21 Giugno 2025
Antropogeografia

Il grande oblio: dalla pietra all’inconsistenza – Rita Remagnino

La vita sul sasso orbitante che chiamiamo Terra è una ruota in perpetuo movimento: prima l’Eurasia ha scoperto l’America, poi l’America ha scoperto l’Africa, oggi l’Africa sta scoprendo l’Europa, domani chissà. Gran parte delle migrazioni umane, che spesso hanno generato interessanti travasi di tecniche e saperi, sono state spinte dai cambiamenti climatici. Non è dunque difficile immaginare l’avvicendarsi degli spostamenti nel tumultuoso Paleolitico Superiore (30.000 – 10.000 a.C.), al quale si fa risalire l’«inizio della cultura umana». Cioè, la nostra.

A quei tempi un gruppo non faceva in tempo ad assestarsi in un posto decente, che l’attacco di uno o tutti insieme gli Elementi della Natura lo costringeva a fare i bagagli in fretta e furia. Quindi la tribù riprendeva il cammino, lasciandosi alle spalle le pianure allagate e i monti divenuti gelidi come la morte.
Per fortuna la Terra non mancava mai di mostrare il suo volto materno, sicché un rifugio accogliente emergeva sempre tra le pieghe del caos. Iniziava allora una nuova fase adattativa e si aprivano i cantieri delle grandi opere, comprensibilmente motivati dalla volontà di gridare al mondo: siamo ancora qui!

Ideale per registrare le mappe orientative della Storia e descrivere i grandi cicli del Tempo, la pietra fu sempre il materiale prescelto. Nulla appariva più resistente, e in un certo senso terrificante, di un blocco di granito disposto ad ergersi audacemente verso il cielo, gridando ai quattro venti la sua eterna presenza. Le civiltà nascono e muoiono molto spesso senza lasciare tracce, ma le pietre non cadono nell’oblio e possono custodire informazioni preziose per millenni.

Una frase attribuita a Cristo recita: “Se quelli taceranno, grideranno le pietre” (Luca 19, 40), cioè la Verità e le lodi al divino non possono essere soffocate, o ignorate, perché la pietra sarà sempre il loro testimone. In tempi più recenti, gli ultimi guerrieri Sioux in partenza per la battaglia contro gli invasori europei, davano l’addio alla tribù con le seguenti parole: “Soltanto le rocce e le montagne sono eterne, gli uomini devono morire.

L’uomo capì subito che la pietra era un eccellente mezzo di comunicazione, per questo le «agende» dell’antichità erano scolpite nella roccia e scritte nell’esperanto della preistoria: la «lingua delle stelle», ovvero la matematica e la geometria applicate ai corpi celesti e terrestri. Per quanto drastici potessero essere i cambiamenti climatici, il raggio di un cerchio moltiplicato per 2π (o la metà del raggio moltiplicato per 4π) avrebbe sempre dato la misura esatta della circonferenza di quel cerchio.
Vengono da questa visione della realtà i «numeri sacrali» riferiti alle grandezze dei fenomeni astronomici e tellurici, puntualmente espressi in puzzle tridimensionali di blocchi giustapposti in perfetto equilibrio e ordine, precisi al millimetro e lavorati con apparente facilità, quasi fossero di cera.

Senza tanta lucida lungimiranza, oggi, per esempio, non sapremmo che le culture più antiche conoscevano le precessioni equinoziali (indispensabili per comprendere il fondamentale ruolo dell’obliquità del pianeta, cioè del «tempo profondo» posto alla base delle scienze geologiche e astronomiche), nonché la divisione sessagesimale del tempo e della sfera terrestre, ovvero la dimensione precisa della circonferenza del globo sia al polo che all’equatore. Saperi in gran parte dispersi dall’introduzione della scrittura su papiro e carta; prepariamoci dunque alla brutta fine che faranno le attuali conoscenze, incautamente affidate all’immaterialità dei supporti digitali.

Come in cielo, così in terra

L’attenzione verso i fenomeni astro-geologici fu alla base di molte relazioni geometriche tuttora misurabili, come, per esempio, il «rapporto longitudinale» che allinea lungo una circonferenza perfetta attorno alla Terra le piramidi di Giza (Egitto), il grande tempio di Arunachala (India meridionale) e Angkor Wat (Cambogia). La distanza tra Giza e Arunachala è di circa 4.800 km, simile a quella tra Arunachala e Angkor.
Alcuni studiosi ritengono che questi siti riflettano disegni celesti particolarmente significativi per la (ri)nascita delle civiltà di riferimento. Per esempio: Giza corrisponderebbe alla Cintura di Orione (Età del Leone?), Angkor Wat alla Costellazione del Drago (l’inclinazione del palo assiale?), mentre Arunachala sarebbe l’«asse cosmico» che simboleggia il Polo Celeste.

