Pànta rèi: tutto scorre, nulla resta. E così un inverno rigido e spietato sostituì l’eterna primavera che aveva avvolto le dolci terre nordiche, cullate da foreste di betulle e conifere durante il Maximo Olocenico (circa 9.000-5.000 anni fa, con un picco termico attorno agli 8.000 anni fa). Anche il livello delle acque marine crebbe in modo significativo, sommergendo i lunghi ponti di terra che univano la Scandinavia all’Islanda.
Danni ben peggiori provocò il graduale sprofondamento nell’Atlantico della bassa tundra posta a sud-est della Gran Bretagna, il Doggerland, dove pascolavano in libertà numerose specie di animali selvatici e vivevano popoli dinamici [immagine 1]. Intorno al 5000 a.C. il fenomeno denominato breech (rottura) formò il braccio di mare destinato a diventare il Canale della Manica, creando a nord-ovest dell’Europa continentale una grande isola (E. Ebers, La grande era glaciale, Sansoni, 1963).
Terminarono le lunghe «camminate» tra l’Inghilterra e la Francia, contemporaneamente alle villeggiature di Apollo a Tule (Erodoto, Le Storie, Libro IV). Si interruppe il flusso di doni avvolti in paglia di grano che gli Iperborei inviavano regolarmente al santuario di Delos. Cessarono le epiche imprese di grandi viaggiatori come Eracle, il quale, secondo il geografo Pausania, avrebbe importato dalle terre nordiche il primo albero di olivo, poi trapiantato da Atena sull’Olimpo.
La «discesa» delle popolazioni nordatlantiche rivoluzionò il modo di vivere europeo, segnando una tappa decisiva per l’evoluzione delle società continentali tra il VII e il VI millennio a.C. Interessanti contaminazioni culturali sono emerse dal ritrovamento di due spade dell’Età del Bronzo di fattura micenea accanto al disco di Nebra (Sassonia-Anhalt), il cui centro corrisponde allo scudo di Achille su cui il dio Efesto incise: “fece la terra, il cielo e il mare, l’infaticabile sole e la luna piena, e tutti quanti i segni che incoronano il cielo, le Pleiadi, l’Iadi, la forza d’Orione” (Iliade, II, XVIII, 483-486).
Meno si sa del mitico personaggio chiamato Omero, ovvero della reale provenienza degli esametri che gli vengono attribuiti, dove risuonano echi di altre epoche e scorrono immagini di contesti più settentrionali, freddi e nebbiosi, con i mari sempre in burrasca e insidiosi gorghi marini simili al malström.
Non sarebbe affatto sorprendente scoprire che anche loro hanno origini nordiche; del resto è difficile credere che Odisseo, descrivendo a Polifemo il “grande abisso”, evocasse il Mar Mediterraneo, che appare poco più di un lago interno: “Noi siamo Achei, nel tornare da Troia travolti / da tutti i venti sul grande abisso del mare” (Od. IX, 259-260). Ha inoltre l’aspetto di una nave oceanica l’imbarcazione con “albero di nave nera da venti banchi, / larga, da carico, che attraversa il grande abisso” (Od. IX 322-323). Senza contare le numerose incongruenze toponomastiche e geografiche, che invece rivelano corrispondenze sempre più evidenti man mano che ci si allontana dalle terre elleniche del periodo classico e ci s’inoltra nelle aree settentrionali.
In fondo non ci sarebbe niente di straordinario nel fatto che i versi omerici abbiano viaggiato per migliaia di chilometri e superato innumerevoli difficoltà prima di approdare ad Atene, dove il tiranno Pisistrato (600 – 528/27 a. C. circa), notando la loro popolarità, ne colse le potenzialità intrinseche e giudicò politicamente corretto farli mettere per iscritto dai suoi scribi.
Le guerre cognitive, in realtà, esistono da millenni e si sono sempre rivelate vincenti; soprattutto noi europei dovremmo saperne qualcosa, avendo assimilato il mondo anglo-americano così profondamente da scambiarlo per nostro. All’interno di qualsiasi compromesso culturale il processo dinamico di ibridazione privilegia sempre chi/cosa in quel dato momento appare in una posizione di forza; l’altro si arrende all’evidenza, riconoscendo alla controparte una maggiore attrattività, e il gioco è presto fatto.
