10 Aprile 2024
Appunti di Storia

Il furto di un cadavere – Giacinto Reale

PREMESSA: durante il Regime fiorì un’abbondante memorialistica squadrista, sia pure via via edulcorata col progredire della “normalizzazione”. Di essa non è rimasta traccia (se non in qualche rara ristampa di coraggiosi Editori). Eppure sarebbe utile per capire veramente cosa si proponevano i giovanotti in camicia nera tra il 1919 e il 1922, e come “si pensavano”.

Da tale considerazione nasce il progetto di una “Antologia squadrista”, della quale anticipo qui due brani, facendoli precedere da due righe di presentazione. Questo è il primo.

 

“XE I FASCISTI” (Trieste, 9 settembre 1920, furto di un cadavere)

Il racconto che segue, affidato alla efficace penna di Piero Belli, giornalista e corrispondente da Trieste de “Il Popolo d’Italia” ha un andamento quasi dumasiano: la notte buia e tempestosa, il piccolo nucleo che procede sotto la pioggia sferzante, il colpo di mano portato a compimento più contando sull’astuzia che sulla forza.

Il Fascio triestino, pur muovendosi in una realtà non facile, per la presenza in città di una forte componente slava, ostile per tradizione all’Italia, e di masse operaie, legate alle attività portuali principalmente, egualmente non bendisposte verso i mussoliniani, conserva, pur nella estrema determinatezza in azione, caratteri di cavalleria e quasi di gentilezza.

Il loro capo, sul suo giornale, il 30 novembre del 1921, dopo la morte, nel corso di incidenti, del tipografo Muller, scriverà:

 

C’è un morto disteso a traverso la strada.

Non è nostro, non è degli “altri”, non è di nessuno. E’ di sua madre soltanto.

Ma gli altri lo hanno subito raccolto per farne commercio. Lo hanno carpito a sua madre, che tutto ignorava…

Noi siamo rimasti fermi al nostro posto di battaglia. Avevamo ingaggiato una lotta a fondo e bisognava giungere a una soluzione risolutiva. Non ci siamo impressionati né della semina di bombe, nè del fattaccio, né tampoco della nostra condanna a morte. (Francesco Giunta, Essenza dello squadrismo, Roma 1931, pag. 150)

 

Alla base del colpo di mano qui raccontato, che ha per ambientazione l’ospedale cittadino, vi è la convinzione che il corpo di chi ha sacrificato la vita per l’Idea non appartenga più ai familiari, ma alla comunità nella quale si riconosceva, che intende rendergli onore nell’immediatezza e preservarne il ricordo nell’avvenire.

Così è stato in guerra e dopo, fino alla sublimazione con la tumulazione del Milite Ignoto all’Altare della Patria, così è durante la stagione squadrista e dopo, con le cerimonie del “Presente”, e poi con la successiva edificazione dei “Sacrari dei Caduti”, dove i corpi riposano insieme, ivi deposti dopo cerimonie anche imponenti, come la nota “Marcia dei Martiri” fiorentina dell’ottobre del 1934.

In questo specifico caso, poco conta che Giovanni Giuffrida non sia stato un militante fascista, ma anzi abbia appartenuto, in quanto Guardia Regia, al campo dei tutori dell’ordine, non di rado ostili alle camicie nere.

Le modalità della sua tragica morte, a seguito di un vero e proprio linciaggio (2 colpi di rivoltella e 19 ferite varie), l’8 settembre del 1920, mentre, solo, è a bordo di un tram, ad opera di una folla ebbra di sangue ed istigata dagli agitatori sovversivi, lo rende degno dell’onore dei fascisti triestini. E allora, quando le Autorità decidono un funerale lontano da Trieste e in forma minore, essi si risolvono all’azione, si impadroniscono del corpo, allestiscono alla sede del Fascio una camera adente per l’omaggio dei cittadini, organizzano funerali solenni.

Abbiamo detto dell’andamento del racconto, degno di un classico romanzo di avventure. Il clima ostile che sembra opporsi ad ogni iniziativa, le complottesche predisposizioni dell’ attacco fascista, la marcia sotto la pioggia dei dieci Arditi con il cadavere, fanno da contorno all’azione vera e propria e sono un classico della narrativa d’avventura.

E questo rende la lettura forse ancor più gradevole e avvincente, senza retorici orpelli fuori luogo, così come alieni da ogni retorica, anche formale, sono gli uomini che portano a termine l’azione.

La testimonianza di Giunta, che quegli uomini comandò, sempre sul suo giornale, alla vigilia del Convegno di Napoli, sarà inequivocabile

 

Ancora qualche tempo addietro, si poteva sorridere al passaggio di una squadra di fascisti, qualche volta più umoristici che seri, con i troppi distintivi e gli strani segni di cui erano ricoperti dal capriccio personale più che dalla necessità di un simbolo. (Francesco Giunta, Essenza dello squadrismo, Roma 1931, pag. 219)

 

Non si offendono certo i fascisti per qualche timido sorriso di chi li osserva sfilare. La forza di cui sono consapevoli li fa sicuri, come testimonia quella voce sussurrata a mezza bocca, con un sottofondo di timore, al loro passaggio: “Xe i fascisti”.

