10 Aprile 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, cinquantasettesima parte – Fabio Calabrese

Riprendiamo la nostra disamina dell’eredità ancestrale dall’ultima settimana di febbraio. Vorrei però per prima cosa cominciare con un ringraziamento. Per qualche misteriosa ragione, improvvisamente, da metà mese all’incirca, scaricare e condividere su facebook, ai vari gruppi ai quali collaboro, gli articoli pubblicati su “Ereticamente”, a partire proprio dalla quarantasettesima parte de L’eredità degli antenati, è diventato arduo.

Fortunatamente, è venuto in mio aiuto Michele Ruzzai, che “smanetta” in internet meglio di me. Grazie Michele, sei un amico e una risorsa preziosa in ogni senso.

Dopo questa nota doverosa, passiamo a esaminare le più recenti acquisizioni del web sulla tematica a noi cara.

Penso ricorderete che nella cinquantaseiesima parte ho fatto riferimento a un articolo piuttosto sorprendente di Alicia McDermott pubblicato in data 13 febbraio da “Ancient Origins”, il cui succo è l’impossibilità di stabilire, allo stato attuale delle ricerche, quando e dove abbia avuto origine la specie umana. Questa, lo sottolineo, non è l’affermazione di qualcuno al di fuori degli ambienti scientifici ufficiali. A fare questa affermazione non è Tom Rowsell né il sottoscritto, questa è la conclusione a cui è giunto uno studio congiunto degli esperti del Francis Crick Institute e del Max Planck Institute di Jena. Come vi ho già detto, mi sembra legittima l’ulteriore conclusione che questo fallimento sia dovuto al fatto che i ricercatori, nonché difensori della vulgata “scientifica” ufficiale si siano intestarditi (e continuano a intestardirsi) per motivi ideologici e non scientifici sul  dogma dell’Out of Africa, della presunta origine africana della nostra specie.

La stessa conclusione, la stessa confessione di smarrimento e fallimento la troviamo in un articolo di Lorenzo Fargnoli apparso su “Science Fanpage” che confessa (e si intitola) Abbiamo sbagliato tutto sull’origine dell’uomo.

Alla stessa pessimistica conclusione, apprendiamo, è giunto un team di ricercatori dell’università di Oxford guidato dalla dottoressa Eleanor Scerri.

Che sia davvero venuto il tempo di un salutare ripensamento sulle nostre origini, e di conseguenza sull’idea che ci facciamo di noi stessi, che poi ha precise ricadute su una serie di questioni pratiche, innanzi tutto l’atteggiamento nei confronti dell’immigrazione?

Mi permetto di essere scettico a questo riguardo: qualunque siano le conclusioni a cui arrivano gli scienziati, il sistema mediatico cui è demandata la formazione dell’opinione pubblica, continuerà a sostenere le menzogne che fanno comodo al potere, è quel che si chiama democrazia.

Il 21 febbraio su “Ancient Origins” un articolo di Nathan Falde ci parla del ritrovamento nel Galles settentrionale, a due passi dal castello di Rhuddan, dei resti di un accampamento di età mesolitica risalente a 9.000 anni fa, che parrebbe essere uno dei più antichi mai rinvenuti in Europa.

Dallo scavo sono emersi 314 oggetti in pietra, ma questo non ci deve ingannare circa la ricchezza del sito, in quanto per la maggior parte di essi si tratta di “semplici” microliti.

Quella dei microliti è una storia di grande interesse, che credo di avervi già raccontato, ma che vale senz’altro la pena di ripetere. Si tratta di dentelli di pietra di piccole dimensioni che si trovano in abbondanza nei siti mesolitici, anzi, proprio in base a essi si è definita “l’età di mezzo” delle pietra.

La loro scoperta ha sconcertato a lungo gli archeologi, infatti pareva un vistoso passo indietro rispetto agli elaborati attrezzi del paleolitico superiore, come le eleganti asce magdaleniane, finché qualcuno non si è accorto che, immanicati su un ramo curvo, i microliti formavano una rudimentale ma efficiente falce. In altre parole, essi ci testimoniano il passaggio delle comunità umane all’agricoltura.

E’ probabile che gli uomini del mesolitico praticassero un’agricoltura itinerante, coltivando un anno un campo o una radura per spostarsi altrove in quello successivo. Nel frattempo, la caccia e la raccolta continuavano con ogni probabilità, a essere fonti importanti del loro sostentamento.

Il passo seguente, lo sappiamo, ci è testimoniato dall’ascia in pietra levigata tipica del periodo neolitico, strumento che serviva soprattutto ad abbattere alberi. Con il neolitico cominciano i disboscamenti, la genealizzazione dell’agricoltura, la nascita di comunità umane stabili sul territorio e la crescita demografica. L’Europa e il mondo si avviano a diventare quelli che conosciamo.

