Il Quaternario fu un periodo di estrema instabilità climatica e l’Olocene, cioè l’epoca geologica attuale, partì in picchiata con il Dryas Recente (12.900-11.700 anni fa), un gelo improvviso che potrebbe corrispondere al «feroce inverno» (Fimbulvetr) narrato dalla mitologia norrena. Caso in cui il passaggio successivo, ossia la «fine del mondo» nordico, il Ragnarök, troverebbe riscontri in uno degli eventi apocalittici verificatisi a più riprese in prossimità della coltre glaciale Fennoscandiana (circa 12.000-10.000 anni fa).
C’è l’imbarazzo della scelta tra ghiacci bollenti e inondazioni travolgenti. Per esempio la Lapponia svedese intorno al 7.000 a.C. fu colpita dal «pärvieförkastningen», “la faglia di Pärvie“, uno dei più terrificanti terremoti conosciuti nella storia geologica dell’Europa (magnitudo +8). Lo sciame sismico aprì una scarpata di roccia alta 10 metri e lunga 155 chilometri che precipitando in mare causò l’inondazione singola più grande di tutto il Quaternario (C. Fletcher e C. Sherman, Submerged Shorelines …, Journal of Coastal Research, special issue n.17/1995, 147).
Non se la passò meglio la Norvegia, dove intorno al 6.200 a.C. la cosiddetta «frana di Storegga» riversò nell’Atlantico enormi colate di detriti fangosi (stimate in 3.500 km3) che scivolarono per circa 800 chilometri dalla piattaforma continentale norvegese in direzione nord-ovest. L’immane sfaldamento generò uno tsunami con onde alte 20-25 metri che andarono a schiantarsi sulle coste di Norvegia, Scozia, Isole Fær Øer ed altri litorali del Nordeuropa (C. Emiliani, Planet Earth, Cambridge University Press, 1995).
Proprio ad ovest, cioè dall’altra parte dell’Atlantico, un paio di secoli prima (6.400 a.C. circa) il disgelo aveva causato la fusione del lago Agassiz con il lago Ojibway, tra l’attuale Ontario settentrionale e il Quebec canadese. Un disastro altrettanto apocalittico che in concreto significò principalmente tre cose: sversamento di un’enorme quantità di acqua dolce nel mare oceanico, alterazione della salinità delle acque marine, inceppamento del meccanismo che consentiva alla Corrente del Golfo di spingersi fino alle alte latitudini [immagine 1].
Ancora oggi i climatologi s’interrogano per capire come poté il Sudamerica raffreddarsi per primo e in quale modo la salinità riuscì a ricostituirsi rimettendo in moto il nastro trasportatore, ovvero producendo la ripresa termica conosciuta come optimum climatico dell’Olocene (tra 9.000 e 5.000 anni fa).
Ma d’altronde l’incostanza sta nelle cose della Natura, infatti il flusso marino che consente il trasferimento di enormi quantità di calore tropicale dal Golfo del Messico all’Europa settentrionale ha già cambiato almeno 25 volte le condizioni climatiche di Artide e Antartide, con le ripercussioni globali che si possono immaginare.
Attualmente la corrente si sta indebolendo e perciò le regioni dell’Europa nord-occidentale devono aspettarsi cambiamenti climatici significativi con effetti potenzialmente irreversibili su scala decennale, o secolare. È comunque improbabile un evento di proporzioni catastrofiche in tempi brevi, nonostante oggi la velocità dei fenomeni abbia messo il turbo rispetto al lento succedersi dei cicli naturali del passato, rendendo difficile per gli ecosistemi e gli esseri viventi adattarsi.
Mentre la deglaciazione würmiana ebbe conseguenze devastanti e distrusse il Centro Sacrale secondario nordatlantico, costringendo gli Atlanti (d’ora in avanti, chiameremo così gli scandinavi preistorici) a sparpagliarsi verso le coste del Nordamerica (sud-ovest) e verso il Mar Baltico (sud-est).
