11 Maggio 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, trentottesima parte – Fabio Calabrese

Vi ho già spiegato altre volte i motivi per i quali è opportuno non prendere in considerazione l’attività dei gruppi facebook che si occupano di questioni ancestrali: prima di tutto il fatto che questi gruppi che di solito raccolgono non più di qualche centinaio di persone non hanno perlopiù dimostrato nessuna gratitudine per la “cassa di risonanza” loro offerta da “Ereticamente”, poi una serie di amare esperienze ci ha dimostrato che perlopiù le persone che scrivono su di essi sono affette da uno sfacciato protagonismo, probabilmente alimentato dal fatto che poter scrivere in internet dà loro l’illusione di avere come platea il mondo intero.

Tuttavia, penso sia il caso di fare un’eccezione quando in questi gruppi compare qualcosa di realmente importante. In questo caso, parliamo di MANvantara che il 31 agosto ha pubblicato un link a un articolo de “Il fatto storico” risalente al 2016, passato inosservato ma il cui contenuto è per noi di grande interesse, si tratta dei risultati di uno studio condotto da un team internazionale di ricercatori guidato dai paleogenetisti dell’Università Johannes Gutenberg di Magonza sul DNA degli agricoltori neolitici della Penisola anatolica e dell’Egeo.

I risultati sono sorprendenti, si è evidenziata una cesura, un netto distacco fra popolazioni geneticamente diverse, la cui linea di confine è rappresentata dai monti Zagros. La separazione dei due gruppi sembra essere avvenuta tra i 46.000 e i 77.000 anni fa, dunque estremamente antica. Fra gli autori della ricerca, l’articolo menziona Farnaz Broushaki, portavoce del gruppo.

Teniamo presente che nell’antichità, fino all’invasione turca, probabilmente la prima grande sostituzione etnica di cui abbiamo notizia, l’Anatolia era piuttosto Europa che non Asia, qui sorse la Ionia ellenica e poi fu parte integrante dell’impero bizantino.

Il gruppo “occidentale” è geneticamente connesso con gli Europei, quello “orientale” con le popolazioni dell’Iran, del Medio Oriente, dell’India, dell’Asia meridionale.

Si tratta in sostanza di un’ulteriore smentita della tesi secondo la quale l’Europa sarebbe stata colonizzata da agricoltori di provenienza mediorientale, tuttavia è abbastanza chiaro che gli autori della ricerca, affetti dal solito strabismo mediorientale, si sono trovati in mano il contrario di quel che volevano dimostrare, infatti si tratta di una ricerca a corto raggio, con l’esame, per quanto riguarda l’Europa, di un solo sito sulla costa greca dell’Egeo, una ricerca a raggio più ampio avrebbe mostrato un quadro molto più chiaro, pensiamo alla priorità europea nella scoperta dei metalli (l’ascia dell’uomo del Similaun), nell’allevamento bovino (dimostrata dalla tolleranza al lattosio), l’antichissima aratura cerimoniale attorno all’ara di Saint Martin de Corleans (ed è impensabile che l’aratro sia stato inventato prima per fini di culto che per l’uso pratico della lavorazione dei campi).

En passant si può accennare al fatto che sempre MANvantara il 3 settembre ha postato uno stralcio di Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta del nostro Gianfranco Drioli. Qui Drioli si occupa di un argomento di cui vi ho parlato ripetutamente anch’io: gli Ainu, la popolazione europide, bianca, che un tempo popolava il Giappone e di cui oggi rimane un residuo nell’isola di Hokkaido. In particolare, Drioli osserva che sebbene i linguisti oggi affermino che la lingua ainu non sembra imparentata con nessun altro linguaggio conosciuto, in realtà è possibile rilevare somiglianze con l’indoeuropeo. Questo ci rimanda a un discorso che perlopiù si preferisce evitare, quello di un antico popolamento europide dell’Asia che è probabilmente alla base delle grandi civiltà asiatiche. Che altro dire? Iperborea è un libro che non dovrebbe mancare nella biblioteca di nessuno di noi.

Il 28 agosto sono apparsi su “Veneto storia” due nuovi articoli di Millo Bozzolan, il primo dedicato alla società dei Veneti antichi. Gli antichi Veneti, a quanto pare, erano organizzati in modo non dissimile da quello di altri popoli dell’antichità, con un sistema di città-stato variamente federate dove mancava un potere centrale, una stratificazione sociale piramidale differenziata in varie classi e dominata da un’aristocrazia. Una curiosità: sembra che i guerrieri veneti siano stati i primi ad adottare per ragioni igieniche il taglio dei capelli corto poi ripreso dai Romani e oggi diffuso negli eserciti del mondo.

