«Nelle attuali condizioni della società mi sembra che l’uomo sia corrotto più dalla ragione che dalle passioni»
(Chamfort)
Mi ponevo in questi giorni una difficile domanda: è lecito rispondere con la violenza alla violenza? Il senso dell’onore, la giustizia, un impulso naturale, un calcolo, una necessità vitale, sono ragioni che possono giustificare l’uso della forza. Tuttavia, la violenza viene oggi interdetta da un potente e generico tabù. La nostra società predica un irenismo un po’ inamidato e sussiegoso.
Questo pacifismo sembra però contraddetto dalla violenza delle istituzioni. Le recenti politiche sanitarie vengono infatti percepite da molti come imposizioni tiranniche, privazioni di libertà fondamentali. Ancor peggio, violenze fisiche, sotto forma di trattamenti medici coatti e potenzialmente pericolosi.
Ma è ormai un luogo comune il dovere di limitarsi a proteste pacifiche, espressione che, come “pacifica ribellione”, ha sapore di ossimoro. E in un mondo come il nostro, inquinato dalla retorica e dall’ipocrisia, c’è da chiedersi se i luoghi comuni non vadano rovesciati. Sta di fatto che alla palese violenza dello Stato si oppongono solo obiezioni di carattere intellettuale, scientifico, giuridico, morale, escludendo a priori ogni ricorso alla forza. Posto un veto alle passioni, restano solo le fredde vie della ragione.
Questo non significa che sia sempre giusto seguire un principio di pacatezza, quasi fosse il sigillo di una superiore nobiltà d’animo. Un atteggiamento remissivo rende le cose più facili a chi amministra la violenza di Stato, ma la sua nobiltà o eticità son talvolta discutibili.
Ripensavo a quel giovane citato da Jünger, che per difendere l’inviolabilità del domicilio uccise nell’androne di casa sua mezza dozzina di ‘poliziotti ausiliari’. Jünger lo definisce “gloriosa eccezione … partecipe della libertà sostanziale”, alludendo al fatto che certi principi costituzionali, quando vengon traditi e ridotti a vuote formule verbali, van difesi “brandendo la scure”.
Si potrebbe cogliere un legame tra la situazione attuale e i vari decreti antisemiti nella Germania degli anni ’30. Le misure prese oggi contro i non vaccinati evocano infatti la politica nazista, tesa a escludere progressivamente i ‘giudei’ dalla vita sociale, lavorativa, scolastica ecc. Non è dunque legittimo reagire a questa ingiustizia “brandendo la scure”, difendendo l’inviolabilità del nostro corpo e dei nostri cari?
Alcune analogie potrebbero rivelarsi istruttive. Vi sono infatti fili rossi che corrono nella storia, annodando il passato al futuro. Non si tratta quindi di predire il futuro ma di prevedere il passato, di anticipare i suoi ciclici ricorsi. E se la gente non fosse sorda sentirebbe anche oggi risuonare, portate dal vento della storia, antiche e funeste melodie.
L’analogia cui più spontaneamente mi corre il pensiero è la conquista del Nuovo Mondo da parte degli Spagnoli. Di fatto, evangelizzare popolazioni ancora immerse nell’idolatria fu per gli Spagnoli un mero pretesto per l’occupazione armata e il saccheggio. La scusa oggi è la necessità di una evangelizzazione vaccinale. I moderni conquistadores offrono la buona novella non più sulla punta della spada ma di un ago sottile.
E in mancanza di un Nuovo Mondo da razziare, vorrebbero spolpare fino all’osso quello Vecchio, creando nuove regole economiche basate sulla schiavitù e il controllo dell’intera popolazione. La necessità di convertire il pianeta alla nuova religione sembra giustificare ogni mezzo, per quanto violento e disumano. Perciò, come gli antichi conquistadores, è prevedibile che anche i nuovi non si fermino di fronte al genocidio e alla distruzione di una civiltà.
Ovviamente molte cose sono cambiate negli ultimi cinque secoli. Per esempio, il rapporto tra Stato e Chiesa. Carlo V, all’epoca re di Spagna, veniva considerato proprietario degli immensi territori americani per effetto di una donazione papale. Egli ne aveva la giurisdizione per mandato della Santa Sede e sentiva quindi, come sovrano cattolico, il peso di una doppia responsabilità: portare in quelle terre il Vangelo insieme all’ordine e alla legge.
Il re era al corrente delle atrocità, delle ruberie e delle brutali politiche schiaviste attuate dai conquistadores. Da buon cristiano, ne era turbato e non intendeva avallarle. D’altro canto, l’America era per la Spagna un’imperdibile occasione d’espansione e ricchezza. Come conciliare le corna del dilemma? Carlo era insieme monarca e uomo di fede. Le sofferenze degli indios provocavano in lui un sincero e doloroso problema di coscienza. (Impossibile qui fare un’analogia con i nostri governanti, creature a sangue freddo cui la violenza non crea alcun turbamento morale).
