10 Aprile 2024
Archeostoria

Il triveneto preromano, celtico e megalitico, seconda parte – Fabio Calabrese

Che ne è oggi di questa forte impronta celtica testardamente sopravvissuta nei secoli? Il termine “Carnia” ossia “la terra dei Galli Carni” indicava fino al II secolo avanti Cristo, fino ai tempi della fondazione della colonia romana di Aquileia un territorio grosso modo corrispondente all’attuale Friuli. La sua accezione si è poi ristretta come la popolazione cui esso si riferisce, alla parte montana, più isolata e povera della nostra regione, man mano che nella più florida pianura si succedevano la romanizzazione, la conquista longobarda, il feudalesimo franco, il dominio veneziano con le commistioni portate dai commerci, l’età moderna e l’industrializzazione. I Carni sono rimasti a lungo, fino alle soglie della nostra epoca fra le popolazioni della Gallia cisalpina forse quelli che hanno preservato più a lungo intatta la loro identità.

Questa realtà forte perché povera, questa realtà contadina testardamente abbarbicata ai suoi monti, è stata pesantemente dissanguata dall’emigrazione nella seconda metà del XIX secolo e nella prima metà del XX.

Proprio per questo motivo, un reportage rimasto inedito per oltre mezzo secolo sulla Carnia di allora, assume il valore di uno straordinario documento antropologico. Se poi questo reportage è uscito dalla penna di uno dei maggiori scrittori e giornalisti italiani del tempo, e la sua vicenda editoriale presenta degli aspetti misteriosi, allora si tratta certamente di qualcosa che merita di essere considerato con il massimo interesse.

Lo scritto, ritrovato in circostanze che si possono definire romanzesche, è opera di Giovanni Comisso, che fu oltre che grande scrittore, inviato del “Corriere della Sera” ed altre delle più importanti testate nazionali in Oriente, Africa ed Europa, nonché autore di memorabili reportage di viaggio, è finora rimasto sconosciuto alla bibliografia ufficiale di questo autore, ma una copia dell’opuscolo, forse commissionato da qualche pro loco, un libretto di una settantina di pagine, privo di indicazioni bibliografiche e suddiviso in 19 capitoli intitolato La Carnia che lavora, è rimasta conservata fino al 1970 nel Museo delle Mummie di Venzone, dove un amico dello scrittore Nico Naldini è riuscito a prelevarla ed a farla avere a quest’ultimo.

Naldini, prima di editare quest’opuscolo, vi ha dedicato un bell’articolo sul “Gazzettino” di mercoledì 1 dicembre 2007, dove fra l’altro leggiamo che la Carnia era, stando all’esperienza di Comisso, “una terra lontana, chiusa tra alte e informi montagne”… dove solo le donne e i vecchi lavorano la poca terra, estenuati da una vita misera, perché gli uomini sono emigrati stagionali in cerca di fortuna. Luoghi dove “non è facile vedere sorridere e questa tristezza chiude il volto di vecchi e ragazzi in una maschera ferma”. Ma nel contempo, Comisso segnalava la grande ospitalità dei Carni, e l’istintivo, congenito senso estetico di questo popolo che li spingeva a “ricamare” gli utensili scolpendoli nel legno e dando vita a un artigianato squisito”; i segni più chiari, potremmo dire noi, di un intatto spirito celtico perduto invece dalle più fortunate genti della pianura.

Quella che fino a mezzo secolo fa era una terra di emigrazione da abbandonare per sottrarsi alla morsa della miseria, rappresenta oggi un patrimonio di radici da riscoprire e valorizzare per preservare la nostra identità, per resistere alla marea montante della globalizzazione, al livellamento, alla cancellazione di storia e culture.

Dobbiamo dunque tenere presente, studiando il megalitismo nell’area triveneta, che essa costituiva una realtà antropologica disomogenea e frammentata, quello di essere terra d’incontro e di scontro di popoli diversi, sembra essere, come ho già detto, un destino che ha sempre caratterizzato quest’angolo nord-orientale della nostra Penisola.

