Per una singolare coincidenza storica, la prima metà di giugno, anzi andiamo poco oltre la prima decade, presenta l’accavallarsi di tre ricorrenze storiche, il 10 giugno 1940 l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, il 12 giugno 1945, la cacciata da Trieste ad opera delle truppe neozelandesi delle bande dei partigiani comunisti jugoslavi che per quaranta giorni avevano avvolto la città giuliana in un sudario di sangue, e il 2 giugno 1946 la proclamazione della repubblica italiana.
Poiché riguardo a tutti e tre questi eventi esistono e hanno ampia circolazione interpretazioni distorte e faziose, vedrò ora di ripercorrerli dicendo qualche parola di verità negata o dimenticata.
10 giugno 1940. La decisione di infilarsi nel tunnel della Seconda guerra mondiale, destinata a costarci innumerevoli lutti, a portarci a un’umiliante sconfitta, a vaste mutilazioni territoriali, e inoltre alla resa disonorevole dell’8 settembre 1943 e, come se non bastasse, al sanguinoso strascico della guerra civile, fu certamente una decisione improvvida, ma perlopiù si ignorano le circostanze in cui essa fu presa, addebitandola semplicemente alle ambizioni imperialistiche di Mussolini.
Lo scopo dell’Italia fascista nell’entrare in questo conflitto era quello di portare a conclusione l’edificio ancora incompleto dell’unità nazionale: ottenere Nizza, la Savoia, la Corsica sotto dominio francese, Malta in mani inglesi, la Dalmazia facente parte storicamente della Serenissima, ma che ci era stata negata dalla pace di Parigi del 1919, ed era passata sotto la Jugoslavia. Se questo vi sembra deprecabile, allora dovete condannare anche il risorgimento.
Occorre dire che nel giugno 1940 l’imminente capitolazione della Francia lasciava presagire una rapida conclusione del conflitto, e non avremmo certo conseguito questi obiettivi con la semplice non belligeranza.
D’altra parte, si ricorderà che lo stesso Hitler aveva fermato le divisioni corazzate lasciando che il contingente inglese si reimbarcasse a Dunkerque, e nell’incontro di Montoire con il generale Petain, aveva dimostrato la disponibilità a un trattamento benevolo della Francia sconfitta. Non c’era alcun motivo di pensare che la guerra, invece di concludersi, si sarebbe allargata a macchia d’olio, sarebbe durata ancora cinque durissimi anni durante i quali l’intera Europa sarebbe stata ridotta a un cumulo di macerie.
Chi invece lo sapeva benissimo, era chi la guerra l’aveva provocata dietro le quinte, inducendo la Polonia a irrigidirsi sulla questione di Danzica, che era una città tedesca.
Un indizio importante lo si ricava dal discorso di Charles De Gaulle da radio Londra.
“Questa guerra è una guerra mondiale. Nell’universo libero, forze immense non sono ancora entrate in campo. Un giorno queste forze schiacceranno il nemico”.
E’ chiaro che, una volta messo a capo delle forze francesi riparate in Inghilterra assieme al contingente britannico, deve essere stato informato del piano, non solo di proseguire la guerra, ma di allargarla a dimensioni planetarie, fino a travolgere Germania e Italia.
Proprio all’inizio del suo celebre Navi e poltrone, Antonino Trizzino riporta un documento da lui scoperto: una richiesta dell’ammiragliato inglese di una fornitura di siluri aerei in previsione di una guerra navale contro l’Italia. Il documento è datato 1938, risale cioè all’epoca in cui la Gran Bretagna premeva su Mussolini per farsi mediatore con Hitler per quello che poi fu l’accordo di Monaco, è chiaro l’atteggiamento inglese, il ramo di ulivo in una mano, il pugnale per colpire alla schiena nell’altra.
Un altro fatto da considerare, è che gli ambienti degli alti gradi militari vicini alla corona che premettero su Mussolini per arrivare al conflitto, fecero di tutto per nascondergli lo stato di impreparazione delle nostre forze armate, dissestate dall’aver sostenuto il peso di due recenti conflitti, in Etiopia e Spagna.
Si prese la decisione di articolare le brigate del Regio Esercito non più su tre, ma su due battaglioni, in modo di aumentare di un terzo le divisioni teoricamente disponibili senza che i nostri effettivi aumentassero di un solo uomo. Ancora, sempre sulla carta, le cingolette L3 e L33, buone come veicoli esploranti o per il traino di artiglieria, furono trasformate in CV – carri veloci – creando la finzione di unità corazzate di fatto inesistenti.
