Per gli storici, la guerra d’inverno è il conflitto che nel 1940 oppose l’Unione Sovietica alla Finlandia, tentando di annetterla come aveva già fatto con altri Paesi che avevano fatto parte dell’impero zarista, e riuscendo sì a strapparle alcuni territori, ma nel complesso fallendo clamorosamente, nonostante un rapporto di forze di cento a uno, un fallimento ben peggiore e meno giustificabile delle difficoltà che incontra oggi la Russia in Ucraina, che sappiamo essere stata stra-riempita di armi della NATO.
Ma la guerra d’inverno di cui vorrei parlarvi ora è un’altra, la mini-guerra fredda, per fortuna soltanto verbale non, diciamo, fra Italia e Russia, ma fra il presidente della repubblica italiana Sergio Mattarella e l’ambasciatrice russa Maria Zakcharova.
Dopo che il “nostro” presidente ha insultato la Russia e la signora Zakcharova gli ha risposto per le rime, è scattata automatica la solidarietà a Mattarella di tutto il cosiddetto mondo politico, da destra e da sinistra, una solidarietà, come si dice oggi con un orribile neologismo, “bipartisan”, ma c’è veramente da chiedersi se tutto ciò, in ultima analisi, non dimostri altro che il fatto che i membri della classe politica, di destra e di sinistra, piuttosto che rappresentare i rispettivi elettorati, non siano in definitiva che qualcosa di sostanzialmente uniforme, non rappresentino altro che loro stessi, quella che non senza ragione è stata definita “la casta”.
Per capire bene la situazione, bisogna tenere conto che le esternazioni stizzite del “nostro” presidente a vita sono una diretta conseguenza della situazione internazionale creatasi con il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump.
Sicuramente, la rielezione di Trump ci ha dato per la seconda volta la soddisfazione di vedere i sinistri di casa nostra rosicare e masticare veleno, ma non dobbiamo dimenticare che quell’uomo è pur sempre un presidente degli Stati Uniti, e quel che è peggio, uno yankee.
Fin dalla sua rielezione, senza nemmeno attendere l’inizio del suo secondo mandato, ha iniziato a muoversi nel complicato mondo delle relazioni internazionali con la grazia e la delicatezza di un elefante in una cristalleria.
Ad esempio la sua idea di allontanare “temporaneamente” i Palestinesi da Gaza intanto che gli USA si occuperebbero della ricostruzione, non si capisce se sia terribilmente ingenua o sottilmente perfida, di certo, una volta allontanati dalla loro terra, gli Israeliani non permetterebbero loro di ritornarvi, ma se ne avvarrebbero per portare avanti il loro progetto di sradicamento-sterminio che è la fotocopia di quello attuato dagli yankee nel XIX secolo e che ha portato alla cancellazione delle popolazioni americane native “pellirosse”.
Ma quello che più importa per capire l’esternazione del figlio di don Bernardo, è l’atteggiamento di Trump sulla questione ucraina, che consiste in poche parole nel portare avanti un negoziato diretto con la Russia di Putin.
La conseguenza di ciò è molto chiara, l’Unione Europea viene a trovarsi nell’angolo morto, scopre di essere irrilevante nei termini della politica internazionale a livello planetario. Attraverso Trump, gli USA ci hanno ricordato che siamo buoni solo per fornire risorse da sfruttare, che la nostra posizione è quella di servitori senza voce in capitolo del colosso a stelle e strisce.
Da qui la stizza dei presunti leader europei che si ritrovano con gli altarini scoperti, e la finta indignazione per una situazione che in realtà conoscono benissimo, e non da ora, della quale hanno approfittato dando ai rispettivi sudditi un’illusione di sovranità.
Più servi e servili di tutti, i politici italiani, quelli i cui altarini si trovano maggiormente scoperti, ed è quindi ovvio che siano quelli a fare il maggiore strepito, a cominciare dal “nostro caro” presidente, dopo che i fatti hanno svelato la natura puramente parassitaria della casta che rappresenta.
C’è veramente da chiedersi cosa avrebbe dovuto fare la Russia secondo il figlio di don Bernardo, lasciare gli armamenti della NATO avvicinarsi sempre più a Mosca? Permettere all’Ucraina di eliminare i russi del Donbass, come il caro Zelensky stava già facendo da otto anni?
Ma soprattutto viene da chiedersi, come dice il proverbio, da che pulpito venga la predica.
Qui mi tocca riprendere un discorso che ho già fatto con ampiezza altrove, sempre sulle pagine di “Ereticamente”. Non credo che l’Italia sia nelle condizioni di dare lezioni di democrazia a chicchessia.
Io mi sono occupato a lungo dell’architettura istituzionale del “nostro” stato e della costituzione “più bella del mondo”, come l’ha definita Roberto Benigni, molto più serio quando fa il comico, di quando si mette a fare il giurista, probabilmente dettata dietro le quinte dai vincitori del secondo conflitto mondiale, e mostrato come essa sia in realtà disseminata di trappole per vanificare la volontà popolare.