A tale proposito l’ingegnere scozzese Alexander Thom (1894-1985), padre della cosiddetta «teoria della iarda megalitica» (un’unità di misura pari a circa 83 cm), giunse alla conclusione che alcune culture, a partire dall’Egitto dinastico, vissero di rendita per svariate generazioni sulle «conoscenze degli dèi», ovvero sull’eredità sapienziale (mai del tutto compresa) ricevuta in dono da una precedente civiltà non ancora identificata, e forse planetaria, che padroneggiava le nozioni relative alla definizione del cubito, oltre a vari sistemi di misura e geodesia.

Escono dalla stessa scuola di sapienza: le enormi piattaforme di sostegno del tempio di Baalbek; le strutture megalitiche di Malta; gli insediamenti circondati da muraglie circolari e le tombe delle Isole Canarie; i basamenti delle statue dell’Isola di Pasqua; le innumerevoli muraglie sommerse dalle acque del Pacifico; le strutture architettoniche e i «cumuli» sottomarini individuati nelle acque basse del Bahamas Great Bank; i chullpa del Perù pre-incaico; le cosiddette «sfere giganti del Costarica» (due metri e mezzo di diametro x 16 tonnellate di peso); le teste di pietra di Tehuantepec e le mura ciclopiche di Sacsayhuamán; le colossali rovine di Tiahuanaco e le piramidi di Giza; i grandi cerchi di pietra e i menhir sparsi per tutta l’Eurasia … eccetera.

Per il momento, la visione accademica respinge l’idea di navigatori preistorici in possesso di tecniche superiori e in grado di attraversare gli oceani. Per dimostrare il contrario ci si arrampica sugli specchi del «caso», o delle «circostanze»; ma per chi le sa vedere, le coincidenze indossano abiti trasparenti (Arthur Machen). Senza contare che negare l’esistenza in epoca antidiluviana di civiltà capaci di lavorare e mettere a dimora blocchi di pietra su scala gargantuesca, secondo sistemi e metodi per noi incomprensibili, significa scendere al livello dei rozzi conquistadores di Pizarro, i quali diedero alle fiamme tutte le testimonianze dei Maya sulle loro origini per sbarazzarsi definitivamente di ogni scomoda verità (D. Domenici, Le Civiltà Precolombiane, Il Mulino, Bologna, 2012).

La toppa fu peggiore del buco: si disse che le credenze diffuse nel Nuovo Mondo erano palesemente errate, in quanto contrarie a quelle europee, e quindi diaboliche, perciò estirparle alla radice affinché non si riproducessero era un atto dovuto. Qualcosa entrò tuttavia nel Popol Vuh, riscritto sulle memorie degli anziani sopravvissuti alla sanguinosa conquista delle Americhe, dove a proposito dei primi civilizzatori (e presunti dèi) si racconta che appartenevano alla “prima stirpe depositaria di tutta la Sapienza [che] conosceva i quattro angoli e le quattro circonferenze della Terra, dell’Orizzonte, e i quattro punti del Firmamento” (Popol Vuh. El libro sagrado de los Mayas, Errata Naturae, Madrid, 2022).

Questa stirpe di provenienza incerta (la misteriosa «civiltà di Tiahuanaco»?) trovò particolarmente attraente la regione andina, che a quei tempi offriva una vasta gamma di ambienti differenti. Sulle rive del lago Titicaca, posto al centro di un florido sistema fluviale che sfociava nell’Oceano Pacifico, costruì così una città portuale fitta di moli commerciali (A. Forgione, Gli Dei del Cielo e dell’Acqua: Misteri delle Ande, Eremon Edizioni, Latina, 2007).

In prossimità del lago, sono tuttora visibili le rovine dell’imponente Kalasasáya, il celeberrimo Tempio del Sole di Teotihuacan, chiamato dagli Atzechi “il luogo di coloro che proteggono la strada degli dèi” (A.L. Kolata, Tiahuanaco: 10.000 anni di enigmi insoluti, Newton Compton, Roma, 1996). Ritenuto uno dei monumenti più grandi e misteriosi di tutto il Mesoamerica, il complesso si estendeva originariamente su un’area di circa diciannove chilometri quadrati. Comprendeva cinquantamila alloggi singoli in duemila complessi condominiali, seicento tra piramidi e templi minori e cinquecento zone «industriali» specializzate nella fabbricazione della ceramica, di manufatti di basalto, ardesia e tritume di pietra.