Da Tula all’eternità
Tra le vittime eccellenti vi fu l’isola posta “al di là del vento” e chiamata dalla cultura ellenica Iperborea, dalla radice del termine nordico «cinghiale» (bor, da cui -borea), l’animale-totem di quanti in seguito rivendicheranno una qualche discendenza dal Centro sacrale groenlandese. Inclusi i Celti, i quali si dicevano originari di una «terra posta a nord-ovest, non troppo distante dall’Islanda».
Perché proprio il cinghiale? Per via dell’idea di ciclicità e fertilità incarnata in questo animale, secondo la versione corrente precariamente appoggiata sul presupposto dell’uomo moderno superiore all’uomo elementare, rozzo e privo di qualsiasi cognizione scientifica che lo ha preceduto. Magari, chissà, un giorno si scoprirà che tra i saperi acquisiti e poi dimenticati dall’umanità c’era anche quello della somiglianza del DNA suino a quello umano, così i posteri si faranno un sacco di risate.
Ma proseguiamo sulla Via degli Atlanti in direzione sud-ovest, dove il livello delle acque marine ancora relativamente basso e la presenza del «ponte naturale» islandese permisero gli spostamenti navali tra le terre scandinave ormai disastrate e il meridione della Groenlandia. Da qui le flotte andavano a gettare l’ancora nell’isola di Anticosti, accesso all’attuale Grand Fleuve del Canada, un enorme specchio cristallino che ispira tuttora un sacro timore reverenziale.
Impossibile stimare il tempo di permanenza degli Atlanti nelle attuali province di Terranova e Labrador, Nuovo Brunswick, Nuova Scozia e parte orientale del Quebec, ma la lentezza dei processi preistorici fa supporre che ci sia stato abbastanza tempo per famigliarizzare con le tribù autoctone, ovvero con l’insieme dei popoli paleo-indiani oggi chiamati genericamente «popolazioni arcaiche» (8.000-2.000 a.C.).
Ciascun ethnos comprendeva una rete di legami clanici basati su un’economia di pesca e di caccia (caribù, cervi, alci, mammiferi marini, eccetera). Praticate erano inoltre la concia delle pelli e la tecnologia avanzata del legno, arti presumibilmente perfezionate dai nuovi arrivati, le maggiori conoscenze dei quali gettarono forse le basi di quella che tra il distretto di Thule a nord e il distretto di Nanortalik a sud sarebbe diventata la «cultura Saqqaq» (pre-Inuit), risalente al periodo 2.500-800 a.C.

A giudicare comunque dal numero di «colonie» (spirituali) fondate qua e là dagli Atlanti sul modello dell’originaria Thule iperborea, si presume che l’andirivieni intercontinentale sia proseguito per secoli. Più incerta appare invece la collocazione geografica del punto di partenza, ossia della primordiale Patria nordatlantica, situata secondo il Vinci in una terra oggi sommersa tra l’Islanda, le isole Fær Øer e il banco di Rockall (F. Vinci, Omero nel Baltico, V edizione, Palombi Editore, Roma, 2008).
Più vago Pitea di Marsiglia immaginò questo luogo «oltre il Circolo Polare Artico», mentre Plinio il Vecchio scrisse nella sua Storia Naturale [Libro II, 186-187]: “Così succede che, per l’accrescimento variabile delle giornate, a Meroe il giorno più lungo comprende 12 ore equinoziali e 8/9 d’ora, ma ad Alessandria 14 ore, in Italia 15, 17 in Britannia, dove le chiare notti estive garantiscono senza incertezze quello che la scienza, del resto, impone di credere, e cioè che nei giorni del solstizio estivo, quando il sole si accosta di più al polo e la luce fa un giro più stretto, le terre soggiacenti hanno giorni ininterrotti di sei mesi, e altrettanto lunghe notti, quando il sole si è ritirato in direzione opposta, verso il solstizio di inverno. Pitea di Massalia scrive che questo accade nell’isola di Tule, che dista dalla Britannia sei giorni di navigazione verso nord; ma certuni lo attestano per Mona, distante circa 200 miglia dalla città britannica di Camaloduno [Libro IV, 88]. Si crede che in quel luogo siano i cardini del mondo e gli estremi limiti delle rivoluzioni delle stelle, con sei mesi di chiaro e un solo giorno senza sole; non, come hanno detto gl’inesperti, dall’equinozio di primavera fino all’autunno: per loro il sole sorge una volta all’anno, nel solstizio d’estate, e tramonta una volta, nel solstizio d’inverno [Libro IV, 104]. A una giornata di navigazione da Tule c’è il mare solidificato, che taluni chiamano Cronio.”