Il secondo articolo ci parla di nuovo di quella che, come abbiamo visto la volta scorsa, sembra essere stata la grande specialità dei Veneti nell’antichità, l’allevamento dei cavalli. Collegato ad esso era il culto di Diomede, poi si parla delle cavalle “lupifere”, cioè marchiate con il simbolo del lupo, che erano ritenute di particolare qualità, e di cui i Greci erano grandi acquirenti.

C’è anche un link a un altro articolo un po’ vecchiotto (2016) sempre di Bozzolan, che parla di una poco conosciuta e misteriosa divinità del pantheon venetico, Trimusiate il dio con tre teste, o divinità triplice, perché secondo gli antichi Veneti regnava sui tre mondi, quello terrestre, quello celeste e quello infero, era l’equivalente maschile di Reitia. Come osserva l’autore, non è certo la sola divinità triplice che troviamo nella storia delle religioni, e in questo senso potrebbe essere accostato alla Trimurti indiana e alla Trinità cristiana (in entrambi questi casi, però la natura triplice assume significati diversi).

Bozzolan nota che Trimusiate si trova anche presso gli slavi con il nome di Tryglav. La cosa non desta meraviglia. Sappiamo che i Veneti erano in origine stanziati in quella che oggi è la Polonia e da qui migrarono suddividendosi in almeno due nuclei importanti, uno che si stanziò nella Gallia nord-orientale dove originò i Vendi della Vandea (si noti la somiglianza dei toponimi di questa regione con quelli polacchi, ad esempio Brest e Brest-Litovsk), l’altro che si insediò nel nord-est italiano. A oriente dei Germani, il loro posto fu preso dagli Slavi, che i Germani continuarono a chiamare con il nome dei loro antichi vicini, “Wenden”. Non è difficile immaginare che tale sostituzione possa non essere stata totale, e che fra Veneti e Slavi possano essere avvenuti scambi culturali ed etnici.

Per curiosità, possiamo vedere che Triglav, tradotto erroneamente come monte Tricorno (il suo nome non significa “tre corna” ma “tre teste”), è il nome del monte più alto della Slovenia, e lo stemma col suo profilo a tre punte si trova oggi nella bandiera slovena.

“SciTechDaily” del 3 settembre in un articolo che ha la firma collettiva della Stony Brook University, riporta i risultati di una ricerca compiuta da ricercatori della stessa università sul DNA dei resti umani dell’Età del Bronzo risalenti al 1.200 avanti Cristo rinvenuti in Germania nella valle del fiume Tollense. Se ve ne ricordate, ve ne avevo parlato in uno degli articoli precedenti di questa serie: in epoca preistorica questa valle tedesca deve essere stata teatro di una furiosa battaglia che ha lasciato sul suolo un gran numero di morti i cui resti sono ora a disposizione dei ricercatori, anche se non sappiamo chi fossero le due parti in conflitto.

Dall’analisi del DNA dei resti di questi antichi guerrieri è emerso un dato interessante, la presenza dei geni per la sintesi dell’enzima lattasi, quello che permette la tolleranza al lattosio anche in età adulta, dimostra che essa e la possibilità di bere latte vaccino si diffusero rapidamente fra le popolazioni europee, certamente come adattamento darwiniano alla nuova fonte alimentare, il latte vaccino, resa disponibile dall’allevamento dei bovini.

“SciTechDaily” sottolinea il fatto che, sebbene la tolleranza al lattosio sia comune fra gli Europei e gli Americani del nord, essa è assente o molto rara presso i circa due terzi restanti dell’umanità. Come ho evidenziato più volte, questa è una prova evidente del fatto che l’addomesticamento dei bovini è avvenuto in Europa.

Le due aree più importanti della Gran Bretagna dal punto di vista dell’archeologia preistorica sono probabilmente il Wiltshire nell’Inghilterra meridionale dove sorgono Stonehenge, Durrington Wall e gli altri monumenti e resti neolitici della piana di Salisbury, e, praticamente all’opposto della grande Isola Britannica, l’arcipelago delle Orcadi a nord della Scozia, il cui “cuore neolitico” è stato dichiarato dall’UNESCO “patrimonio dell’umanità”. Ci si aspetterebbe quindi che in questi luoghi tutto quanto sia ben conosciuto e non vi sia più nulla da scoprire, eppure evidentemente non è così.