Parallelamente all’agricoltura, e forse precedendola, l’altra grande risorsa della sussistenza umana, è sempre stata l’allevamento del bestiame.  Capita giusto a questo proposito un articolo di “The Archaeology News Network” (non fimato) del 17 febbraio, che ci parla di una nuova disciplina, la zooarcheologia che si propone, attraverso l’esame dei resti di animali domestici risalenti a varie epoche, di ricostruire le condizioni in cui sono stati allevati e quindi di fornirci informazioni sulle società umane che li allevavano.

In particolare, l’articolo fa riferimento a una ricerca condotta nella Penisola iberica sui resti di bovini da un team di ricercatori del Consejo Superior de Investigaciones Científicas,  di Barcellona guidato da  Ariadna Nieto-Espinet.

La ricerca, partita dall’Età del Bronzo ha evidenziato un allevamento su scala locale in rapporto alle esigenze delle comunità umane sussistenti in loco fino all’età romana, quando si evidenzia un allevamento su grande scala connesso verosimilmente all’esportazione, un ritorno all’indietro da questo punto di vista durante l’età medioevale, fino a una produzione “industriale” ai giorni nostri.

Torniamo su “Ancient Origins”, a un nuovo articolo di Nathan Falde che il 23 febbraio ci segnala il ritrovamento a Wittenham Clumps nell’Oxfordshire dei resti di una villa dell’età romana, e sotto di essi, quelli di un insediamento dell’Età del Ferro. Anche in questo caso, come in altri che abbiamo già visto, la scoperta è stata determinata dallo scavo delle fondamenta di una costruzione. Gli scavi affidati a un team di archeologi di DigVentures (una società archeologica privata?), hanno portato alla luce sotto le tracce della villa romana, quelle di 15 case circolari britanne che sono state datate a fra il 400 e il 100 avanti Cristo, mentre la villa romana sarebbe stata eretta fra il III e il IV secolo d. C., si pensa dunque a una sostanziale continuità abitativa nella zona fra prima e dopo la conquista romana. Sono stati trovati anche alcuni pozzi che venivano usati per lo stoccaggio dei cereali, numerosi manufatti fra cui molti utensili da cucina, e, non molto distante, un piccolo cimitero con 42 tombe, la maggior parte delle quali di età romana.

Gli archeologi però riferiscono di aver scavato finora solo un ettaro, e che l’insediamento potrebbe rivelarsi molto più esteso.

Sempre il 23 febbraio, a occuparsi di archeologia è anche “La Repubblica” che ci informa che un team di archeologi italiani diretto da Enrico Ascalone del Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università del Salento, sta  studiando le rovine di Shahr-i-Sokta una città abbandonata  rimasta quasi intatta che si trova in Iran, nella regione del Baluchistan quasi al confine fra Iran e Afghanistan, che risalirebbe al 3.500 avanti Cristo e sarebbe stata abbandonata attorno al 2.300.

E’ stata chiamata la “Pompei d’Oriente”, ma il suo abbandono non sembra dovuto a un evento drammatico e improvviso come l’eruzione del Vesuvio, bensì al progressivo inaridimento della regione.

Per ora è stato scavato solo il 5% del complesso, che si estende su una superficie di 300 ettari, ma è già stato sufficiente per il rinvenimento di numerosi reperti fra cui un gran numero di turchesi e lapslazzuli. Pare che il commercio delle pietre preziose fosse una delle attività economiche più importanti della città. Senza dubbio, altre sorprese ci attendono in futuro.

Come ho già fatto altre volte, vorrei dedicare parte di questo articolo a commentare le vostre osservazioni, sempre intelligenti e utili, specialmente quando danno l’occasione per fare, come si sul dire, un ripasso dei fondamentali. Partiamo da una questione che è un po’ la premessa di tutto il nostro discorso, la convinzione che noi siamo la conseguenza non soltanto dell’educuzione e dell’ambiente, ma anche della storia, dell’eredità biologica, del patrimonio genetico che portiamo nelle nostre cellule, e l’idea che ciò costituisce uno spartiacque fondamentale tra noi e la sinistra che  tiene l’eredità biologica in così poco conto da ritenere che gli ultimi arrivati dall’altra sponda del Mediterraneo solo soggiornando un poco sul nostro suolo (a nostre spese) potrebbero diventare dei “nuovi italiani” solo dalla pelle più scura, e preferibili dal loro punto di vista a quelli nativi che hanno la sfortuna di possedere una memoria storica che insegna loro che la sinistra al potere è riuscita sempre a combinare solo disastri e a disseminare miseria.