Carlo doveva anche tener conto di quanto espresso nella bolla pontificia Sublimis Deus, promulgata da Paolo III nel 1537, dove si riconosceva la piena umanità degli indios e si minacciava la scomunica a chi li avesse privati della libertà o derubati dei loro beni. Il Papa concedeva ai nativi americani totale dignità di esseri umani: «Indios veros homines esse», rifiutando la vecchia teoria aristotelica secondo cui alcuni uomini sono servi per natura.
Ma non son più quei tempi, quando la Chiesa poteva alzar la voce contro i potenti, influenzare re e imperatori. La Chiesa di oggi, prona, ridotta a zerbino del Potere, si limita a effondere stucchevoli benedizioni sui vaccinati e i loro gesti etico-amorosi, minacciando gli altri con corrucciati anatemi.
Forse verrà emanata l’enciclica “Sublimis Vaccinus”. Immagino non conterrebbe l’affermazione «non vaccinatos veros homines esse» ma, al contrario, il dogma della loro non-umanità. E insieme la scomunica non per chi deruba gli uomini della libertà e della vita, ma per coloro che rifiutano il nuovo battesimo vaccinale. Pericolosi selvaggi, propagatori di eresie e ateismo, che non credono nella divinità del Sublimis Vaccinus.
Per altro, oggi nessun Capo di governo si rivolgerebbe a un teologo per un problema di diritto internazionale. Per Carlo fu invece naturale chiedere lumi a Francisco de Vitoria, frate domenicano e forse il più grande moralista dell’epoca. Vitoria risponde con le sue severe Lectiones. Richiama il re alla sua responsabilità morale enunciando quattro principi che condannano l’arroganza degli Spagnoli e il loro spadroneggiare sugli indios.
Vitoria sostiene innanzitutto che la donazione papale è invalida. Il suolo americano infatti non appartiene al Papa. Inoltre, il Papa non è ‘dominus orbis’, signore del mondo in diritto di arrogarsi poteri temporali anche sui non cristiani. Quindi, il continente americano è terra libera, non proprietà della Spagna.
Per Vitoria la sovranità nazionale di un popolo è principio intangibile, che va difeso da ingerenze esterne. È quell’utopia che anche noi coltiviamo, il sogno di scrollarci il giogo umiliante che ci rende colonia, protettorato. Siamo, come gli indios, una popolazione occupata e sottomessa di cui altri decidono il destino. Tuttavia, Vitoria poteva ancora sperare che gli indigeni si liberassero dal cappio degli spagnoli o che bastasse ricordare al re il diritto di autodeterminazione dei popoli. A noi la storia ha tolto ogni illusione.
La conversione forzata degli indios è il secondo punto dolente affrontato da Vitoria. L’adesione al cristianesimo, afferma, deve essere assolutamente libera, non ottenuta con la coercizione e le minacce. In linea con l’antico motto di san Bernardo – «fides suadenda non imponenda» – Vitoria ribadisce che la fede deve nascere da una convinzione personale e non da una pressione esterna.
Oggi direbbe che non è lecito usare sistemi violenti per costringere qualcuno ad abbracciare la fede nel Dio-Vaccino. L’adesione alla nuova fede deve basarsi su argomenti razionali e pacifici, in totale libertà di scelta e nella piena avvertenza del suo significato. È inammissibile che si usi la religione come pretesto per condurre azioni di guerra e occupare territori. Il presunto dovere di convertire gli ‘indigeni’ al culto del Sublimis Vaccinus non può divenire strumento di dominio e sopraffazione.
Se lo Stato deroga a tale principio, una reazione violenta da parte degli indigeni sarebbe lecita, bellum iustum, giustificabile sia moralmente che religiosamente. Vitoria non è un pacifista. Ammette lo jus ad bellum, il diritto di far guerra se vi sono fondati presupposti. Guerra giusta, ad esempio, è quella condotta da un popolo come atto di legittima difesa contro la violenza o l’invasione di potenze straniere. Ma è legittimo anche prender le armi in aiuto di un popolo oppresso e di chi non ha gli strumenti per difendersi dai suoi aggressori.
Vitoria non condivide il pacifismo di Erasmo e Lutero, basato sul “non resistere malo”. Il motto evangelico è secondo lui un consiglio e non un precetto. Occorre dunque valutare quei casi in cui è lecito anche a un cristiano opporsi al male, rispondere con la forza alla forza.
Il domenicano affronta poi un tema spinoso: il rispetto degli usi e dei costumi di ogni popolo. I conquistadores, dice, non hanno alcun diritto di imporre agli indios la civilizzazione europea. Nativi e Spagnoli sono membri allo stesso titolo di una internazionale famiglia umana. Non si possono costringere i nativi ad accettare la cultura europea, cancellando le loro consuetudini sociali e le loro tradizioni.
