10 Aprile 2024
Giornata del Ricordo

Dal confine orientale, per non dimenticare, prima parte – Fabio Calabrese

Noi sappiamo da tempo di vivere in un mondo in cui la rappresentazione mediatica tiene sempre più il posto della percezione della realtà e della memoria storica, e quindi diventa il campo di fin troppo facili manipolazioni.

Ora, guarda caso, mentre il 27 gennaio, data preposta a ricordare i crimini di cui è stata accusata la parte soccombente nel secondo conflitto mondiale è esposta a una intensa copertura mediatica che, nei fatti, non è che l’intensificazione di un bombardamento propagandistico di “verità” di regime cui siamo esposti quotidianamente, il 10 febbraio che dovrebbe ricordare i crimini dei vincitori, è quasi ignorato o trova pochissima eco al di là di alcune manifestazioni “ufficiali” puramente di facciata, e al ricordo di una parte politica, la nostra, che sembra essere rimasta l’unica depositaria di una memoria storica.

Eppure coloro che qui, sul confine orientale furono uccisi nella maniera più atroce o dovettero abbandonare le case, i beni, tutto quanto, e fuggire per non subire la stessa sorte, erano la nostra gente, la cui colpa non era altro che quella di essere italiani.

Io ritengo sia indispensabile che tutti noi ricordiamo bene cosa hanno significato queste due parole foibe ed esodo ma so anche riguardo a queste tematiche come sia facile lasciarsi prendere dall’emotività, continuare a sentire il dolore di una ferita, di una mutilazione subita dalla nostra Italia, che rimane sempre aperta, e per questo motivo cercherò, nei limiti del possibile, di far parlare i documenti.

Vediamo per prima cosa di riassumere brevemente il quadro storico e i fatti. Nell’ aprile 1945, con il crollo militare delle forze dell’Asse, man mano che occupano le terre italiane sulla sponda orientale dell’Adriatico, i comunisti jugoslavi, riprendono la feroce pulizia etnica con l’uccisione di migliaia di persone colpevoli solo di essere italiane e l’intento di costringere gli altri alla fuga. Sottolineo riprendono perché una prima ondata di eccidi e infoibamenti era iniziata già nel settembre 1943, con la dissoluzione dello stato italiano in conseguenza dell’8 settembre, ma l’intervento delle truppe germaniche con l’operazione Alarico vi aveva provvisoriamente posto termine. Un fatto importante da sottolineare, perché dimostra che l’obiettivo dei comunisti jugoslavi era fin dall’inizio quello di CANCELLARE LA PRESENZA ITALIANA SULLA SPONDA ORIENTALE DELL’ADRIATICO con i metodi più brutali e spingendosi quanto più a occidente possibile.

Le foibe sono dei profondi inghiottitoi che caratterizzano la regione carsica, formati dal dilavamento delle acque sul suolo calcareo, precipizi che giungono spesso a una profondità di diverse centinaia di metri. Queste trappole naturali hanno offerto ai comunisti jugoslavi un metodo semplice ed economico per assassinare la nostra gente. Gli italiani catturati venivano portati sull’orlo delle foibe legati col fil di ferro in lunghe file, qui gli assassini mitragliavano i primi che cadevano nella voragine trascinando nella caduta tutti gli altri, che si sfracellavano nel fondo dell’abisso, restandovi ad agonizzare magari per giorni.

Nel 1991 Milovan Gilas, ex collaboratore del dittatore jugoslavo maresciallo Tito e poi dissidente, in un’intervista ha ammesso questi eccidi con sconcertante candore, precisando:

“Li uccidemmo, non perché fossero fascisti, ma perché erano italiani”.

Sempre in quell’intervista, Gilas quantificò in circa trentamila il numero di persone uccise in questo modo. Non esiste un conteggio preciso del numero delle persone assassinate per l’inespiabile colpa di essere italiane, ma è raro che un assassino si attribuisca responsabilità maggiori di quelle che ha. Qualsiasi stima inferiore al numero indicato da Gilas, va perciò ritenuta inattendibile, è anzi verosimile che egli abbia sottostimato l’ampiezza del massacro. Diciamo, in assenza di dati migliori, che i nostri connazionali massacrati sono stati decine di migliaia.

