10 Aprile 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, quarantottesima parte – Fabio Calabrese

Questo è il secondo articolo che mi accingo a scrivere nel mese di dicembre 2020, anche se non oso fare previsioni sul momento in cui comparirà sulle pagine di “Ereticamente”.

Devo purtroppo cominciare con una brutta notizia. L’amico Auro Wild mi fa sapere che nei primi giorni del mese è scomparso Millo Bozzolan. Millo Bozzolan, noto anche con il nome di battaglia di Milo Boz era un appassionato studioso dell’antichità veneta, e in diverse parti di l’eredità degli antenati ho citato i suoi articoli sul Veneto preromano comparsi principalmente su “Veneto storia”.

Ci lascia ponendo fine a un contributo importante, perché, come sapete, non è che sull’Italia preromana ci sia un grandissimo interesse da parte dei ricercatori.

Guarda caso, caso che delle volte riesce a essere proprio bizzarro, come sapete, io cerco sempre di seguire, “tastare il polso” all’interesse che destano i miei articoli, alle eventuali discussioni che ne possono nascere, da cui si può sempre apprendere qualcosa. Ebbene, ho ricevuto alcuni interessanti commenti sulla trentottesima parte de L’eredità degli antenati, proprio in relazione a un articolo di Bozzolan da me citato: in esso si parlava del dio venetico Trimusiate, dio tricefalo venerato anche dagli slavi con il nome di Triglav, e principale divinità maschile del pantheon venetico che ha al suo vertice (cosa eccezionale per degli indoeuropei) la figura femminile della dea Reitia.

Diversi lettori mi hanno fatto notare che anche nel pantheon celtico c’è una figura tricefala molto simile a Trimusiate, Belatrich, talvolta raffigurato come un gigante, mi informano anche che il suo culto era diffuso nell’alto vicentino, nel feltrino e nel basso trentino, quindi in area venetica, il che fa pensare a una sovrapposizione fra le figure di Trimusiate e Belatrich. Un lettore accenna anche a una connessione di Belatrich con il mito della “caza selvaja” (caccia selvaggia) che lascia intravedere connessioni con la mitologia nordica e la figura di Odino. In val di Brenta c’è la leggenda del gigante Beatrich (senza “l”) che apparirebbe ai viandanti sui valichi con un pieda su una montagna e uno sull’altra, e la sua apparizione sarebbe accompagnata dall’ululato dei lupi (altro elemento odinico).

Altri lettori vi hanno visto un accostamento con la figura della mitologia classica di Gerione, che, qualcuno mi ha specificato, era venerato anche in Etruria e a Siracusa, identificazione che non mi pare proprio esatta, perché Gerione non aveva tre teste ma tre corpi, e lasciamo perdere il Gerione dantesco che è una specie di chimera ed è un’invenzione del poeta.

Pare insomma di aver toccato un remoto fondo comune di mitologia indoeuropea.

Continuiamo sulla stessa falsariga. Io cerco di diffondere quanto più posso il contenuto di questi articoli sui gruppi facebook che si occupano della questione delle origini, non perché mi senta spinto dall’esigenza di vedere il mio nome scritto da più parti possibile, ma perché penso che la concezione che cerco di portare avanti, in particolare contrastare le bufale africano-centriche create apposta per farci accettare l’immigrazione, il meticciato e la sostituzione etnica, siano una parte importante della nostra visione del mondo.

Sempre nella trentottesima parte, menzionavo uno stralcio del libro di Gianfranco Drioli Iperborea, la ricerca senza fine della patria perduta, un testo io penso fondamentale, data la carenza di studi accessibili sulla tematica iperborea, cosa che peraltro non stupisce, dato che presenta una tesi sulle nostre origini che è esattamente opposta all’afro-centrismo oggi imperante.

Bene, sembra che io abbia quanto meno contribuito a risvegliare l’interesse su questo interessante testo, infatti, immediatamente adiacente alla condivisione della trentottesima parte di L’eredità degli antenati che ho postato su “MANvantara”, il gruppo del nostro Michele Ruzzai, è apparsa una breve recensione di Auro Wild di Iperborea che ha innescato un interessante dibattito.

Auro rileva giustamente che questo testo è un esempio di quella che potremmo definire “cultura militante”, che ha il potere di calare il lettore, grazie all’abbondanza di nozioni storiche, archeologiche, mitologiche, in un’ottica molto diversa da quella che il potere vuole.

“Iperborea è uno di quei libri che ti cala(no) nella condizione di farti numerose domande sull’origine dell’uomo e degli Europei in particolare, rimettendo in discussione gli schemi tradizionali di una cultura impantanata in stereotipi ben definiti”.