 

***

 

Una notte fosca sulla terra e sul mare… Quella notte Trieste era tormentata da un brivido gelato di vento e da una pioggia sottile, che si polverizzava nell’aria a fugare le ultime ombre dei passanti per tutte le vie del centro.

Solo i caffè rigurgitavano di folla. E il Caffè degli Specchi – in piazza dell’Unità – coi suoi tavoli ritirati e l’orchestra all’interno, aveva riacquistata la sua fisionomia schiettamente invernale.

A entrarvi dentro un osservatore superficiale vi avrebbe dato la solita occhiata distratta convinto di trovarsi in uno dei soliti ambienti ove la gente ama trastullare la propria noia sorseggiando il solito caffè.

Ma un giovanotto che ci era balzato di spinta, fermandosi poco oltre la soglia a figgere lo sguardo in un angolo, vi aveva subito scorto il gruppo di uomini che cercava. E un rapido lampeggiar di pupille era corso brevemente, come per una tacita intesa, finchè lo sconosciuto – come guidato da un avvertimento – aveva repentinamente volto il capo da un’altra parte, dirigendosi speditamente verso il fondo del caffè, presso al tavolo dove un giovanotto, tutto solo, stava tutto immerso nelle lettura di un giornale.

Qualcuno aveva notato questa specie di manovra, ed una esclamazione a mezza bocca aveva sottolineato gli incontri a distanza di quegli sguardi, con la frase che, da vario tempo, tiene a Trieste il significato di un lungo discorso:

“Xe i fascisti!”

Potevano essere le due dopo la mezzanotte quando alla porta principale d’ingresso dell’ospedale, due Ufficiali dei Bersaglieri picchiavano furiosamente sorreggendo a braccia un giovane che sembrava svenuto. La sua testa arrovesciata sul petto, e dondolante ad ogni mossa, appariva fasciata alla meglio da alcuni fazzoletti sporchi di sangue: e tutto lasciava supporre la gravità del caso, anche per la impazienza rabbiosa con cui i due Ufficiali tempestavano di colpi la porta ancora chiusa.

“Ohè, per Dio, aprite sì o no?”

Un infermiere aprì finalmente lo spiraglio. E, visto il ferito, si affrettò a spalancare la porta.

Subito entrò un Ufficiale, trascinando l’uomo che si reggeva a stento, mentre l’altro si adoperava a facilitare quel laborioso ingresso, ripetendo esattamente una delle tante scene notturne consuete alla soglia degli ospedali di tutto il mondo, quando, improvvisamente, un nuvolo di uomini irrompe dall’esterno e penetra nell’atrio con il tumulto tempestoso di un assalto.

E’ un attimo.

Il ferito si drizza senza più le bende, scoprendo la sua faccia che ride convulsa. I due Ufficiali spariscono alla testa di un gruppo che dilegua inghiottito da una porta spalancata a rovina, e gli uomini di guardia con il custode e l’infermiere, accantonati dal terrore, sono in procinto di emettere un grido di allarme.

Ma il capo della spedizione è lì di fronte a loro, con la rivoltella in pugno. E dietro di lui sono dieci uomini che spianano silenziosamente le armi.

“Ohè! Il primo che fiata è un uomo morto!”

Ma l’intimazione non è necessaria. Perché nessuno dei guardiani ha voglia di cimentarsi. Cosicchè la presa di possesso degli apparecchi telefonici avviene senza il minimo incidente. E come nessuno fiata, nessuno si muove. Anche la guardia di PS si è pacificata. Diamine! Essa non è mica lì per respingere assalti di quel genere. E poi pare che abbia capito. Dice ad un certo momento: “Fascisti!”

E una voce all’ombra risponde: “Precisamente!”

E tutto, allora, pare chiaro.

Intanto, l’assalto ha proceduto verso la cappella mortuaria, dove le sentinelle, nell’ombra, di sono ritrovate quasi senza avvedersene, alle prese con dieci uomini sbucati dalle tenebre con un balzo di tigre. Hanno fatto appena in tempo ad urlare: “Chi va là?”.

Ed hanno anche potuto imbracciare il loro moschetto. Ma sono già abbrancate dalla stretta feroce di un abbraccio che atterrerebbe un bue. E senza neanche avere il tempo di dire una parola, si ritrovano senza armi.

Di là, entro la cappella, intanto, la bara è stata rimossa. Due uomini se la sono caricata sulle spalle. Ed ora varca la soglia silenziosamente. Pare come afferrata dal destino. Sembra che una forza ignota, venuta dalle tenebre, abbia teso le sue braccia smisurate a ghermire quella preda reclamata da una passione di popolo pronta ad esplodere nel pieno sole di una giornata di lutto tricolore. Poiché dietro la bara le ombre dileguano in silenzio, traendo seco – prigioniere – le due guardie inermi che non sanno se maledire l’affronto o se inorgoglirsene.