In particolare, per quanto riguarda la figura del capo dello stato, solitamente ricorrono due tipologie, o viene eletto dalla classe politica, ma è una figura simbolica o poco più, oppure, se dotato di ampi poteri, è scelto dal voto popolare, come capita negli Stati Uniti, in Francia e – guarda caso – in Russia.
Noi in Italia abbiamo un presidente non eletto dal popolo ma dalla casta, dotato di ampi poteri, con la durata del mandato di un settennato rinnovabile, praticamente a vita, il che rende l’Italia più simile a una monarchia elettiva, del tipo del Vaticano o del Sovrano Militare Ordine di Malta che a una repubblica vera e propria.
Qualche tempo fa avevo espresso lo stesso concetto in un post su Facebook, solo che al posto di monarchia elettiva avevo scritto “non dinastica”, e qualcuno mi ha fatto notare che questo non era proprio esatto, visto che il padre del “nostro” presidente, don Bernardo, è stato un uomo d’onore siciliano sui cui legami occulti è meglio non approfondire. Dubito fortemente, quindi che l’Italia sia nelle condizioni di impartire lezioni di democrazia a chiunque.
Ma, oltre a ciò, sarebbe il caso di approfondire nello specifico, chi è l’uomo che, lo ripeto, non da un’elezione popolare, è stato posto al vertice del nostro stato.
Noi a Trieste, Sergio Mattarella ce lo ricordiamo bene, e bene ci ricordiamo della visita nella nostra città che fece nel 2020. Lui, che, come del resto la gran parte dei “nostri” politici, non si era mai scomodato a venire nelle nostre terra per ricordare la tragedia degli eccidi delle foibe, e dell’esodo a cui furono costretti migliaia di connazionali da terre un tempo italianissime, venne per sancire la cessione alla Slovenia della Scuola Interpreti già appartenente all’ateneo triestino, che aveva il torto di sorgere sul luogo di un presunto crimine fascista in realtà mai avvenuto, l’incendio dell’hotel Balkan, di cui ricorreva il centenario.
Io vi ho già raccontato di come andarono effettivamente le cose, ma, dato il tempo trascorso, sarà bene riassumerle. Nel luglio 1920 furono uccisi a Spalato da terroristi slavi Tommaso Gulli e Luigi Rossi, comandante e motorista della nave “Puglia”, che tra l’altro era stata inviata per prestare soccorso alle popolazioni stremate dalla penuria causata dalla Grande Guerra e dall’epidemia di spagnola.
In risposta a ciò, vi fu a Trieste il 13 luglio una grande manifestazione italiana, a cui certamente parteciparono elementi fascisti, ma non solo loro. Durante il corteo, provocatori slavi accoltellarono, uccidendolo, un ragazzo, Giovanni Nini. A questo punto la folla si diresse verso l’hotel Balkan che era la sede del Narodni Dom e di altre organizzazioni slovene e anti-italiane. Gli slavi, per i quali gli Italiani erano evidentemente solo carne da macello, aprirono il fuoco dalle finestre dell’edificio, uccidendo un finanziere, il tenente Luigi Casciana, che faceva parte del servizio d’ordine che era stato messo a protezione dello stesso hotel.
A questo punto gli italiani irruppero nell’edificio e scoppiò l’incendio, ma le testimonianze dell’epoca sono molto chiare. Il fuoco divampò dai piani superiori dove gli italiani non erano ancora arrivati. Con ogni probabilità fu casualmente appiccato dagli sloveni stessi, nella foga di distruggere documenti che non dovevano cadere in mano alle autorità italiane.
Naturalmente, di questi fatti, si è fatta dopo il 1945 una narrazione del tutto distorta, e possiamo assolutamente presumere che non sia stato il solo “crimine fascista” inventato di sana pianta.
Nel 2020 non è stata la prima volta che la repubblica democratica e antifascista ha fatto indebiti regali, prima alla Jugoslavia, poi a partire dalla disgregazione di questo stato nel 1991 alla Slovenia, senza contropartite di sorta, tanto per mortificare lo spirito italiano delle nostre terre. Nel 1947 toccò alla città di Pola, nel 1954 a parte della zona A del mai costituito Territorio Libero di Trieste con il villaggio di Crevatini, nel 1975 con l’accordo di Osimo alla residua sovranità italiana sulla zona B dello stesso TLT. Il fascismo si era fatto del patriottismo un dovere, di conseguenza la repubblica antifascista tiene l’amor di patria nel più assoluto disprezzo.