Terre incantate
Della primordiale Luce del Nord gli Atlanti rappresentarono solo l’ultima reminiscenza, quasi un riflesso (Julius Evola, Il mito del sangue, edizioni di Ar, Avellino, 2009). Ciò nonostante queste genti furono per le arcaiche popolazioni americane un esempio vivente di sapienza e laboriosità.
Quando poi l’ulteriore rialzo dei livelli marini rese inagibili le rotte atlantiche e tornare indietro divenne impossibile (cfr.: trasgressione marina Flandriana) subentrò il dubbio di cosa fosse più lontano, se ciò che stava davanti agli occhi o dove si voleva andare.
Fu allora, probabilmente, che i profughi spostarono lo sguardo in direzione dell’Equatore, verso le zone in cui l’Atlantico mostrava livelli esuberanti di fertilità che non dipendevano solo dal calore, ma anche dalla copertura costante di nuvole e nuvolette che rilasciavano una benefica scia di pioggia. Potrebbe risalire a questo periodo la fondazione della «cultura di El Riego» (7000-5000 a.C. circa), costituita da comunità agricole stabilmente locate nella regione di Tehuacán (Puebla, Messico).
Visto come stavano le cose, tanto valeva accasarsi. In fin dei conti le vette incappucciate di neve del Popocatépetl e del Iztaccihuatl non erano tanto diverse dai coni fumanti dell’Eyjafjöll e del Vatnajökull. La nuova visione suscitò la voglia di riprendere il filo narrativo lasciato cadere dagli Avi, dal repertorio dei quali uscì probabilmente il seguente dramma shakespeariano, creduto dagli Aztechi una storia vera.
Un bellissimo guerriero (Popocatépetl) e una meravigliosa principessa (Iztaccihuatl), follemente innamorati l’uno dell’altra, vennero tratti in inganno da un perfido cortigiano. Credendo che l’amato fosse morto in battaglia lei si lasciò morire mentre lui, tornato vincitore a Tenochtitlan e appreso l’accaduto, salì sulla montagna di fronte a quella su cui giaceva la sua “Itza” con l’intenzione di vegliarne le spoglie per sempre. Commossi da tanto dolore gli dèi fecero cadere allora un manto di neve su ambedue i cucuzzoli, congelando gli infelici amanti per l’eternità.
Tuttora gli abitanti della regione affermano di vedere ogni tanto sul Popocatépetl delle luci misteriose che sprizzerebbero, a loro dire, dal cuore ardente dell’antico guerriero. Incandescente nonostante il ghiaccio che lo ricopre, ma destinato a spegnersi emettendo un lugubre filo di fumo.
Difficile credere che una storia strappalacrime come questa sia uscita dal repertorio amerindo. Un guerriero mexica sempre pronto a macellare il nemico per strappargli il cuore, e magari mangiarne le carni, di certo non si sarebbe immolato per amore, cioè inutilmente, dato che quel gesto non avrebbe mantenuto l’ordine cosmico né garantito la continuazione del mondo.
All’opposto la cultura nordica vedeva nell’amore la fonte primigenia di una potente energia trasformativa capace d’influenzare tanto la vita degli uomini quanto la volontà degli dèi. Per i nordici la sfera amorosa era un complesso intreccio di legami che andavano dalla lealtà all’onore, dal destino alla magia, il tutto rigorosamente interconnesso con le Forze della Natura.