Benedetto Croce diceva che il marxismo è “un paio di occhiali sociologico”, io credo, al contrario, che sia un paraocchi che impedisce di vedere quello che è ovvio, in questo caso, ha impedito ai comunisti ipnotizzati dalla fregnaccia dell’“internazionalismo proletario”, e impedisce tuttora alla persistente sinistra italiana che ancora oggi quando deve ricordare quei morti nelle cerimonie ufficiali, lo fa assai malvolentieri, il carattere etnico della guerra.

La favola che oltre a voler ridurre la portata di tali eccidi, li vorrebbe ricondurre a vendette personali, a reazioni all’ “imperialismo fascista” si smentisce considerando il quadro complessivo: queste atrocità facevano parte di un piano globale per far avanzare il mondo slavo a spese di quello germanico e di quello latino, come dimostrano le atrocità compiute parallelamente dall’Armata Rossa nei territori tedeschi a est dell’Oder e anche contro i Finlandesi della Carelia, incolpevoli di alcunché.

“Il territorio straniero si può assimilare, il sangue straniero no, o lo si allontana o lo si elimina”.

Lo ha scritto Adolf Hitler nel Mein Kampf, ma sono stati i comunisti a metterlo in pratica.

Un episodio che sarebbe grottesco se non si inserisse nel quadro di una spaventosa tragedia e che è una dimostrazione perfetta della CECITA’ della sinistra sulle tematiche nazionali. Come in altre parti d’Italia, a fine aprile 1945, il CLN locale “insorse” quando i Tedeschi se ne stavano andando, poi i suoi membri andarono festosi incontro ai partigiani jugoslavi che stavano arrivando. Questi ultimi, quando gli videro le fasce tricolori al braccio, li catturarono e li fucilarono.

Un simile comportamento però non rappresentò affatto un’eccezione nel quadro della politica delle bande partigiane slavo-comuniste: vi riporto un piccolo stralcio da Riflessioni su un documento del confine orientale, un articolo di Antonio Sema che fa parte di un fascicolo dell’IRCI di cui vi dirò fra poco:

“Giovanni Zol, comandante del Battaglione Triestino che nell’ottobre 1943, quando i tedeschi occuparono l’Istria, si ritira nel Carso istriano. Zol cerca un’intesa con gli sloveni che non vogliono una presenza autonoma di comunisti italiani nel territorio appena annesso, poi a novembre viene ucciso in un’imboscata dai contorni alquanto ambigui.

Giovanni Pezza: rifiuta la confluenza nelle file slovene, costituisce il Battaglione italiano autonomo Giovanni Zol, che risponde al PCI triestino nel contesto del CLN italiano. Alla fine del febbraio 1944, viene passato per le armi da un distaccamento partigiano comandato dallo sloveno Carlo Maslo.

Ferdinando Marea, il comandante del Battaglione Triestino d’Assalto che vuole contattare il PCI triestino mentre il suo comando politico è d’accordo con gli sloveni, e viene catturato a Doberdò dai tedeschi.

Il documento omette pure di ricordare la vicenda del battaglione autonomo Alma Vivoda che nell’agosto del 1944 riceva dagli sloveni l’ordine di sciogliersi, ma la Medaglia d’Oro Vincenzo Gigante risponde negativamente. A ottobre, il CLN sposta l’unità all’interno dell’Istria, dove sarà circondata e distrutta dai tedeschi”.

Il quadro è chiaro? GLI ITALIANI ANDAVANO ELIMINATI, a prescindere dal fatto che fossero fascisti, partigiani, comunisti o aderenti a qualsivoglia ideologia, e il metodo più comodo per farlo, nel caso di bande partigiane, era quello di fare in modo che cadessero letteralmente in bocca ai Tedeschi.