In “Ancient Origins” del 4 settembre, un articolo di Ed Whelan riferisce che Jay van der Reijden, uno studente di master presso l’Università delle Highlands e isole Archaeology Institute, ha fatto una scoperta, o forse più semplicemente avanzato una nuova interpretazione per quanto riguarda il tumulo funerario di Maeshowe, uno dei più noti monumenti che formano il “cuore neolitico” delle Orcadi. Il giovane ricercatore ha notato che le due camere laterali del tumulo avrebbero una disposizione geometrica invertita rispetto a quella della camera centrale, e sarebbero quindi dei “passaggi per l’aldilà” che gli antichi scozzesi avrebbero concepito come un mondo invertito rispetto a quello nel quale viviamo, come il riflesso in uno specchio.

A me sembra un’ipotesi interessante ma non certa, piuttosto che una nuova scoperta, ma di certo si può dire che l’archeologia europea è ancora ben lontana dall’aver esaurito le sue sorprese.

Sempre il 4 settembre, un articolo di “The Archaeology Magazine” ci parla di un ritrovamento avvenuto a Ballyshannon in Irlanda, anche in questo caso, come in altri che abbiamo già visto, messo in luce dallo scavo di un cantiere edile. All’interno di una grande fossa sarebbe stato rinvenuto un tumulo composto da una grande lastra di arenaria e diverse pietre minori, che risalirebbe all’Età del Bronzo. Sulla lastra sono state trovate incise numerose coppelle (piccoli incavi circolari di solito usati per rappresentare stelle e costellazioni), ed è stata ritrovata anche una grande urna in ceramica, tuttavia non sono stati ritrovati né resti umani né segni di sepoltura, anche se si attende un esame osteoarcheologico del contenuto dell’urna. Rimane il dubbio su quali finalità avesse questo monumento, se non era destinato a un uso funerario.

A titolo di confronto, “The Archaeology Magazine” pone un link a un articolo dello scorso novembre, Mistero Megalitico di Benjamin Leonard, che parla di un sito sicuramente sepolcrale (dove sono stati ritrovati resti umani) appartenente verosimilmente alla medesima facies culturale, che è stato ritrovato in Francia, precisamente a Veyre-Monton nella Francia centrale, e anche in questo caso, il sito interamente sepolto, è stato scoperto durante dei lavori di pavimentazione stradale.

Si tratterebbe di un tumulo ampio 46 per 21 piedi e di circa trenta menhir di varie dimensioni, e il luogo pare essere stato un luogo di sepoltura dal Neolitico all’Età del Bronzo, ma la cosa bizzarra è che a un certo punto il sito è stato completamente ricoperto.

Vi ho detto più sopra che le aree più importanti dell’archeologia preistorica in Gran Bretagna sono probabilmente il Wiltshire e le isole Orcadi. A esse andrebbe accostata in Irlanda la valle del fiume Boyne dove si trovano le famose tombe a corridoio, la più bella, la più intatta, la più nota, è quella di Newgrange, ma essa non è l’unica e neppure la più grande, essendo superata per ampiezza da quella di Knowth. Bene, anche qui le scoperte sembrano non dover finire mai.

A parlarcene stavolta non è una pubblicazione di archeologia, ma un sito per turisti (si vede che gli archeologi, quelli ufficiali erano troppo impegnati a rincorrere fantasie egizie e mediorientali), “Boyne Valley Tours”, l’autore dell’articolo (senza data) è Martin Brennan.

Nei pressi del tumulo di Knowth si trovano nove pietre incise che sono state chiamate “kebstones”, “paracarri”, ma un esame un po’ attento mostra che si trattava di meridiane, con incisioni che le dividono in settori per indicare le ore della giornata, e un foro dove doveva essere posizionata l’asta, lo gnomone. Sono anche state individuate le posizioni dove dovevano essere collocate altre tre pietre oggi mancanti; in origine dovevano essere dodici, una per ciascun mese dell’anno.

L’articolo riferisce anche che il tumulo di Newgrange, finora chiuso al pubblico in seguito alla pandemia di covid19, torna a essere visitabile, però dall’esterno, senza entrare nella camera sepolcrale.

“Le Scienze” nei due numeri di agosto e di settembre 2020 presenta in ciascuno di essi un articolo di Giorgio Manzi dedicato agli uomini di Neanderthal, tematica in cui Manzi sembra essersi specializzato.