La tipologia megalitica più caratteristica del nostro nord-est è certamente rappresentata dai castellieri. La cultura dei castellieri si formò in Istria nella media Età del Bronzo per espandersi successivamente in Friuli e Dalmazia. Si trattava di borghi fortificati posti in posizione elevata, perlopiù in collina o in montagna, più raramente in pianura, circondati da una cinta muraria spesso duplice o triplice. Wikipedia li definisce “un curioso fenomeno di megalitismo riscontrabile in quello stesso periodo nel mondo miceneo”, tuttavia l’ipotesi che li si debba attribuire a popolazioni di origine micenea non trova elementi a proprio sostegno, ed è ragionevole pensare a un fenomeno di convergenza culturale.

Si suppone che i castellieri siano stati in origine la creazione di un popolo pre-indoeuropeo, probabilmente appartenente allo stesso gruppo retico-ladino-euganeo di cui abbiamo visto più sopra, ma in seguito alle diverse migrazioni e invasioni, sono stati successivamente abitati da popolazioni illiriche, venetiche e celtiche. Probabilmente il castelliere più vasto e importante, quello che raccoglieva la popolazione più numerosa, era quello di Nesactium (Nesazio) nell’Istria meridionale, a pochi chilometri da Pola, che fu a lungo capitale e principale centro religioso degli Istri.

Tuttavia è difficile affermare con certezza che non possano essere esistiti castellieri anche più estesi, perché con ogni probabilità da castellieri originari si sono sviluppati insediamenti successivi destinati a diventare centri importanti delle nostre terre, ad esempio Trieste parrebbe aver avuto origine da un castelliere che un tempo sorgeva sul colle di San Giusto, vera e propria acropoli della città giuliana, e di cui ovviamente non è rimasta materialmente traccia, ma una vicenda pittoresca riguarda invece Udine, dove nel corso di lavori di ristrutturazione di palazzo Mantica sede della Società Filologica Friulana, nelle fondamenta dello stesso sono stati ritrovati i resti di un castelliere che è oggi oggetto di studio.

Viene da sorridere all’idea che i membri di questa Società certamente benemerita nello studio del nostro passato e nella conservazione della cultura regionale, ignorassero di essere letteralmente seduti sopra un’importante testimonianza del nostro passato più remoto, anzi forse proprio sopra i resti di quello che potrebbe essere stato il primo nucleo abitativo del capoluogo friulano.

Riguardo a Trieste, alle origini in parte misteriose della nostra città, di cui con certezza si può affermare solo che è molto antica (pare esistesse già attorno al 1000 avanti Cristo, tre secoli buoni prima della data a cui la tradizione fa risalire la fondazione di Roma), permettetemi di riferire un episodio che mi riguarda personalmente.

Fino a pochi anni fa esisteva in internet Celticworld, un portale dedicato al mondo celtico, della cui cessazione penso che gli appassionati di celtismo non abbiano ancora finito di rammaricarsi. Parte di esso era Celticpedia, un’enciclopedia on line alla maniera di Wikipedia basata su libere contribuzioni. Non vi stupirà sapere che finché è esistita, il sottoscritto è stato uno dei contributori più attivi.

Parlando di Trieste, mi è capitato di riferire l’opinione diffusa secondo la quale il nome romano della città da cui deriva quello attuale, Tergeste, risalirebbe a un etimo celtico, Terges, che avrebbe dovuto significare “mercato”. Fui ferocemente bacchettato da un altro contributore, Kommios (tutti noi su Celticpedia usavamo pseudonimi, io ero Romnod), perché non si tratterebbe di un etimo celtico ma venetico come dimostrerebbe la somiglianza con Este (Padova) e forse con Mestre. E che diavolo! Io mi ero espresso in forma ipotetica con tutti i “sembrerebbe” del caso. Comunque prendiamo atto del fatto che le origini di Trieste parrebbero essere venetiche o istro-venete piuttosto che celtiche.