Sono d’accordo, ed è quanto aspiro a fare anch’io. Tuttavia, nel dibattito che ne è seguito, non si può non rilevare la presa di posizione di Olga Samarina, la studiosa russa che da tempo collabora con “MANvantara”, e i cui interventi io stesso ho più volte citato su queste pagine. La Samarina ci fa presenti due cose: in Occidente c’è una tendenza a collocare Iperborea nel nord-ovest, in ultima analisi a confonderla con Atlantide, ignorando le numerose testimonianze di strutture megalitiche di origine remotissima che esistono nel nord della Russia e in Siberia, suggerendo che proprio qui, nell’area circum-polare andrebbero ricercate le tracce della civiltà iperborea, e seconda cosa, la carenza di informazioni e di fonti di cui vi ho detto, vale per il mondo occidentale, non per la Russia, dove riguardo alla tematica iperborea esistono molti testi e studi scientifici, che però le difficoltà linguistiche e l’assenza di traduzioni nelle lingue occidentali ci rendono inaccessibili.

Tutt’a un tratto, si ha l’impressione che la Cortina di Ferro esista ancora, solo che stavolta rinchiusi dietro di essa, prigionieri di un’ideologia dogmatica che cercano di imporci a tutti i costi, ci siamo noi.

Quasi a voler confermare quanto scritto sopra, il fatto che la Russia, dove nel periodo comunista queste ricerche erano tutt’altro che incoraggiate, è uno scrigno di tesori archeologici ancora tutti da esplorare, “The archaeology News Network” del 1 dicembre ci informa del ritrovamento della sepoltura di un “signore della guerra” scita nella Russia meridionale, in un tumulo alto 3 metri e con 50 metri di diametro che si trova fra i fiumi Don e Kagalcik. Il tumulo era noto dal 1976, ma è stato scavato soltanto ora. Si pensava si trattasse di un’inumazione della popolazione sedentaria locale, invece lo stile del corredo funebre è tipico degli sciti nomadi degli Urali meridionali, del IV secolo avanti Cristo. La sepoltura principale era stata già saccheggiata nell’antichità. Per cui ha restituito soltanto il cranio del defunto e cinque anfore. Ma erano intatte le sepolture “di accompagno”, una delle quali conservava i resti di un cavallo, l’altra, quella di un uomo, verosimilmente una guardia del corpo, un uomo che da vivo doveva avere un’altezza di circa due metri. Quest’ultimo pare che sia stato ucciso al momento della cerimonia funebre. Il suo corredo funebre era composto di armi, tra cui una spada con l’elsa rivestita da una lamina d’oro.

È probabile che l’archeologia russa ci riserverà in futuro ancora molte sorprese.

Poiché, come vedete, ho impostato questo articolo prevalentemente sulla base dei commenti ricevuti dai miei scritti precedenti, proseguiamo nella medesima direzione. Un po’ il clou della trentanovesima parte, è la sintesi che ho fatto di un articolo apparso su “Ancient Origins”, che è in realtà un capitolo del libro The Myth o Man di J. P. Robinson in cui l’autore porta una serie di prove a un fatto di estrema importanza: ci sono una serie di “imbarazzanti” ritrovamenti che testimonierebbero che l’umanità è molto più vecchia di quanto ammesso dalla “scienza” ufficiale, che intorno a essi ha steso un muro di gomma di censura, e il perché non è molto difficile da comprendere, perché essi metterebbero in crisi non l’Out Africa (benché la maggior parte di essi sia avvenuta in Europa), ma lo stesso dogma evoluzionistico, perché se l’umanità ha l’antichità che essi lasciano intendere, allora tutta la serie di ominidi che sono stati proposti come anelli della catena di una transizione dalla scimmia all’uomo, non possono essere tali, ma tuttalpiù rami collaterali degenerati, o figure inventate di sana pianta.

Bene, il nostro Michele Ruzzai, in un commento che questa volta ha postato direttamente su “Ereticamente” in calce all’articolo, mi fa notare che riguardo a questa questione esistono anche testi in lingua italiana, mi cita in particolare Archeologia proibita, la storia segreta della razza umana (Ristampa Newton Compton 2020), di Michael A. Cremo e Richard L. Thompson e Le origini segrete della razza umana (OM editore 2008) del solo Michael A. Cremo.

Che dire? Michele Ruzzai è un osservatore attento oltre ad avere un’indubbia competenza per tutto ciò che riguarda le tematiche delle origini. Peccato solo che i suoi interventi su “Ereticamente” siano così sporadici.

Come credo di avervi detto altre volte, io tengo regolarmente d’occhio anche i gruppi facebook che si occupano di tematiche storiche, archeologiche e antropologiche, tuttavia al riguardo il più delle volte vi è ben poco da riferire, perché in questi perlopiù non si trovano che link ad articoli che compaiono in siti “maggiori” che tanto vale citare direttamente. Sono però sempre disposto a fare un’eccezione nel caso che salti fuori qualcosa di interessante.