Questa constatazione ci illumina anche su uno degli episodi più vergognosi e meno raccontati della cosiddetta resistenza, l’eccidio delle malghe di Porzus. In questa località friulana, la brigata partigiana non comunista Osoppo, fu circondata a tradimento dai partigiani comunisti della brigata Garibaldi, disarmata, e i suoi membri furono tutti trucidati.

Il motivo? I partigiani della Osoppo si erano rifiutati di passare agli ordini del IX Corpus jugoslavo, cosa che sarebbe dovuta avvenire in base a un accordo tra il maresciallo Tito e il leader comunista italiano Palmiro Togliatti, che prevedeva la cessione alla Jugoslavia di tutta la Venezia Giulia, del Friuli fino al Tagliamento e oltre, in cambio dell’aiuto a “fare la rivoluzione” in Italia.

Il documento che dobbiamo ora prendere in esame, in tutta sincerità, ci può provocare dei conati di nausea, tuttavia, quello che ci rivela è molto importante.

Il 4 aprile 2001 il quotidiano “Il Piccolo” di Trieste pubblicava un rapporto elaborato da una commissione mista, prima italo-iugoslava, poi italo-slovena, frutto di una lunga elaborazione (i lavori di questa commissione erano iniziati nel 1991, dieci anni prima, e data la sua modesta estensione, non devono essere state scritte più di una o due pagine l’anno, per le quali la commissione di sedicenti storici è stata di certo lucrosamente retribuita), che doveva concernere la situazione storica e i rapporti fra italiani e sloveni sul confine orientale dall’ottocento alle due guerre mondiali, ma ovviamente si concentrava soprattutto sui fatti degli anni della seconda guerra mondiale e seguenti.

Nello spirito antifascista (che all’atto pratico vuole sempre dire anti-italiano), la commissione sposava le tesi della propaganda jugoslava-slovena in maniera addirittura grottesca, ad esempio negando che in Istria e Dalmazia, terre di antichissima cultura veneta, prima del 1918 vi fosse una presenza italiana, e interpretando l’annessione dell’Istria e di Fiume (la Dalmazia ci fu negata) a seguito della prima guerra mondiale come “imperialismo”, e attribuendo l’esodo dal confine orientale della nostra gente costretta a fuggire per non essere soppressa nelle foibe, al boom economico che si sarebbe verificato in Italia non prima di una decina di anni più tardi. Ridicolo, se non fosse tragico.

Per quanto riguarda le foibe, riduzionismo, perché un negazionismo completo non era possibile: prima di tutto in territorio triestino c’è una foiba, quella di Basovizza, dove giacciono i resti di un gran numero di nostri connazionali uccisi dai partigiani slavo-comunisti, poi la Slovenia aveva già riconosciuto un elenco di 3000 infoibati per la sola provincia di Gorizia, ma la provincia di Gorizia non è che un frammento delle terre strappate all’Italia, parliamo quindi di un campione di una mattanza molto più vasta. Infine, nel territorio oggi sloveno vi sono un gran numero di foibe e grotte interdette agli speleologi, interdette, è ovvio, per quel che potrebbero trovarvi.

Per capire il senso di una mostruosità di questo genere, dobbiamo rifarci

da un lato alla lezione di George Orwell: la “verità” non è la verità, ma quella che si riesce a far credere alla gente che essa sia, dall’altro alla mostruosità antigiuridica del processo di Norimberga: una volta stabilita la “verità ufficiale”, ulteriori indagini sono proibite, diventano, come ben sappiamo, un reato, con la differenza che qui non si trattava di mettere supposti crimini sotto la lente di ingrandimento, ma al contrario, di occultarli o minimizzarli.