Ma a tutto ciò, Sergio Mattarella è riuscito ad aggiungere un ulteriore tocco di vergogna e ipocrisia. Nel corso della sua visita, prima di andare a fare un salutino alla foiba di Basovizza, l’unica in territorio rimasto italiano, ma che ci ricorda anche le centinaia di altre sparse per l’Istria e la parte – circa il 90 per cento del territorio prebellico della Venezia Giulia – finita sotto gli artigli della Jugoslavia, dove i nostri connazionali, colpevoli appunto di essere italiani, furono massacrati senza pietà dai partigiani comunisti slavi, si è premurato di recarsi in compagnia del presidente sloveno Borut Pahor a rendere omaggio al cippo del poligono di tiro di Padriciano dove nel 1930 furono giustiziati quattro terroristi sloveni.
Capite l’insulto fatto ai nostri morti? Sono stati messi sullo stesso piano migliaia di civili innocenti, colpevoli di null’altro che di essere italiani e quattro terroristi condannati perché responsabili di fatti di sangue.
C’è una foto davvero patetica scattata in quella circostanza, dove si vedono i due presidenti tenersi per manina come due vecchi gay.
Dulcis in fundo è stata conferita un’onorificenza allo scrittore Boris Pahor (curiosamente quasi omonimo del presidente sloveno) negazionista delle foibe.
L’onorevole Renzo de Vidovich ci informò che per l’occasione era stata vietata una manifestazione contro l’indebita cessione della Scuola Interpreti alla Slovenia, non solo, ma a Basovizza era stato proibito all’Unione degli Istriani di esporre il proprio gagliardetto, non si doveva ricordare che decine di migliaia di italiani erano stati scacciati dalla loro terra, messi di fronte alla crudele alternativa di abbandonare tutto ciò che avevano o finire orrendamente trucidati nelle foibe. Come sempre, si è visto che la grande arma della democrazia è tappare la bocca a chi la pensa diversamente, ed epurare le verità scomode.
Ultimamente, il figlio di don Bernardo è tornato alla carica, dicendoci che la ricorrenza del 10 febbraio in cui si ricordano le tragedie delle foibe e dell’esodo non deve essere divisiva. Davvero? Quindi dovremmo mettere sullo stesso piano le vittime e quanti hanno sempre denunciato le atrocità compiute dai partigiani comunisti jugoslavi, con chi si è prestato alla più abietta complicità e le ha coperte con decenni di colpevole silenzio. Che montagna di ipocrisia!
Forse ignora, ma la cosa mi sembra improbabile, dato che ne hanno parlato i telegiornali, che proprio alla vigilia del 10 febbraio, il monumento della foiba di Basovizza è stato imbrattato con scritte in sloveno inneggianti alle foibe ed espressioni di odio contro gli Italiani. Questi nuovi partigiani hanno lo stesso livore anti-italiano di quelli di allora, ma se la prendono coi morti e coi monumenti perché sono troppo vigliacchi per affrontare i vivi.
Sergio Mattarella non è, e non sarà mai il presidente di tutti gli Italiani, solo di una parte di loro, e non certo la migliore, ma forse in definitiva, lo è solo della casta.
Detto questo, però occorre precisare che almeno una parte delle affermazioni della signora Zakcharova sono inaccettabili e irricevibili. Costei ha precisato che proprio l’Italia è stata la patria del fascismo, e che è stata la Russia a sconfiggere la Germania nella Grande Guerra Patriottica.
Il fascismo è stato una forma di socialismo autoritario, certo, ma ha dato un notevole contributo alla modernizzazione dell’Italia, e in ogni caso è rimasto ben lontano dall’abisso di orrore in cui il bolscevismo, di Stalin, ma anche di Lenin prima e di Breznev poi, ha precipitato la Russia e le altre nazioni sottomesse. Siamo stati la patria del fascismo, ma non abbiamo alcun motivo di provarne vergogna.
La verità nascosta dietro la retorica della Grande Guerra Patriottica, è stato proprio un russo a rivelarcela, Vladimir Rezun, ex agente del KGB, che ha avuto accesso a documenti riservati dei servizi segreti sovietici, nel suo libro Il rompighiaccio. L’operazione Barbarossa non fu che un disperato tentativo dei Tedeschi di sventare un’imminente invasione sovietica, e tra l’altro pose fine a uno dei più orrendi crimini della storia moderna, l’holodomor, il genocidio per fame del popolo ucraino decretato da Stalin.
Non stupisce di trovare oggi fra gli ucraini che combattono contro la Russia, simboli in uso in Germania nel periodo tra 1933 e 1945, sono ben consapevoli di essere stati salvati dai Tedeschi, che devono all’operazione Barbarossa se esistono ancora come popolo.
Peccato solo che non siano altrettanto consapevoli di essere usati come burattini dal NWO in vista di una dominazione planetaria di cui la Russia, oggi non più comunista, è forse l’ultimo ostacolo, come lo fu la Germania fino al 1945.
Buona parte delle affermazioni della signora Zakcharova andrebbero dunque respinte al mittente, ma come facciamo a schierarci dalla parte del figlio di don Bernardo?
NOTA: Nell’illustrazione, un’immagine della Guerra d’Inverno, quella vera del 1940 fra Russia e Finlandia.