Giunto il piccolo corteo nell’atrio principale, una voce gridò sottovoce: “Alt!”

Tutti si fermarono “A terra!”

La bara – a questo secondo comando – fu deposta sul pavimento.

Se ne intese il rumore secco e scricchiolante di uno spigolo sgusciato di mano ai portatori.

Un carro-lettiga, in un angolo, fu rimosso e portato innanzi. Incontro provvidenziale. La bara, subito risollevata, vi fu deposta e, ricoperta alla meglio con gli indumenti trovati sul carro. E il corteo procedette fino all’ingresso principale, dove la bara fu nuovamente fermata.

Allora il capo della spedizione si fece innanzi e disse, rivolto ai guardiani dell’ospedale:

“Vi avverto che i telefoni resteranno piantonati per un’ora. Voi vi siete arresi alla violenza, e non avrete quindi nulla a temere, perché noi assumiamo fin d’ora tutta la nostra responsabilità. Badate, di conseguenza, di non muovere un passo prima di un’ora. Qui restano cinque uomini incaricati di sparare su di voi al minimo accenno di disobbedienza ai miei ordini”.

E, rivoltosi al portiere, aggiunse:

”Fra un’ora lei darà l’allarme, telefonerà, farà quel che diavolo vuole, ma intanto non le consiglio di agitarsi, perché non avrebbe neanche il tempo di pentirsene. Siamo d’accordo?”

Girò – sì dicendo – sulle facce di tutti uno sguardo interrogativo. Nessuno rispose, ma nessuno mostrò di non aver compreso. Ed egli concluse soddisfatto, con un “buona notte” che risuonò nel silenzio con una intonazione di minaccia.

Poi, voltosi agli amici che si stringevano intorno alla bara, parve contarli con una occhiata. E, soddisfatto del controllo, diè l’ultimo comando:

“Avanti!”

E pochi istanti dopo il piccolo corteo – nell’ombra – usciva da piazza Ospedale imboccando la via Ginnastica.

Per via Delle Acque e poi per via Chiozza, non un’anima viva. Continuava a piovere.

Folate improvvise di vento facevano sbattere i lembi delle coperte che involgevano la bara. E allora, di qua e di là gli uomini si affrettavano a trattenerli, premurosi di impedire che la bara si bagnasse, e però lieti che il vento venisse a liberarli tratto tratto dall’inseguimento del fetore che tormentava specialmente gli ultimi. Tanto che, ad un certo punto, la bara, anziché precedere, seguiva il gruppo; un gruppo di gente muta e minacciosa che lanciava occhiate in tutte le direzioni, pronta a svelare la canna di un revolver al primo incontro sospetto.

La via Carducci – ampia e misteriosa – fu attraversata a passo da Bersagliere. Il cadavere rotolava via traballando, come un enorme fagotto di cenci. Piazza S. Giovanni mostrò di lontano una coppia di guardie che strisciarono in direzione opposta, a ridosso dei palazzi. Per via Rossini, invece, alcuni passanti sostarono come sorpresi dal transito di quel gruppo indefinibile di corridori addossati a quello strano carretto carico di un fagotto più originale ancora. E la via 3 Novembre fu percorsa sotto raffiche di più rabbioso vento che avrebbero, senza dubbio, sviata l’attenzione delle guardie più zelanti e sospettose, ove se ne fossero incontrate.

In via del Teatro, una pattuglia fascista vigilava l’arrivo.

Il corteo, silenziosamente, imboccò l’ingresso della sede del Fascio, e disparve con la bara su per la buia scala.

Appena dieci istanti dopo, la sala delle adunanze era trasformata in camera ardente. Il feretro, avvolto nel tricolore, andava ricoprendosi di fiori. E quaranta uomini si apprestavano alle estreme difese, tramutando la sede del Fascio in un fortilizio.

E quando il Generale delle Guardie Regie, inviato a Trieste appositamente dal Governo, per mitigare con la sua presenza e con il suo discorso il tacito affronto di qui funerali destinati dalle autorità ad essere ridotti ai minimi termini del semplice saluto alla stazione, quando codesto Generale, ricevuta la denuncia del furto della salma, chiamò i dirigenti del Fascio a colloquio, per intimare loro la restituzione, ne ebbe in risposta queste semplici parole:

“Se le autorità vogliono il cadavere, lo mandino a prendere!”

E a nessuno, naturalmente, passò neanche per l’anticamera del cervello la balzana idea di accendere una battaglia in piena regola attorno ad una bara che i fascisti avrebbero difeso fino al’estremo.

Così tutta Trieste, il giorno seguente, potè tributare ad una delle tante vittime del banditismo rosso, le solenni onoranze funebri reclamate dalla pietà popolare, in obbedienza ad un altissimo dovere civile.

(Piero Belli, Il furto di un cadavere, Milano 1920)

 

FOTO 1: il libro di Piero Belli

FOTO 2: squadrismo triestino

 

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