Il ponte danubiano
Ormai sbriciolato in una miriade di direzioni, il movimento unitario che aveva caratterizzato le prime migrazioni dei popoli nordatlantici finì per disperdersi in una rete di fili aggrovigliati che ricoprì l’intero emisfero settentrionale. Ne consegue che Nicholas Spykman (The Geography of the Peace, 1944) scoprì l’acqua calda dichiarando che il centro dell’«attività politica del mondo» si trovava nella fascia continentale compresa tra il 25° e 60° parallelo nord, perché le cose stanno così da millenni.
Tanto è vero che l’inabissamento del Doggerland, la cui parte esterna era delimitata da spiagge sconfinate, a tratti paludose, non colpì sparute tribù di trogloditi bensì vivaci popolazioni dedite alla produzione e al commercio, le quali, lungi dal darsi per vinte, spostarono il centro dei loro affari nel continente. Scendendo lungo le vie fluviali alcuni di questi gruppi si riposizionarono sulle rive del Danubio, più o meno nelle zone dove tra il VI e il III millennio a.C. si formò la cosiddetta civiltà danubiana (VI-III millennio a.C.), a sua volta promotrice di un variegato mosaico culturale: Vinča (Serbia, Bosnia, Albania, Kosovo, Ungheria meridionale), Tisza e Lengyel (Ungheria), Dimini (Grecia), Karanovo (Bulgaria, Macedonia), Cucuteni (Romania), Trypillya (Ucraina).
Fu allora, probabilmente, che l’immagine ormai sbiadita di Iperborea entrò nel mito, e con essa l’ambiente incantato che la circondava: l’Arcadia, un posto soleggiato e primaverile dove la vegetazione era rigogliosa, i frutti della terra crescevano spontanei e abbondanti, le greggi e gli armenti pascolavano in tranquillità donando il proprio latte ai pacifici pastori.
Vuole la consuetudine che la terra di Arkás, o Arcade, detta Pelasgia, si trovasse in un «mare pelagico», cioè aperto, lontano sia dalla costa che dal fondale, ricco di vita marina e diviso in colonne verticali (es. zona eufotica, zona batiale, zona abissale, eccetera) in base alla profondità e alla luce solare. Qualcuno riesce a distinguere in questa descrizione il Mar Mediterraneo?

Senza successo generazioni di studiosi hanno tentato infatti di collocare l’Arcadia al centro del Peloponneso, giustificandosi nel solito modo: se la Tule iperborea apparteneva al «regno del mito», lo stesso criterio doveva valere per il mondo di semplicità naturale e armonia che l’abbracciava (Plinio il Vecchio, Storia Naturale – Libro IV, capitolo 26, Einaudi, Torino, 1997).
In quell’universo senza tempo e lontano dalla corruzione della civiltà dove l’uomo poteva ritrovare la sua essenza più autentica, vissero e perirono le ultime anime selvagge, delle quali Pan può dirsi l’emblema. Questo ibrido a metà strada tra l’uomo e il caprone scorrazzava nei boschi in compagnia di satiri e driadi, naiadi e ninfe delle acque. Alcune genealogie (ad es.: Servio nel commento all’Eneide di Virgilio, Ad Aen. 2.325) lo ritengono figlio di Crono e di Rea, il che sposterebbe la sua data di nascita in un tempo di gran lunga anteriore (cioè, «atlantico»?) rispetto a quello che gli viene solitamente attribuito, rendendo il «dio cornuto» addirittura più vecchio di Dioniso e Apollo, perciò fratellastro di Zeus e del centauro Chirone.
Sotto l’aspetto simbolico Pan è movimento e comunicazione (Hermes), appartiene a un arcano cielo luminoso e al Tempo associato al «meriggio» che porta il suo nome. In quest’ora del giorno egli volava (come uno sciamano) verso altezze inaccessibili, cantando e danzando lontano da sguardi indiscreti. Non risulta tuttavia che la Grecia abbia avuto uno sciamanesimo formalizzato, ma semmai Pizie e Indovini, o Maghi guaritori. Persino gli Orfici trasudavano influenze tracie e asiatiche; dunque, a quale contesto appartiene il Grande Pan? A prima vista, la sua figura incarna l’essenza della «resistenza»: è l’ultimo baluardo di una stirpe gloriosa che, dopo vicissitudini inimmaginabili, conobbe un ultimo, fugace momento di serenità sulle rive del Mediterraneo, prima di estinguersi.