Non parliamo del modo in cui fu impiegata la nostra marina. I convogli che dovevano attraversare il Mediterraneo per portare i rifornimenti indispensabili per il fronte africano furono mandati allo sbaraglio in un mare dominato dalla flotta inglese, tuttalpiù con la scorta di qualche cacciatorpediniere, mentre corazzate e incrociatori erano tenuti alla fonda nell’attesa di andare nel settembre 1943 a Malta ad arrendersi agli Inglesi.
Antonino Trizzino l’ha documentato nel suo libro Gli amici dei nemici. Gli alti comandi militari che avevano premuto per l’entrata in guerra dell’Italia, iniziarono da subito a passare informazioni sottobanco agli Inglesi. Le loro finalità sono chiare, contavano sulla sconfitta per sbarazzarsi del fascismo, era uno sporco gioco condotto sulla pelle dei nostri soldati, dei nostri marinai, delle nostre popolazioni, un tradimento dei più abietti.
Per quanto riguarda il 12 giugno, sebbene sia una ricorrenza “locale”, ve ne ho già parlato ampiamente, ma è un tipo di discorso sul quale non si insisterà mai abbastanza, perché contraddice, prove storiche alla mano, la narrazione storica corrente, la vulgata dei fatti raccontata dalla cosiddetta democrazia.
Il 12 giugno 1945 le truppe blindate neozelandesi inquadrate nell’ottava armata britannica arrivarono a Trieste, costringendo i partigiani comunisti del maresciallo Tito ad allontanarsi, e ponendo fine all’incubo di atrocità che costoro avevano scatenato sulla città giuliana per quaranta terribili giorni. Purtroppo le altre terre italiane cadute sotto gli artigli della belva slavo-comunista, l’Istria, la Dalmazia, Fiume, il 90% della Venezia Giulia prebellica, non ebbero la stessa fortuna. I partigiani slavo-comunisti misero i nostri connazionali di fronte a una semplice alternativa, o andarsene abbandonando tutto quello che avevano, o finire orribilmente ammazzati nelle foibe.
Non ci consola il fatto che altrove l’Armata Rossa stesse facendo la stessa cosa contro tedeschi, ma anche finlandesi, ungheresi, romeni, chiunque avesse la disgrazia di trovarsi sul suo cammino. Tutto ciò rientrava in un piano per far avanzare il mondo slavo a spese degli altri.
“Il suolo straniero si può annettere, il sangue straniero no. O lo si allontana o lo si elimina” Hitler l’ha scritto nel Mein Kampf, ma sono stati i comunisti a metterlo in pratica. Che condizioni sociali simili affratellino gli uomini al di là delle differenze etniche e nazionali, “proletari di tutto il mondo, unitevi”, è una fiaba in cui i comunisti sono stati i primi a non credere.
Se a Trieste è capitato di sottrarsi al crudele destino toccato al resto delle terre italiane cadute sotto gli artigli jugoslavi, non senza aver pagato comunque un pesantissimo scotto di sangue di cui sono la riprova le ossa dei nostri concittadini che giacciono nella foiba di Basovizza, questo fu un caso fortunato. In aprile era morto il presidente americano Franklin Delano Roosvelt, e a differenza sua, il suo vice e successore, Harry Truman a cui Stalin non ispirava nessuna fiducia, decise di fermare l’avanzata del comunismo, e di farla regredire ovunque fosse possibile, cosa che però fu possibile solo da noi, dove gli occidentali si confrontavano con le bande titine e non con l’Armata Rossa.
Io penso che oltre che un criminale che diede agli USA la licenza di condurre una guerra basata soprattutto sui bombardamenti contro le popolazioni civili, come il suo degno compare Churchill, Roosvelt sia stato anche uno dei personaggi più ipocriti della storia umana, riuscì a illudere i suoi connazionali di combattere per la libertà mentre si apprestava a consegnare la metà orientale del nostro continente alla più feroce e sanguinaria delle tirannidi. Diciamo la verità, se quell’uomo fosse vissuto due settimane di più, Trieste sarebbe diventata un pezzo di Jugoslavia, e oggi di Slovenia.
Parliamo della proclamazione della sedicente repubblica italiana, avvenuta a seguito del referendum del giugno 1946 e la cui ricorrenza è stata convenzionalmente fissata al 2 giugno, anche se le date non coincidono proprio esattamente.
Da più parti è stato avanzato il sospetto che si sia trattato di un referendum truccato, il cui esito era stato già deciso in partenza, e non certo dagli Italiani, ma dai vincitori.
Sinceramente, non ho certezze a questo riguardo, ma la cosa mi sembra tutt’altro che inverosimile, e sembra tragicamente ironica se facciamo il confronto con il Giappone. Con l’8 settembre, Vittorio Emanuele III ha cercato di dissociare le sorti della monarchia e della dinastia sabauda da quelle dell’Italia, in modo da salvare casa Savoia dopo l’inevitabile sconfitta, con il risultato che conosciamo, mentre la casa imperiale giapponese che ha continuato a guidare la lotta del suo popolo fino all’ultimo, è rimasta al suo posto, e regna ancora oggi sul Sol Levante. E’ una lezione importante che se ne può trarre, un avversario leale riceve maggior rispetto di un traditore, anche da parte di chi di questo tradimento ha beneficiato.