Ultimamente, sebbene il post non sia recentissimo, ho tovato in un gruppo dal nome bizzarro: “Crani allungati, scienze varie e antropologia confusa”, riportato questo aneddoto:

“Anni fa uno studente chiese all’antropologa Margaret Mead quale fosse il primo segno di civiltà in una cultura. Lo studente si aspettava che la Mead parlasse di ami, pentole di terracotta o macine di pietra. Ma non fu così. Margaret Mead disse che il primo segno di civiltà in una cultura era un femore rotto e poi guarito. Spiegò che nel regno animale se ti rompi una gamba poi muori. Non puoi scappare dal pericolo, andare al fiume a bere o cercare cibo. Sei carne per bestie predatrici. Nessun animale sopravvive a una gamba rotta abbastanza a lungo perché l’osso guarisca. Un femore rotto che è guarito è la prova che qualcuno si è preso il tempo di stare con colui che è caduto, ne ha bendato la ferita, lo ha portato in un luogo sicuro e lo ha aiutato a riprendersi. Margaret Mead disse che aiutare qualcuno nelle difficoltà è il punto in cui inizia la civiltà”.

Suggestivo, vero? Ma a pensarci, più ci rifletto, meno mi persuade.

C’è tutta una scuola di pensiero che da quando il poeta Alfred Tennyson, dopo la lettura de L’origine delle specie di Charles Darwin ha definito la natura “rossa di sangue nelle zanne e negli artigli”, ha cercato invece di stemperare questo crudo giudizio in modo da conciliarlo con l’ideologia progressista, scuola che possiamo dire sia alla base del buonismo contemporaneo.

Darwin, lo ricordiamo, non ha scoperto l’evoluzione (intendendo con questo termine semplicemente la trasformazione delle specie nel tempo, senza applicarvi alcun giudizio di valore) che era già nota prima di lui, ma un’interpretazione della stessa basata sulla selezione naturale, la lotta per l’esistenza, la sopravvivenza del più adatto, la natura come arena di costante confronto spietato, una concezione in ultima analisi incompatibile con i dogmi progressisti e il loro buonismo.

Margaret Mead, ricordiamolo, è stata l’autrice di una serie di testi, fra cui il più importante è Sesso e temperamento in tre società primitive, che sono considerati una sorta di bibbia dalle femministe, il cui concetto di base è che la differenza di temperamento fra uomo e donna non avrebbe una base biologica ma sarebbe unicamente un portato culturale. La Mead è stata anche la moglie dello psicologo Gregory Bateson, noto per aver formulato la teoria del doppio legame. Io non vorrei indulgere all’autocitazione, ma vi devo rimandare, sempre su “Ereticamente” alla lettura del mio saggio Scienza e democrazia per constatare quanto siano fragili e discutibili le basi “scientifiche” di tutto ciò che oggi passa per psicologia, anche senza arrivare al buonismo ‘ingenuo’ di un Vittorino Andreoli o all’atteggiamento più da santone che da ricercatore di un Raffaele Morelli.

Quali siano le credenziali “scientifiche” della Mead ci appare dunque molto chiaro.

La tecnica usata dalla “scuola progressista” (chiamiamola così) per inglobare l’evoluzionismo, farne per così dire un prolungamento biologico dell’idea di progresso, ribaltare la “spiacevole” constatazione di Tennyson, è altrettanto chiara e semplice, e certamente la Mead non ne è stata l’unica esponente, ricordiamo ad esempio Stephen Jay Gould e l’avversione che ha dimostrato verso Konrad Lorenz e la sociobiologia: esaltare le capacità di collaborazione, empatia, altruismo (che indubbiamente esistono nella specie umana) come se fossero l’unica chiave del nostro successo biologico, minimizzando o ignorando del tutto la competitività, la combattività, la capacità di lottare, le qualità virili. Dietro una serie di fumisterie antropologiche e psicologiche rispunta sempre la favola del “buon selvaggio” rousseauiano.

La femmina del polpo, dopo aver deposto le uova, resta a guardia delle stesse senza nutrirsi, fino alla loro schiusa, e finisce per morire di fame e, anche se può deporne centinaia, non riesce a riprodursi più di una sola volta. Nessun essere umano può essere più altruista di così, e allora, perché non sono i polpi a dominare il nostro pianeta?

La risposta è altrettanto chiara: se vogliamo fare un discorso serio a questo riguardo, dobbiamo considerare tutte le componenti della “strategia di sopravvivenza” della specie, senza scartare a priori quelle che appaiono moralmente condannabili (secondo la morale dei servi, direbbe Nietzsche).

Noi abbiamo visto che in ragione dell’antichità della specie umana che pare affondare le sue radici nel tempo ben oltre le poche decine di migliaia di anni concesse dalla favola out-of-africana, si possono avanzare dubbi su tutto il meccanismo evoluzionistico che è l’interpretazione “scientifica” ortodossa delle nostre origini, tuttavia una cosa rimane certa, che il buonismo ‘accoglione’ non ci può portare altro che al suicidio come popoli e come civiltà.

NOTA: Nell’illustrazione, Iperborea come appare nella celebre raffigurazione inserita nel planisfero di Mercatore. Oggi il dibattito intorno a Iperborea sembra aver ripreso quota.

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