Corni e conchiglie
Tra gli elementi che provano l’estrema antichità di Pan c’è la cornice «acustica» che lo inquadra. Antesignano del pifferaio di Hamelin il dio-capra non suonava la lira come Orfeo e Apollo bensì uno strumento a fiato, le cui vibrazioni (primordiali, come le percussioni) risvegliavano i boschi e le radure, le selve e le montagne, i fiumi e i deserti.
Quintessenza verde della flora creata Pan vigilava durante il giorno su un ambiente arcano il cui dominio notturno spettava a Orione, il cacciatore celeste che minacciava il Toro mentre i Cani inseguivano la Lepre. Nell’emisfero settentrionale questo tracciato stellare era ben definito da dicembre a febbraio, cioè nel periodo tradizionalmente dedicato alla caccia di lepri e volpi, che per loro sfortuna erano più visibili sulla neve.
L’equilibrio naturale sopra descritto non doveva essere turbato per nessuna ragione: chi osava oltrepassare il limite veniva travolto dal «terrore panico», la temuta «paura di Pan», che ripristinava l’ordine e dissipava ogni energia negativa; come dimenticare il finimondo scatenato dal suono della tromba di conchiglia di Pan, quando si trattò di porre fine all’assedio dell’Olimpo da parte dei Titani.
Qualora le vibrazioni emesse dalla conchiglia (acqua) non bastassero, gli ultimi esseri selvatici ricorrevano a quelle più energiche del corno (terra), spesso legate a eventi epici o apocalittici, portatori di cambiamenti radicali. In quanto figura di transizione, il dio-capra padroneggiava entrambi gli strumenti, alternando tra loro l’eco profondo del mare al richiamo selvaggio della terra. Nell’emisfero settentrionale, comunque, non era il solo difensore dell’anima mundi.
Ad esempio Tlaloc, il dio azteco (olmeco?) della pioggia e dei fulmini tuonò con il corno vibranti ammonizioni per ricordare agli uomini la necessità di rispettare le forze cosmiche, pena il caos. Analogamente nella mitologia norrena il «corno risonante» di Heimdallr diede l’allarme il giorno del Ragnarök. Un «corno magico» permise a Mimir di attingere le ultime gocce di sapienza alla sorgente di Mimisbrunnr (Snorri Sturluson, Edda in prosa, L’inganno di Gylfi, 15-27-51). Nella Bibbia le trombe suonate dagli Israeliti fecero crollare le mura di Gerico, segnando la vittoria del popolo di dio (Giosuè 6:1-27). Nella tradizione islamica l’angelo Isrāfīl annunciò con la tromba il Giorno del Giudizio, risvegliando i morti per la resurrezione (Sura Az-Zumar, 39:68). Idem nel Libro dell’Apocalisse … e così via.
In ambito storico-antropologico, il suono di una tromba o di una conchiglia segna la fine di un’Era e l’inizio di una nuova. Relativamente al periodo trattato, nello spazio liminale, o caos creativo, abitava Pan, metafora della linea mediana tra due dimensioni distinte ma interconnesse. Proprio per questa ragione Greci e Latini distinguevano sulla testa del dio-capra il «corno destro» (associato alla luce, alla ragione, all’ordine e alla forza positiva, alla fertilità e alla gioia della vita pastorale) dal «corno sinistro» (simbolo di oscurità, istinto, forza selvaggia, sessualità sfrenata e paura improvvisa, da cui il termine «panico»). Non ci sono elementi in grado di provarlo, ma all’interno di questa «corona» cornea (< radice indoeuropea KRN, con significato di elevazione e potenza) potrebbe avere trovato terreno fertile il seme del «pensiero dualista», tuttora in auge.
Pan, l’ultimo della stirpe nordatlantica
All’opposto dell’uomo moderno convinto di procedere di bene in meglio, gli Antichi credevano nel progressivo degrado delle epoche che si allontanavano dall’Origine al passo con le Ere Precessionali, tutte rappresentate da figure zodiacali.
