di Gianluca Padovan
Parteggianti.
Oggi si continua a parlare di parteggianti. E più se ne parla più il loro numero cresce. D’altra parte l’Italia è una terra fertile. Si semina, si raccoglie, si mangia, si mangia, si mangia e la panza cresce unitamente alle leggende.
Amo questa terra piena di leggende.
Ma voglio raccontare di uno che di leggende non ne ha scritte. Si chiama Carlo Simiani, uomo politico, scrittore, giornalista. Viene considerato uno degli uomini che durante la Seconda Guerra Mondiale costituì in Italia la così detta “Resistenza”, dopo essere stato liberato dal carcere il 25 luglio 1943.
Prendo in mano il suo libro “I giustiziati fascisti dell’aprile 1945” e a pagina 10 leggo:
«I mesi precedenti l’insurrezione videro un potenziamento delle “brigate partigiane” ma è troppo chiamarle brigate; poche infatti superavano i 500 uomini, quasi la metà non ne contava più di 50, altre si aggiravano sui 100, 200 volontari. I vecchi partigiani della montagna e della macchia, quelli dell’autunno 1943, erano rimasti in pochi» (Carlo Simiani, I “giustiziati fascisti” dell’aprile 1945, Edizioni Omnia, Milano 1949, p. 10).
Dal momento che parliamo italiano, dobbiamo intenderci sul significato delle parole che utilizziamo.
Nel Vocabolario della Lingua Italiana leggiamo, alla voce brigata: «Riunione di persone, amici o parenti, per passare il tempo allegramente (…). Banda di gente armata, per lo più mercenari» (Istituto della Enciclopedia Italiana, Vocabolario della Lingua Italiana, Vol. I, Roma 1986, p. 521).
Chi cerca trova.
Prosegue Simiani:
«I partigiani si trovavano dovunque, ma il potere dei C.L.N. su di essi era molto limitato. D’altronde lo stesso Comitato Centrale di Milano non conosceva nè la dislocazione nè il numero, nè i comandanti della maggior parte delle formazioni» (Carlo Simiani, I “giustiziati fascisti” dell’aprile 1945, op. cit., pp. 10-11).
Per inciso, il C.L.N. è il Comitato di Liberazione Nazionale formatosi nel settembre 1943. Se non erro il CLN si è formato il 9 settembre 1943, il giorno dopo che alla radio il Maresciallo Badoglio ha annunciato la resa del Regno d’Italia… ovvero la resa incondizionata.
Bravi! A guerra finita ci si mette in campo: un po’ come dire che a partita finita io scavalco, entro in campo, do quattro calci al pallone e lo mando in rete.
Ma la manaccia fantasma -comunque- si agitava.
E riprende Simiani:
«Nei primi quattro mesi del 1945 il Comitato politico si riunì due sole volte, per cui era plausibile che le brigate agissero di propria iniziativa, prive come erano di ordini e di un vero e proprio comando generale efficiente. Questo, in effetti, prese a funzionare soltanto dal 23 aprile, malgrado fosse stato creato sin dal giugno 1944, quando d’ogni parte pervenivano notizie di movimenti e di azioni di partigiani, nonché dell’imminente sfacelo dell’esercito tedesco. In quei giorni ebbe inizio l’elefantiaco aumento dei volontari, che venivano accolti senza alcuna precauzione, pur di ingrossare le fila in vista di resistenze locali. E questo fu un gravissimo errore. Ebbero modo così di mescolarsi agli autentici combattenti della Libertà ogni sorta di individui tra i quali si immischiavano elementi dal passato dubbio e persone che speravano di procurarsi con poca fatica un certificato per l’avvenire» (Ibidem).
La partita dei parteggianti.
Il risultato della partita è presto definito: la curva insorge a fine secondo tempo, sfonda le recinzioni, invade il campo e l’arbitro che fa? Li dichiara vincitori.
Ebbene sì, lo ammetto: credo di non avere ben compreso le regole di cotal gioco. In buona sostanza deduco dalle parole di Simiani (e non da quelle sole!) che il coordinamento d’allegre brigate prende avvio, spesso solo sulla carta, dalla metà del 1944: ovvero dopo nove mesi dalla resa incondizionata. Un vero e proprio parto. Ma, attenzione, la macchina parteggiante comincia a ingranare nel 1945: «soltanto dal 23 aprile». Considerando che a Milano si ricorda come “liberazione” la data del 25 aprile 1945 e che la guerra mondiale termina ufficialmente per l’Europa il 7 maggio 1945 con la firma della resa a Reims, direi che i parteggianti si sono battuti coordinati per un tempo lunghissimo che va dai 2 giorni ai 14 giorni. Dei veri leoni.
Qualche anno fa un ex dirigente del Partito Comunista Italiano, che durante la guerra aveva pochi anni e abitava nelle case popolari di Sesto San Giovanni, mi ha accompagnato a visitare i rifugi antiaerei e i due “bunkerini” esistenti nell’ex area Falk di Sesto. Disse a un suo collega e a me che nei forni della Falk vennero fatte “sparire” molte persone ammazzate dai “parteggianti”… dopo la fine della guerra, ovviamente.
Se la partita prima o poi finì anche per i parteggianti, costoro non si vollero dare per vinti e ad ottant’anni di distanza ancora se ne discute.
Tresette col morto: la partita facile.
Sergio Nesi così scrive a proposito delle attività parteggianti:
«I comunisti furono i primi ad organizzare i G.A.P. (Gruppi Azione Partigiana), squadre organizzate sul modello del “mordi e fuggi” per colpi di mano con mitra e bombe. Il 13 dicembre si ebbe così il primo attentato a Sarzana. Altri gruppi, composti in maggioranza da ex prigionieri o inglesi o slavi (tra i quali i russi) fuggiti da campi di concentramento si assemblarono sugli Appennini tra La Spezia e Parma e tra La Spezia e Genova e Massa Carrara. Sulle alture attorno alla città e alle caserme della Decima si vennero a creare nuclei di resistenza, come ad Arcola e Sant’Anna, ma da essi non fu mai portato un attacco diretto né al Muggiano, né a san Bartolomeo, né al Varignano. Un rischio troppo forte. Erano preferibili altri metodi, utili specialmente per terrorizzare la popolazione: il 23 gennaio 1944 fu inaugurata dalla resistenza la stagione degli attentati. In quel giorno il partigiano gappista Ottorino Schiassolani attaccò eroicamente un tram in città, lanciandovi contro due bombe anticarro da un chilo ciascuna, uccidendo tre marò della Decima, due donne e un bambino e ferendo tutti gli altri passeggeri. Dal Tribunale della attuale Repubblica Italiana il partigiano fu assolto, perché quel massacro fu considerato “atto di guerra”» (Sergio Nesi, Junio Valerio Borghese un Principe un Comandante un Italiano, Ed. Lo Scarabeo, Bologna 2004, p. 291).