Questo rapporto ha avuto una pronta risposta da parte dell’IRCI (Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata) sotto forma di un fascicolo intitolato 10 anni per un documento, che ne mette in luce la faziosità, la disinformazione, la volontà di disinformare. Al fascicolo dell’IRCI curato da Piero Delbello, hanno collaborato Almerigo Apollonio, Antonio Sema, Pierluigi Sabatti e Roberto Spazzali, il che è come dire il meglio degli esperti della nostra storia locale, ed è appunto in esso che si trova l’articolo di Antonio Sema da cui ho tratto la citazione che ho riportato più sopra.

Parlando di esperti di storia locale, non è possibile dimenticare il nome dello scomparso Giorgio Rustia, triestino tornato nella città natale dopo un ventennio di attività giornalistica, e dedicatosi a ripercorrere le vicende di quegli anni tragici. Forse ricorderete che anni fa ho recensito sulle pagine di “Ereticamente” il suo libro dal chilometrico titolo Atti, meriti e sacrifici dei reggimenti milizia difesa territoriale al confine orientale italiano. Atti, meriti e sacrifici per rendere conto dei quali il nostro ha ripercorso tutta la nostra storia dal XIX alla metà del XX secolo, e a cui ho dedicato una recensione che per la sua ampiezza è stato necessario suddividere in due articoli.

Ora io non vi ripeterò il contenuto di questa doppia recensione né tanto meno del libro, ma vi sono un paio di punti dell’ampia casistica riportata che è opportuno riportare. Ad esempio il caso di un milite della difesa territoriale che, catturato dai partigiani slavo-comunisti, “per divertimento” fu legato a un ceppo d’albero a cui diedero fuoco facendogli fare una morte orribile, arso vivo e (episodio quasi simmetrico) quello di un partigiano titino che, ferito e catturato, fu tradotto all’ospedale di Monfalcone (che cattivi, questi fascisti che curavano i prigionieri invece di bruciarli vivi), qui incappò in una retata slavo-comunista nel maggio del 1945, e, assieme agli altri degenti dell’ospedale, fu buttato in una foiba. Infoibato dai suoi stessi compagni, è stato forse uno dei pochi in queste tristi vicende, che ha avuto quel che si meritava.

Il caso più emblematico però è forse quello del capitano Alberto Marega, catturato dai partigiani e processato da un “tribunale popolare”, fu assolto e poi buttato in una foiba, assolto dall’accusa di essere un “boia fascista”, ma non dalla colpa inespiabile e imperdonabile di essere un italiano.

A dispetto di quanti credono al dogma stupido e antistorico dell’immutabilità dei confini, dobbiamo porci una domanda: come mai Trieste è ancora oggi una città italiana? Quando le bande slavo-comuniste a fine aprile 1945 giunsero a Trieste. Diedero il via alla stessa feroce “pulizia etnica” che stavano attuando in Istria e dovunque nelle terre italiane capitate sotto i loro artigli, e sono poche le famiglie italiane di Trieste che non debbano ricordare qualche vittima di questa inumana pratica, e ne rimane l’atroce testimonianza della foiba di Basovizza, ma il 12 giugno, dopo 40 giorni di atroce agonia, gli slavo-comunisti furono scacciati da Trieste dalle truppe neozelandesi sopraggiunte nel frattempo in vicinanza della città.

Il fatto è che poco prima della conclusione del conflitto in Europa, morì il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt e gli successe il suo vice Harry Truman. Truman è probabilmente destinato a essere ricordato come uno dei più grandi assassini della storia per aver ordinato i bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki, ma almeno, a differenza del suo predecessore che aveva un’inspiegabile simpatia per Stalin e i comunisti, era determinato a contrastare l’espansione comunista in Europa ovunque fosse possibile, cosa che però si verificò fattibile soltanto a Trieste. Ho l’impressione che se, per disgrazia, Roosevelt fosse vissuto un paio di settimane in più, oggi Trieste non sarebbe altro che un pezzo di Slovenia.

Con il 12 giugno l’incubo per Trieste (non per le restanti terre italiane cadute sotto gli artigli jugoslavi) era davvero finito? No, entrava semplicemente in una nuova fase, ma ne parliamo la prossima volta.

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