L’intera area di Teotihuacán è un capolavoro di geometria applicata all’architettura sul quale domina la Piramide del Sole, che diffonde tutt’attorno un messaggio matematico direttamente collegato ad avanzate conoscenze astronomiche e geodetiche. Indifferente a tutto ciò, l’Homo technologicus continua a credersi superiore; come se esseri umani in grado di edificare indicatori equinoziali ancora parzialmente visibili, o monumenti composti di 2.300.000 di blocchi di pietra calcarea e granito che pesano sei milioni di tonnellate (più di tutti i palazzi della City di Londra messi assieme), non sarebbero stati capaci di costruire il Burj Khalifa di Dubai, se lo avessero voluto.
Il fatto è che il puerile sfoggio di orgoglio e vanità, cioè l’apparenza, all’uomo tradizionale non interessava affatto. La vita aveva un senso nella misura in cui l’individuo riusciva ad elevarsi spiritualmente nell’arco temporale che gli era concesso, sviluppando una coscienza abbastanza solida da proiettarsi nel futuro e continuare a parlare attraverso il linguaggio celeste, comprensibile in qualsiasi epoca da qualsiasi cultura dotata di un minimo di cognizioni astronomiche.

L’occhio del firmamento sul respiro della terra

Il declino post-diluviano cambiò le carte in tavola. Inimmaginabili catastrofi climatiche e ambientali portarono a una sensibile «riduzione culturale», della quale scontiamo ancora le conseguenze. Ciò nonostante, l’umanità riuscì ad innestare nuove (e meno elaborate) «religioni solari» sull’antica – e forse unica – «religione stellare».
Come in due vasi comunicanti, al declino delle opere monumentali corrispose l’ascesa della praticità, ovvero di una visione più dinamica ma riduttiva che a lungo andare scardinò completamente il «senso dei luoghi». D’altronde la nuova vita nomade chiedeva soluzioni ingegneristiche «più leggere», adatte al movimento e agli ambienti instabili (es. yurte e tipì), perciò la scelta fu obbligata.

Lentamente l’orientamento spaziale e simbolico delle antiche strutture architettoniche scivolò così nel novero dei «misteri». Nessuno ne capiva più il reale significato; ne è un esempio il complesso megalitico oggi considerato il più vecchio del mondo (almeno dodicimila anni): Göbekli Tepe (letteralmente la “collina panciuta”). Su alcune delle sue pietre è scolpito il momento dell’impatto sulla Terra di un meteorite di proporzioni gigantesche, il quale potrebbe avere innescato un repentino calo delle temperature (Dryas Recente) sia in Eurasia che in Nordamerica, dove ebbe inizio il declino della cultura preistorica di Clovis. Quale civiltà volle stigmatizzare l’evento?

Un gruppo di ricerca della Dokuz Eylül Üniversitesi ha evidenziato interessanti analogie tra la cultura di Göbekli Tepe e quella dei portatori della tecnica siberiana degli utensili in pietra a microlame (A. Özdoğan, E. Güleç, R. Diez-Martín, The Siberian Microblade Tradition and the Origins of the Göbekli Tepe Lithic Industry, in Journal of Eurasian Prehistory, Vol. 15, No. 2/2018).

Poco distante si trovano le rovine di Karahan Tepe, che potrebbero essere addirittura più antiche. Tra esse vi sono 250 obelischi raffiguranti animali dall’aria protettiva, o complice, scolpiti nello stesso stile delle 48 figure alate poste ai lati del dio-serpente immortalato sulla Porta del Sole di Tiahuanaco, le quali non sono estranee alle divinità antropomorfe e zoomorfe dell’Egitto, a cominciare dal dio dalla testa di falco: Horus.

Legami interplanetari intercorsero dunque fra le più antiche civiltà? Oltre ad essere dei provetti navigatori, gli antenati pre-diluviani erano anche in possesso di tecnologie a noi sconosciute? Con quali mezzi spostarono da cave lontane blocchi calcarei da cento tonnellate l’uno?
Avendo perso la memoria del nostro passato, possiamo solo ammirare in silenzio siti come Aguni, Biblo, Cuzco, Gerico, Nazca, Xian e Pyongyang, o la cappella di Rosslyn (Scozia), tutti geometricamente legati sia al Polo Nord dello Yukon (100.000 anni fa) sia a quello nella baia di Hudson (50.000-12.000 anni fa).

Evidentemente gli architetti megalitici seguivano il principio di accumulo del sacro: «pietra su pietra». Sovrapponevano una «nuova cosa sacra» alla preesistente affinché la prima assorbisse sacralità (energia) dalla seconda, diventando, se possibile, ancora più pura e potente di quanto già non fosse l’altra.
Tale uso si protrasse fino a pochi secoli fa, quando ancora vigeva la regola di incorporare nelle nuove strutture di templi e chiese i vicini megaliti, nodi di una griglia sacra ormai dimenticata, ma chiaramente percepita.