Recentemente – rispetto al momento in cui sto scrivendo, febbraio 2021, perché non so quando questo articolo sarà pubblicato – precisamente il 16 febbraio, un lettore mi ha chiesto lumi riguardo al rapporto fra eredità e ambiente.

La cosa curiosa è che l’osservazione di questo lettore non ha riguardato un articolo de L’eredità degli antenati, ma un passo della sesta parte de La più bella del mondo, una serie di articoli che io ho dedicato a esaminare la “nostra” costituzione (appunto “la più bella del mondo” secondo l’illustre giurista Roberto Benigni), mettendo in luce i trabocchetti di cui è disseminata per impedire alla volontà popolare di esprimersi concretamente, l’articolo tra l’altro risale a due anni fa esatti (febbraio 2019), ma non è che io pensi che abbia perso valdità, tutt’altro, si possono piuttosto invece apprezzare i vantaggi del web rispetto alla carta stampata quanto a durevolezza.

La questione toccata è fondamentale, non è soltanto una delle tematiche su cui si è maggiormente arrovellata la filosofia degli ultimi due secoli, ma eredità e ambiente, natura e cultura, innato e appreso, il loro rapporto e la loro interazione sono precisamente quel che determina ciò che noi siamo, ed è bene avere le idee chiare a questo riguardo.

Mi è parso opportuno cogliere l’occasione di rispondere a questo lettore per trattare la questione con ampiezza, cosa che ho fatto nell’articolo Eredità e ambiente, che ho messo in programmazione e dovrebbe essere pubblicato da “Ereticamente” giusto prima di questa Eredità degli antenati, ma mi è sembrato opportuno accennarne anche qui, perché esso costituisce forse la risposta più completa e articolata alla domanda sul perché ci dovremmo occupare della nostra eredità ancestrale, perché dovremmo conoscerla e averla sempre presente.

Il 21 febbraio a commento anche questa volta di un articolo abbastanza vecchiotto, della quarantasettesima parte de L’eredità degli antenati, un altro lettore, scrive:

“L’idea che l’uomo, quello intelligente, sia disceso da un estremo Nord sopra alla Siberia, Norvegia e Groenlandia eccetera, causa forse l’inclinazione del globo, è una immagine-intuizione che non dovrebbe mai essere trascurata, specialmente in quest’epoca di abbrutimento e neanderthalizzazione dell’Occidente e della sua cultura e di amore per il negro e l’Africa, forse anche questo un sintomo del tipo di gente venuta oggi al mondo in Occidente. Un bell’Occidente attossicato: già…”.

Qui di cose da dire ce ne sarebbero parecchie. E’ chiaro che noi ci troviamo a reagire istintivamente a una “cultura” tutta tesa alla minimizzazione e all’annientamento, se è possibile, dell’uomo bianco e di tutto ciò che è europeo, sistematicamente organizzata contro di noi. Purtroppo una reazione emotiva, un’immagine-intuizione come la definisce questo lettore, non basta. Dobbiamo essere consapevoli di confrontarci con un avversario che non ha solo in mano tutto il sistema educativo-mediatico, ma che è scaltro e molto ben organizzato, e non possiamo permetterci, confondendo i livelli temporali, ad esempio quello della nostra specie centinaia di migliaia di anni fa, con quello dell’origine della civiltà qualche migliaio di anni addietro, di assumere posizioni che possano essere facilmente ridicolizzate.

Se la questione fosse semplice, non avrei dovuto scrivere un libro di più di 250 pagine (Alla ricerca delle origini, edizioni Ritter) per dirimerla.

Come vi ho spiegato più volte, essa si situa a vari livelli, e per ciascuno di essi, il sistema educativo-mediatico che ha il sistema di potere come riferimento, ha una menzogna specifica: per quanto riguarda le origini della civiltà, la derivazione dal Medio Oriente, per le origini degli indoeuropei, la genesi da agricoltori mediorientali infivece che da cavalieri e guerrieri del nord eurasiatico, per quella dell’uomo bianco (di cui gli indoeuropei sono solo una frazione), un’origine recente da popolazioni  colorate (si veda la falsa ricostruzione dell’uomo di Cheddar, e siamo grati a Tom Rowsell che ha fatto un lavoro non da poco per dimostrarne la falsità), per la nostra specie infine, la favola dell’Out of Africa, riguardo alla quale, come abbiamo visto, cominciano ora a manifestarsi dissensi, per ora timidi e imbarazzati, anche da parte di esponenti dell’establishment “scientifico” e culturale.

Per rispondere adeguatamente a ciascuna di esse, occorrono intelligenza e studio.

NOTA: Nell’illustrazione (“Da Ancient Origins”), il castello di Rhuddan nel Galles settentrionale, nei cui pressi sono stati recentemente scoperti i resti di un insediamento mesolitico.

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