Tuttavia, da un certo punto di vista, la cosa non sposta molto se non come dimostrazione del fatto che quella concessaci dai vincitori che non hanno mai smesso di opprimerci da ottant’anni, è una sovranità limitata e fittizia. Infatti, i risultati elettorali estremamente modesti ottenuti dai partiti monarchici nel dopoguerra dimostrano che casa Savoia era definitivamente caduta dal cuore degli Italiani.
E se riflettiamo sui tragici fatti del settembre 1943, vediamo che non c’è alcun motivo di stupirsene. Il momento veramente decisivo, io penso, non fu tanto l’8 in cui venne annunciato l’armistizio che era stato concluso segretamente il 3, ma la mattina del 9, quando il re e il governo Badoglio disertarono vigliaccamente, fuggendo da Roma per andare a consegnarsi al nemico che da allora divenne “l’alleato” anche se non per questo smise di seppellire le nostre città sotto tonnellate di bombe, lasciando le forze armate e il Paese allo sbando e alla guerra civile, già di fatto cominciata con l’assassinio di Ettore Muti, delitto dietro il quale non era difficile intuire lo zampino della corona, ma questa, se in questo tradimento che ha segnato l’onore dell’Italia di una macchia indelebile sia stato più importante l’8 o il 9, è una questione che si può lasciar dirimere agli storici.
Noi possiamo limitarci a constatare che con questi eventi andarono bruciate in un colpo solo tutte le benemerenze che casa Savoia potesse aver acquisito verso l’Italia durante il risorgimento.
Poi, come certamente sapete, la causa monarchica in Italia ha cessato definitivamente di esistere quando Vittorio Emanuele, figlio di Umberto II, l’ultimo re che fu tale per un mese, fu coinvolto in un omicidio all’isola corsica di Cavallo, sebbene il suo lignaggio gli abbia impedito di finire in galera come sarebbe successo a un comune mortale.
Tuttavia, oserei dire che tutto sommato questa ricorrenza del 2 giugno non ha molta rilevanza, infatti è piuttosto chiaro che la “nostra” repubblica, nonostante il mutamento istituzionale, è in buona sostanza la continuazione del governicchio badogliano costituito a Brindisi sotto l’ombrello dei nemici magicamente trasformati in “alleati”.
Lo dimostra l’incuria che ha sempre manifestato per l’interesse e per la stessa integrità territoriale dell’Italia. Sul confine orientale, sebbene ci trovassimo fino al 1991 a fronteggiare una feroce dittatura comunista che, per di più, si era resa responsabile dell’eccidio di migliaia di nostri connazionali, possiamo ricordare nel 1947 la cessione di Pola, nel 1954 con la fine dell’amministrazione angloamericana sul mai costituito Territorio Libero di Trieste, di parte della zona A dello stesso con il villaggio di Crevatini, nel 1975 con il trattato di Osimo, della residua sovranità italiana sulla zona B, il tutto sempre senza alcuna contropartita. Forse, secondo coloro che a Roma fingono di rappresentarci, con il secondo conflitto mondiale, le nostre terre non sono state mutilate abbastanza.
A occidente, dove confiniamo con la molto meno temibile Francia, si è lasciato, nell’indifferenza generale della “nostra” classe politica, che quest’ultima si annettesse prima il tratto di mar Tirreno fra Corsica e Toscana, poi la vetta del Monte Bianco con la fonte di reddito della stazione sciistica.
Io credo che le entità politiche che conosciamo come stati, abbiano un solo fondamentale motivo per esistere, quello della preservazione e della tutela dei popoli, delle etnie, delle nazioni che vivono sul loro territorio. Se questo scopo viene a mancare, sono solo dei baracconi inutili e parassitari.
Bene, vi invito a prendere in mano la “nostra” costituzione, “la più bella del mondo” secondo la definizione che ne ha dato il guitto Roberto Benigni, a scorrerla attentamente, poi sappiatemi dire se trovate un passaggio, un solo punto in cui sia anche solo menzionata la nazione italiana.
Un baraccone inutile e parassitario, che continua da ottant’anni a essere telecomandato dall’esterno dai vincitori che sono rimasti i nostri padroni, è precisamente questo che il referendum del giugno 1946 ci ha regalato.
NOTA: Nell’illustrazione, uno scorcio del Quirinale, palazzo simbolo della finta sovranità che è stata lasciata all’Italia.