Questo riconoscimento di pari dignità assume forme radicali nel quarto punto, dove Vitoria chiede il rispetto dell’idolatria pagana e delle sue pratiche religiose, per quanto ai cristiani possano apparire sconcertanti o inaccettabili. Nessuno deve costringere con la forza gli indios ad abbandonare i loro riti o indurli con sistemi violenti a rinunciare alla loro religione.
Dunque, nel caso degli indios Avax –così mi piace chiamare gli indigeni non vaccinati – si dovrebbe rispettarne lo stile di vita, senza obbligarli a comportamenti per loro senza senso, come indossare mascherine, mantenere distanze di sicurezza, infilare continui tamponi nel naso, restare chiusi in casa etc. Si obietterà che tali costumi non sono inclinazioni facoltative ma nascono da una generale e scientifica necessità, e vanno perciò imposti a tutti con forza di legge.
Tale obiezione è ingannevole, e coincide sostanzialmente col tentativo di imporre ad altri una particolare visione del mondo mediante la violenza. Non c’è dubbio che Vitoria ritenesse la religione cristiana l’unica vera dottrina di salvezza per l’uomo. Ma non vedeva in questa sua sua convinzione una ragione valida per obbligare gli indios a convertirsi.
A maggior ragione dobbiamo deprecare l’arrogante pretesa del vaccinismo di imporsi e dominare il mondo spacciandosi come unica dottrina di salvezza possibile. Soprattutto se lo fa ricorrendo a minacce e ricatti, nascondendo la realtà di una scienza inefficace, basata su dati fittizi e ispirata da motivi di lucro nient’affatto scientifici, impedendo altre prassi terapeutiche, censurando e sanzionando brutalmente ogni dissenso.
La risposta al re contenuta nelle Lectiones di Vitoria è quella che noi tutti dovremmo dare alla prepotenza, all’ipocrisia e alla mancanza di umanità del Potere. Ma è ingenuo sperare che i nostri ‘intellettuali’, semplici cicisbei del Regime, difendano i perseguitati, coloro che oggi son travolti non dall’emergere di un Nuovo Mondo ma di un Nuovo Ordine Mondiale. E la storia si ripeterà.
Vitoria è simbolo di uno spirito libero. Lo stesso Carlo V rimase perplesso di fronte alla sue tesi così aperte e generose, che avrebbero ostacolato l’espansione spagnola nel Nuovo Mondo. Consultò quindi un altro celebre teologo domenicano, Bartolomé de Las Casas. Ma anche Las Casas, da sempre acceso difensore degli indios e convinto della loro naturale bontà, era più incline a proteggere quella gente dai soprusi degli Spagnoli che a favorire gli interessi economici dei conquistadores.
Carlo infine si lasciò convincere dai due teologi. Per ovviare alle terribili condizioni degli indios promulgò nel 1542 le Lejes Nuevas. Questo creò un’ondata di proteste e rivolte da parte dei coloni spagnoli, per nulla disposti a rinunciare ai privilegi acquisiti e ormai abituati a trattare i nativi alla stregua di animali. Il re si vide costretto, nel 1550, a convocare la Giunta di Valladolid. Chiamò quattordici fra le più eminenti personalità laiche e religiose dell’epoca a decidere come proseguire nell’opera di conquista «con giustizia e sicurezza della coscienza».
Alla fine, esaminati vari argomenti teologici e giuridici, prevalse l’idea che fosse lecito imporre ai nativi americani la civilizzazione cristiana. Questo non implicava, secondo quella ‘Commissione Tecnico Scientifica’ ante litteram, la prevaricazione di un popolo su un altro, ma ubbidiva a un dovere di “ingerenza umanitaria”. Tale soluzione, che salvava la capra del tornaconto economico e i cavoli della morale, pareva giustificata dall’usanza indigena di compiere sacrifici umani e atti di cannibalismo. La cattolicissima Spagna non poteva tollerare forme tanto orribili di paganesimo. Bisognava dunque intervenire con la forza per por fine a un crimine contro l’umanità. In pratica, “con giustizia e sicurezza della coscienza” si lasciò che gli Spagnoli facessero scempio e razzia di quei popoli.
Disse Vitoria: «se fosse permesso punire gli indios per le ingiurie che fanno a Dio, a maggior ragione dovrebbero esser puniti i prìncipi cristiani, che peccano più gravemente degli infedeli». Ma nessuno ascoltò quella logica obiezione. E in pochi dubitarono dei resoconti relativi ai riti sanguinari degli indios. Poco si indagò su quelle testimonianze contraddittorie e non sempre affidabili. Le dimensioni dei sacrifici umani furono sicuramente ingigantite. Ma il mito dell’Olocausto, di una mostruosa ecatombe, era funzionale al dominio spagnolo.