Il livello di elevazione spirituale di un popolo veniva calcolato in relazione al suo tempo; per esempio, il grado di spiritualità raggiunto dagli Indoeuropei nell’Età del Toro (4.480 – 2.320 a.C. circa) era ritenuto «superiore» rispetto a quello della successiva Età dell’Ariete (2.320 – 160 a.C. circa), popolata da eroi tragici dalla vita fugace e tormentata.
Personificazione della forza stabile il Toro appariva più affidabile dell’impulsivo Ariete, le cui corna contorte ricordavano la complessità del divenire. Analogamente la forza capronica di Pan era lontana dalla regalità delle impalcature dei cervidi primordiali (vedasi lo sciamano della grotta di Ariege, risalente al 13.000 a.C., o il celtico Cernunnos). Nelle tradizioni popolari agresti del continente europeo figure come la sua (il caprone) e quella di Dioniso (il toro) sono infatti inserite in un ambiente bucolico ma non più edenico, dove la fatica della mietitura evoca lo spirito del grano (J. G. Frazer, Il Ramo d’oro, 1992).
Nello zodiaco l’Ariete è l’ultima figura cornuta prima dei Pesci, che tradizionalmente inaugurano la Storia e spingono l’umanità fuori dalla Preistoria. Quanto poi alla dipartita di Pan, non si contano le congetture, la più nota delle quali riguarda una «storia di mare» (ricollegabile alla fine della stirpe nordatlantica?) riportata a Plutarco da un certo Epiterse (De defectu oraculorum, 17).
Tempo addietro l’egiziano Thamus, capitano di una nave che trasportava merci e passeggeri dalla Grecia a Roma, sul fare della sera si trovò in prossimità delle remote isole Curzolari (o Echinadi). Mentre l’imbarcazione costeggiava lentamente l’isola di Paxi, da terra si levò un potente richiamo: “Thamus, Thamus!” Sorpreso il capitano si fermò ad ascoltare. La voce tornò a farsi sentire, dicendo: “Quando sarai all’altezza di Palodes annuncia che il grande Pan è morto”. Subito dopo, gli occupanti della nave udirono provenire dalla terraferma un coro di lamenti. Thamus eseguì l’ordine, e così fu fatto.
La figura di Thamus richiama quella del comandante della nave Argo, la cui omonima costellazione è oggi suddivisa in Vela, Carina e Puppis. Alla guida della nave celeste c’è la brillante stella Canopo, la cui poppa si trova di fronte a Sirio, la «stella del cane», per nulla estranea alla figura del dio-capra.
Il Grande Pan era una figura agreste mentre Sirio (Svati, Tishtrya, Sothis) ebbe un ruolo importante legato alla fertilità, alla pioggia e ai cicli agricoli. Dunque la morte di Pan potrebbe essere una rappresentazione della «caduta del Tempo e della Natura» (G. de Santillana, H. von Dechend, Sirio, Adelphi, Milano, 2020).
In sintesi: con Pan muore il mondo arcaico insieme a tutti gli dèi. Vengono meno i punti di riferimento precedenti, mai realmente compensati dai successivi. A nulla valgono gli avvertimenti dei più lungimiranti che presagiscono un decadimento in termini di perdita dell’eredità primordiale. Incurante la maggioranza procede a tentoni come i sonnambuli di Christopher Clark, indifferente al crollo dei pilastri culturali e antropologici che reggono l’intera costruzione.
Se chi legge sta facendo paragoni con il primo quarto del XXI secolo, ha perfettamente ragione. Eppure qualcosa resiste, sempre, anche quando tutto il resto sembra dissolversi nel nulla. Accadde la stessa cosa dopo i diluvi e le atlantidi, quando alcuni «resistenti», sfidando le restrizioni e le violenze imposte dall’editto di Teodosio, o di Tessalonica (380 d.C.), rifiutarono di abbandonare la strada tracciata da Pan, misterioso e ineffabile guardiano dei silenzi e dei misteri, voce arcana della Natura. Il suo spirito vaga tuttora in mezzo a noi poiché ciò che è profondamente radicato negli abissi più remoti dell’essere non può essere estirpato. Rimane lì, in agguato, pronto a scatenarsi quando il mondo meno se l’aspetta, sfidando il tempo e l’oblio.
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