Niente di più facile, dunque, che la trama dell’unione romantica tra uomini e vulcani sia arrivata in Messico nel bagaglio dei profughi giunti dal settentrione, i quali, seguendo il flusso della corrente marina che spingeva l’acqua calda dal basso verso l’alto, incontrarono altri mondi [immagine 2].
Figli dello stesso Sole
Ancora non sono stati identificati gli artefici delle enormi statue (alte 4,6 metri) degli «Atlanti», o Padri Fondatori; né i creatori dei personaggi scolpiti nella pietra in posizione yoga e provvisoriamente attribuiti agli Olmechi, la cui civiltà fiorì tra il 1200 a.C. e il 400 a.C.; né i diffusori nelle Americhe di simboli tipicamente eurasiatici come la swastica e la runa; né i promotori dell’agricoltura, della scrittura, del calcolo, del calendario sacro di 260 giorni (il tempo della rivoluzione di Venere intorno al Sole).
In effetti, sono parecchie le cose che non sappiamo. Abbiamo tuttavia la certezza che il primo tratto della «Via degli Atlanti» fu praticabile fino al X secolo, altrimenti i Vichinghi capitanati da Leif Erikson non sarebbero sbarcati sull’Isola di Baffin, in Labrador e a Terranova. Toccata e fuga. Nessuna fondazione di colonie permanenti. All’opposto degli antenati preistorici, i navigatori scandinavi di ultima generazione erano individui aggressivi e bellicosi, incapaci di relazionarsi con le popolazioni locali.
Celebre è anche la testimonianza di San Brandano, messa per iscritto intorno al 704 d.C. e riportata nella Vita di San Colomba dell’abate Adamnano. Salpato dall’Irlanda con un gruppo di colleghi in missione divina, il sacerdote rimase a bocca aperta davanti all’«immensa terra a ovest, oltre l’Oceano Atlantico … la Terra Promessa» (R.H. Fuson, The Log of Christopher Columbus, Ashford, Buchan & Enright, 1987).
Le impronte degli Atlanti sono tuttora presenti nella dislocazione multipla del toponimo «Tula», rintracciabile dalla Russia europea (vedasi l’omonimo oblast´ a meno di duecento chilometri da Mosca) a Panama. Qui gli indiani di San Blas, o Cuna, o Kuna, ridotti ormai a circa 40.000 unità, conservano nelle proprie tradizioni il ricordo della Thule/Tula iperborea e sventolano sulla bandiera locale la swastica solare, chiamata nella loro lingua kikir e interpretata come simbolo della forza vitale.
Quanto detto conferma dunque l’esistenza in tempi preistorici di una «Urkultur» di stampo solare che condizionò le prime fasi dello sviluppo umano in vari contesti geografici, Americhe incluse? Su questo punto gli antropologi sono in disaccordo; i più scettici attribuiscono le somiglianze a sviluppi indipendenti, negando implicitamente la presenza di una fonte comune alla base delle antiche culture. Una tesi assai fragile di fronte alla mole di analogie riscontrabili tra le civiltà egizia e precolombiana, mesopotamica e indoeuropea, culture minori incluse, annessi e connessi in coda.
È impossibile che tutte le civiltà abbiano ripristinato in simultanea i collegamenti tra cielo, terra e mondo sotterraneo utilizzando gli stessi simboli, prima di dare l’avvio ai lavori di costruzione delle stesse piramidi, degli stessi osservatori astronomici e degli stessi monumenti sostenuti dagli stessi pilastri. In compenso è credibile che dopo millenni di catastrofi mezzo mondo abbia coralmente interpretato il ritorno della luce solare come il sorriso dell’Universo, che, nonostante tutto, non si era dimenticato dei terrestri. Recita un passo dell’Atharva Veda (IV-1-4): “L’Uno che creò l’intero Universo è chiamato il Padre e il Signore. Da lui fu emessa la vibrazione del suono OM, che conferisce la vita a tutto il cosmo. Possa questa parola primordiale espandere ovunque, cantando la lode a Brahma, la sorgente della vita e dell’energia, il Sole” (Macdonell Arthur A., A Vedic Reader for Students, Oxford University Press, India, 1990).
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