Gli Spagnoli sarebbero stati per gli indios custodi, tutori, amministratori. Li avrebbero condotti a condizioni più civili e umane. E chissà quante volte i poveri indios, costretti a subire lezioni di ‘umanità’ dagli Spagnoli, avranno pensato: “chi ci salverà dai nostri salvatori? Chi ci libererà dai liberatori?”. Di fatto, non vi più alcun freno al dilagare della cupidigia e delle nefandezze dei conquistadores e l’ingerenza umanitaria si trasformò in un’immensa carneficina.
A distanza di secoli questo potrebbe lasciarci ormai indifferenti. Ma significherebbe non vedere che un’altra Valladolid incombe sulla storia. È ancora il principio di “ingerenza umanitaria” a guidarci, quasi inconsapevolmente, come un istinto sedimentato nei secoli. Perciò riteniamo giusto escludere dalla vita sociale e lasciar morire di stenti chi è privo di passaporto vaccinale, e anche noi lo facciamo “con giustizia e sicurezza della coscienza”. Oggi il nostro ‘nobile motivo’ è impedire quel crimine contro l’umanità che consiste nell’aver dentro di sé, forse, qualche virus.
Valladolid è il paradigma di un Potere che stravolge basilari ragioni logiche, etiche e giuridiche allo scopo di fornire una legittimazione al Male. Su quella falsariga, anche oggi è in corso una Disputa sul modo in cui trattare gli indigeni renitenti al Sublimis Vaccinus. Ma nella nuova Valladolid gli Avax non hanno alcun avvocato che perori la loro causa. Non c’è un coraggioso Las Casas a difenderne la natura “senza malvagità e senza doppiezze”, l’incorrotta verginità naturale**. Ancor più degli indios, son quindi vittime predestinate, agnelli tra lupi affamati.
Come Maya, Inca e Aztechi, anche gli Avax vengono accusati di sacrificare ogni anno un numero ingente di vite umane a causa delle loro assurde credenze, della loro ‘ignoranza scientifica’. I loro costumi rappresentano una barbarie incompatibile con la civiltà moderna, con la vita sociale ed economica del mondo civile. Come con indios, negri, ebrei etc., si nega loro una completa umanità. Sono animali velenosi cui si deve schiacciare la testa. Perciò appare indispensabile una drastica ingerenza umanitaria. I conquistadores avranno carta bianca. E pochi coglieranno l’orrore di questa nuova Valladolid.
Alla fine, molti si convertiranno al culto del Sublimis Vaccinus per paura, altri per convenienza. Alcuni cercheranno di fuggire, altri resisteranno, affrontando l’inevitabile sconfitta. E già si chiede di lasciarli morire di fame, di chiuderli in riserve isolate e inospitali, di dar loro coperte infettate col vaiolo. Di sottoporli, come streghe ed eretici, a spietate autodafé o di arrotarli, come i presunti ‘untori’ della “Colonna infame”.
E se un Avax osa reagire alla violenza del suo persecutore – basta un’innocua intemperanza verbale – su tutti loro cade un moto di odio e di disprezzo, di esecrazione generale. E sono loro, le vittime, ad essere accusate di praticare “un’odiosa violenza”. E se invece di semplici parole fosse stato uno schiaffo, i media avrebbero immediatamente creato una leggenda nera, dipingendo gli Avax come selvaggi folli e feroci. Perciò mi chiedevo: si può rispondere alla violenza con la violenza? Non hanno gli Avax il diritto di combattere per la propria libertà, il proprio onore, la propria famiglia, la propria vita?
Forse lo faranno, prima o poi. E forse un giorno, se resterà un briciolo di verità su questa terra, si dovrà ammettere che il loro era uno Iustum Bellum, come avrebbe detto Vitoria. Quel diritto naturale di opporsi al Male che prevale su ogni legge civile o religiosa. Perché vim vi repellere licet, è lecito respingere la violenza con la violenza. E, seppur senza speranza, l’agnello ha il diritto di ribellarsi al lupo.
** «Tra queste pecore mansuete, dotate dal loro pastore e creatore delle qualità suddette, entrarono improvvisamente gli spagnoli, e le affrontarono come lupi, tigri o leoni crudelissimi da molti giorni affamati. E altro non han fatto, da quarant’anni fino ad oggi, ed oggi ancora fanno, se non disprezzarle, ucciderle, angustiarle, affliggerle, tormentarle e distruggerle con forme di crudeltà strane, nuove, varie, mai viste prima d’ora, né lette, né udite, alcune delle quali saranno in seguito descritte, ma ben poche in confronto alla loro quantità».
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