La dialettica del segreto

Lo scioglimento della calotta glaciale non cancellò soltanto interi ecosistemi (es. la «steppa dei mammut»), ma rimosse la memoria collettiva, spegnendo per sempre il ricordo dell’esistenza di un’umanità più interessata a mantenere i rapporti fra il proprio destino e il cosmo, che a gloriarsi di sé.

Nonostante molte antiche pietre fossero ancora in piedi, le priorità umane erano cambiate. Numerosi gruppi etnici avevano cambiato nel frattempo lo stile di vita, altri erano stati sradicati dalle terre d’origine, o dispersi dall’innalzamento dei mari (es. Golfo Persico, Atlantico e Pacifico). Importanti città furono abbandonate a causa dell’inaridimento delle zone paludose e lacustri (es. nel Sahara umido, Lago Titicaca), causando l’estinzione delle élite che ne custodivano i segreti.

Nulla di ciò che c’era prima poté mai più essere ricostruito, ciò nonostante rimase viva l’impressione che nella pietra pulsasse un’energia cosmica che, misteriosamente, conciliava le forze telluriche con quelle celesti, elevandole a una dimensione superiore, lontana dal mondo profano. Tale percezione penetrò nelle cerchie iniziatiche, giungendo fino ai costruttori medievali, i quali rievocando l’immagine ancestrale della squadratura della pietra grezza, replicavano il gesto nei chiostri delle cattedrali erigendo «pietre cubiche a punta», simboli di purezza e anelli nunziali del rapporto che legava la terra al cielo.

Persino il cinema recuperò il concetto. Tutti ricorderanno la prima scena di un’icona del nostro tempo, 2001: Odissea nello spazio, dove si vede un australopithecus interagire con una pietra perfettamente squadrata (il monolite nero), che nel film anticipa il tema del viaggio spirituale di Bowman verso lo stadio successivo dell’esistenza, rivelando di saperla lunga su parecchie cosette.

Viene da chiedersi se l’essere umano si ritrovi ciclicamente al punto di partenza perché chi sapeva, in ogni epoca e luogo, ha taciuto. Tanti silenzi gelosi sono stati vera saggezza, o piuttosto ostacoli alla diffusione del sapere? Estendendo la conoscenza a una platea più ampia di persone, non sarebbero aumentate le probabilità di conservarla? Forse si, o no; fatto sta che poche briciole di un passato ormai dimenticato oggi non bastano a comprendere com’era fatta la pagnotta, figurarsi a riprodurla.

Nel frattempo, le nostre precauzioni hanno generato nuovi mostri perché là dove la memoria smette di trasmettere la Storia, funzione per cui è nata, la propaganda si precipita a colmare i vuoti con gli strumenti dell’economia e della politica, formando nuove e sempre più ignoranti gerarchie di potere.

Se all’inizio divulgare «la parola degli déi» (es. saperi occulti e tecniche introdotti dai primi civilizzatori) fu sinonimo di «profanazione», perciò il vincolo del segreto era giustificato dal rispetto verso i Maestri dell’umanità, altrettanto non si può dire di quanto è avvenuto in seguito, quando ormai non c’erano più verità assolute da svelare, o comunicare, ma solo masse sociali da sfruttare e controllare.

Un caso da manuale riguarda gli inglesi stanziati in India durante il periodo coloniale. Come annotò nel suo primo e forse miglior libro di economia John Maynard Keynes (Indian Currency and Finances, 1913), del quale si ricordano solo i pregi e i difetti del gold standard, i britannici rimandavano in patria le locomotive guaste dei treni anziché ripararle in loco, nonostante i costi esorbitanti. Temevano che gli indiani apprendessero le tecniche di riparazione, dando vita a una pericolosa concorrenza. Cosa puntualmente accaduta, perché i segreti sono come il vento: prima o poi soffiano dove non dovrebbero, e filano via.

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (Audax Editrice). Altre pubblicazioni: "La vera Storia di Eva e il Serpente. Alle origini di un equivoco" (Audax Editrice, 2024). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

2 Comments

  • Gaetano Barbella 18 Maggio 2025

    E se si prendesse sul serio la frase attribuita a Cristo: “Se quelli taceranno, grideranno le pietre” (Luca 19,40)?
    Legga questo mio scritto: https://toba60.com/la-sorte-del-mondo-incontrovertibile/
    La terra superficialmente è un Giano bifronte, da un lato è tutta la geografia di Stati con città e a rovescio vi sono le “pietre parlanti”, una realtà di infinite immagini.
    È il caso della mappa di Milano del Giardino Indro Montanelli che lascia intendere un immagine di due personaggi, il dio Ouroboros, l’Eterno, e una donna che ha preso il posto di Edipo che ebbe successo con la Sfinge.
    Gaetano Barbella

  • Rita Remagnino 19 Maggio 2025

    Grazie, leggerò con piacere l’articolo linkato. Un caro saluto.

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