostro fatale errore è il risultato di un’opzione di cui, tuttavia, è difficile precisare le ragioni. Forse l’esaurirsi di un ciclo vitale. Forse gli effetti collaterali di un’idea del mondo che per secoli ha sotteso e plasmato la nostra cultura, ossia quel complesso intreccio di elementi giudaici, greci e romani, che formano la trama e i presupposti intellettuali del pensiero occidentale.
Le concezioni fondanti del pensiero indiano o cinese, dove ogni fenomeno è manifestazione del Sacro, orma dell’Invisibile, impedivano a priori che atti tecnico-scientifici oltraggiassero il mistero e la dignità metafisica della Natura. L’Oriente, che veglia sulla santità del mondo, non avrebbe mai autorizzato una scienza la cui hybris profanava santuari divini.
E neppure l’antico spirito pagano dei greci e dei romani, o dei druidi celtici, pervaso di senso panico, conscio degli stretti legami tra il cosmico e il divino, avrebbe mai osato volgersi a prassi dissacranti e perturbatrici dell’armonia naturale. Né si può credere che uno gnosticismo per il quale la materia è caduta, Principio di corruzione, oscura prigione dello spirito, si sarebbe mai abbassato a penetrarne con tanto zelo gli oscuri recessi.
Più plausibile mi sembra vedere le radici della nostra civilizzazione nella pulsione di potenza che muove la storia umana a noi nota. Questa libido dominandi, volontà di vincere e asservire l’altro, è comune a greci e romani, ebrei ed egiziani, indiani e cinesi. Per questo l’uomo ha sempre usato il suo genio per progettare e costruire strumenti di conquista, per escogitare letali invenzioni di ingegneria militare – e il carteggio tra Leonardo e Lodovico il Moro è in tal senso emblematico.
Alcuni spiriti illuminati hanno cercato in ogni tempo di scoraggiare questa demoniaca voluttà di occupare territori, dominare il prossimo, ammazzarlo, depredarlo, ridurlo in schiavitù. Ma i loro appelli sono sempre caduti nel vuoto. Di fatto, pare che niente – né prediche, né lusinghe o minacce – possa guarire l’uomo dalla sua sete di conquista.
La nostra civiltà nasce così dalle pretese della forza, dal sangue, dall’assassinio del fratello. E certo la scienza è stata in questo senso un fattore determinante e decisivo, perché grazie ad essa l’uomo si è dotato di mezzi tecnici di persuasione e di distruzione un tempo inimmaginabili. Ed è assai improbabile per ora che l’uomo desista dai suoi progetti di dominio.
Tali generiche considerazioni non spiegano però perché la scienza moderna sia fenomeno europeo. Caldei, cinesi, indiani, greci, egiziani, erano fisici, astronomi, geometri, logici, matematici, e certo non difettavano dell’ingegno per mettere a frutto le loro conoscenze. Ma il loro desiderio di sapere fu probabilmente delimitato da una forma di rispettosa soggezione per il carattere sacro del cosmo.
La nostra scienza sembra invece nascere da una immagine del mondo che spoglia la natura di ogni dignità sacrale, la priva di ogni carattere divino, ne espelle gli spiriti, gli Dei, le arcane risonanze. Non vi riconosce un Soggetto, ma un oggetto che Dio crea e concede all’uomo perché lui, l’eletto, destinato a regnare sulla Terra, se ne serva.
Questa concezione di un mero rapporto strumentale tra l’uomo e la natura, giunta a noi attraverso un pensiero biblico intriso di aggressivo e antropocentrico materialismo, si è fusa nella nostra cultura con le ardite sottigliezze del pensiero greco, ed è questa a mio avviso la doppia semenza da cui ha preso corpo una scienza piegata a finalità non scientifiche.
Abbiamo dovuto superare la caduta di un impero, digerire le invasioni barbariche, attendere che dalle ceneri del mondo antico rinascesse l’amore per lo studio, si formassero delle università, che l’uomo ritrovasse in sé la passione per la conoscenza. Ma dopo tanti secoli quei vecchi semi, geneticamente combinati, erano ancora lì, pronti a germogliare.
La fisica come studio dei fenomeni naturali, delle loro cause e delle loro relazioni, è così presto diventata l’ancella di una tecnologia sempre più sofisticata ma di fatto legata a rozze forme di potere. Privando la natura di ogni fondamento spirituale l’abbiamo posta al servizio di una farneticante e illimitabile volontà di potenza, in contraddizione con i reali bisogni dell’uomo.
Il culto morboso per le iperboli della razionalità e della tecnica, dall’Occidente è dilagato nell’intero pianeta come una incontrollabile epidemia. Una mentalità illuministica popolata di fantasmi liberatori e progressisti ha contagiato ogni angolo della Terra, è divenuta ideologia globalizzante, producendo un omogeneo confluire delle varie culture sotto un’unica bandiera.
Si potrebbe quindi pensare che la civiltà cristiana, dopo aver accarezzato per secoli il progetto d’esser Chiesa universale, abbia infine coronato il suo sogno ecumenico in modo paradossale, convertendo il mondo intero non al Vangelo ma alla sua scientifica immagine della realtà, ovvero a un’idea priva di qualsiasi nesso col messaggio di Cristo, di cui è anzi una radicale negazione.
Infine, l’ombra di Dio, che ancora incombeva sulla pur carnale religiosità ebraica, si è dissolta sotto la luce del positivismo scientifico. È così rimasta davanti a noi solo una natura nuda, senza dignità, come una meretrice che possiamo comprare, stuprare, violare secondo i nostri desideri. Carne inerte che si offre a noi perché ne abusiamo.
Siamo oggi molto più sapienti e potenti che in passato. Ma il nostro sapere è follia e il nostro potere è sopruso. Quella che diciamo evoluzione della nostra civiltà rappresenta solo l’imporsi di un’idea del mondo scientificamente sviluppata, in modo che un’antica cupidigia potesse trarne le più infami applicazioni, adattarla al suo fondamentale satanismo.
Perché, come scrive Erasmo, “la pazzia costruisce città, imperi, istituzioni ecclesiastiche, religioni, assemblee consultive e legislative: l’intera vita umana è solo un gioco, il semplice gioco della Follia.” E non potendo curare tale follia con la ragione, di cui si nutre, dovremmo forse usare come medicina un’altra follia. Se nella nostra partita con il Demone non facessimo mosse scientifiche ma quelle che lo spirito ci suggerisce, forse potremmo ancora salvarci.
Ma siamo ubriachi di un sapere che crea incubi, labirinti in cui l’uomo si perde; di un progresso che insegna come auto-distruggersi; di una tecnica che promette di evolverci in esseri transumani prima ancora d’essere umani; di una logica che si ritiene inoppugnabile, ma commette errori fatali. E come dice il Vangelo di Tomaso: «ora sono ubriachi. Allorché avranno vomitato il loro vino, allora faranno penitenza». Un ubriaco non dovrebbe giocare a scacchi con il suo Demone.


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