Non vi riferirò il loro contenuto se non in estrema sintesi, poiché si tratta di una tematica che abbiamo affrontato parecchie volte: E ormai certo che dobbiamo considerare l’uomo di Neanderthal non solo un essere umano molto simile a noi, ma un nostro antenato, portiamo nel nostro DNA le tracce della sua eredità. I nostri progenitori Cro Magnon si sono di certo incrociati con lui, e più di una volta.

Quello che invece non persuade nei due articoli di Manzi, è la convinzione riferita da alcuni ricercatori, secondo la quale questa eredità neanderthaliana sarebbe alla base di problemi che attanagliano oggi la nostra salute: nell’articolo di agosto si sostiene che i geni neanderthaliani sarebbero responsabili di una maggiore fragilità al covid19 e in quello di settembre si suppone che gli stessi geni predisporrebbero a una soglia del dolore più bassa.

Come fanno i ricercatori ad avanzare supposizioni di questo tipo? Logica vorrebbe che per poterle fare bisognerebbe disporre di un uomo di Neanderthal vivo da sottoporre ad esami medici. Semmai, sappiamo che l’uomo di Neanderthal viveva in un ambiente più duro di quello in cui viviamo noi oggi, la logica della selezione naturale vorrebbe che fosse stato più robusto e meglio costruito di noi, non più fragile e malaticcio. Sospetto che alla base di simili ipotesi vi sia sempre il pregiudizio evoluzionista, per il quale ciò che è venuto prima deve essere stato per forza meno buono o più imperfetto di ciò che è arrivato dopo.

A questo punto sarà opportuno ripetere un discorso che vi ho digià fatto altre volte, ma mai come in questo caso repetita iuvant. L’aver fatto ricorso a fonti di archeologia e “scienza” ufficiali come “Ancient Origins”, “The Archaeology Magazine”, “Le Scienze” non deve far dimenticare che questi articoli hanno un risvolto anche politico; quanto meno, lo è evidenziare l’antichità e la grandezza della civiltà europea, soprattutto in un momento in cui essa è sotto attacco. Sappiamo che negli Stati Uniti il presunto antirazzismo dei “Black Lives Matter” si sta traducendo in un attacco generalizzato contro tutto ciò che è “bianco” ed “europeo”, e questa situazione ha ricadute anche da noi grazie ai sinistri intelligenti come capre o teste di sardina.

Ma davvero negli Stati Uniti continua ad allignare un razzismo tale da giustificare la furia iconoclasta dei BLM, così come ce lo raccontano i “nostri” media infeudati a sinistra, e intenti a qualsiasi mistificazione possa servire a diminuire la resistenza alla sostituzione etnica? Io credo che si possa affermare tranquillamente di no. La polizia USA, lo sappiamo, ha la mano pesante, e il fatto che in episodi violenti sono coinvolti afroamericani, non è certo motivo di stupore, considerando che si tratta del gruppo etnico maggiormente dedito ad attività illegali e crimini violenti, e d’altra parte l’uccisione di un bianco non fa certo notizia.

Ne volete una riprova? Recentemente una docente universitaria americana, Jessica Krug, ha confessato di essersi spacciata per nera per decenni, è invece un’ebrea bianca. La stessa cosa aveva fatto nel 2015 un’attivista di sinistra, Rachel Dolzel, che era stata però sbugiardata dai suoi genitori. La fonte di queste informazioni è una pubblicazione di estrema, estremissima destra: “La Repubblica”. Ora riflettete un momento: se negli USA di oggi esistesse il razzismo di sessant’anni fa, che convenienza ci sarebbe a spacciarsi per neri?

Il vantaggio di tale mistificazione è invece evidente: potremmo chiamarlo “effetto Prentice”, ispirandoci al dottor Prentice, protagonista di Indovina chi viene a cena, che confessa di essere sempre stato favorito al di là dei suoi reali meriti da gente che aveva paura di apparire razzista.

O più crudamente possiamo parlare di razzismo anti-bianco, il solo vero razzismo che c’è negli Stati Uniti e oggi deborda anche da noi grazie alle teste di legno di sinistra.

A tutto ciò noi non possiamo rispondere altro che con la determinazione a difendere la nostra eredità, culturale e biologica, e la nostra identità.

NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra un Ainu di Hokkaido, immagine che accompagna lo stralcio di Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta presentato su MANvantara, se ne notino i lineamenti europidi, al centro, raffigurazione di Trimusiate-Tryglav, il dio tricefalo veneto-slavo, a destra Jessica Kung, l’insegnante ebrea che si è spacciata per afroamericana.

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