In ogni caso, vale la pena di considerare ciò che hanno messo in luce le ricerche archeologiche nella necropoli di San Servolo che si trova a poca distanza da Trieste, in territorio oggi sloveno, ma che un tempo “serviva” la città. Qui sono state rinvenute inumazioni che i corredi funebri hanno permesso di riconoscere come celtiche o come venetiche le une accanto alle altre, e poi più recenti corredi di età romana. Sembra proprio sia nel destino della città giuliana fin dall’antichità, fin dalle origini, quello di essere un punto d’incontro fra popolazioni diverse.

Una documentazione sulla necropoli di San Servolo si può trovare nel volume I celti nell’alto Adriatico, a cura di Giuseppe Cuscito, edito nel 2001, che raccoglie gli atti dell’omonimo convegno promosso a Trieste dal 5 al 7 aprile di quell’anno dall’assessorato alla cultura della Provincia di Trieste in collaborazione con il Circolo Jacques Maritain.

Sullo stesso argomento, sempre a Trieste, martedì 15 aprile 2007 il professor Gino Bandelli dell’Università triestina presentò nella sede del Comune di Trieste di Piazza Unità d’Italia il suo libro La necropoli di San Servolo. Veneti, Istri, Celti e Romani nel territorio di Trieste, edito dai Civici Musei di Storia ed Arte e che raccoglie il contributo di numerosi ricercatori, nel quale sono esposti i risultati dei lavori di restauro e studio dei reperti provenienti da ben 165 tombe della necropoli.

Ci sono pervenuti i resti di circa un centinaio di castellieri, sparsi fra Istria, Venezia Giulia e Friuli. Tra questi, quello di Leme in Istria, di Elleri vicino a Muggia, di Monte Giove non distante da Prosecco, di Slivia (Duino-Aurisina), di San Polo vicino a Monfalcone.

Gli ultimi a popolare i castellieri (Wikipedia li definisce castricoli o castrensi) e quelli che resistettero più a lungo alla conquista romana, furono i Galli Carni. Dopo la conquista da parte di Roma, essi furono perlopiù trasformati in fortificazioni militari.

Per quanto riguarda la struttura dei castellieri, la nota enciclopedia on line ci dà le seguenti informazioni:

“Erano dei borghi fortificati, generalmente situati su montagne e colline o, più raramente, in pianura (Friuli sud-orientale), e costituiti da una o più cinte murarie concentriche, dalla forma rotonda, ellittica (Istria e Venezia Giulia), o quadrangolare (Friuli), all’interno delle quali si sviluppava l’abitato. Va rilevato che lo spessore delle mura poteva raggiungere anche i quattro o i cinque metri, mentre per quanto riguarda l’altezza questa era generalmente compresa fra i cinque e i sette metri. Erano dunque delle cinte piuttosto massicce il cui perimetro poteva misurare anche due o tre chilometri. La tecnica costruttiva era a sacco: venivano edificati due muri paralleli costituiti da grandi blocchi di pietra e riempiti, nello spazio interno, da piccole pietre, terra ed altri materiali residuali. Le case di abitazione, generalmente di modeste dimensioni e dalla forma circolare (spesso a trullo) avevano una base di pietra calcarea o arenaria e per il resto erano costruite con materiali deperibili, soprattutto legno”.

I castellieri erano villaggi fortificati, luoghi di abitazione, non di sepoltura, tuttavia una quindicina di anni fa abbiamo avuto notizia del rinvenimento di una sepoltura proprio all’ingresso di un castelliere. Martedì 13 aprile 2005 la Soprintendenza Archeologica di Udine ha dato notizia, riportata dal giornale “Il Piccolo” di Trieste, di un importante ritrovamento, una sepoltura nel castelliere di Sedegliano, ed è stata la prima volta e per ora unica, che si è trovata traccia di un’inumazione in un castelliere o nei suoi pressi. Sembra che l’uomo di Sedegliano (si tratta di uno scheletro maschile) sepolto vicino ad uno degli ingressi del castelliere risalga al 1500 avanti Cristo, quindi ad una popolazione pre-celtica o proto-celtica. Si sarebbe trattato di un uomo di età relativamente giovane, e le caratteristiche della sepoltura indicherebbero una persona di rango, forse un capotribù, e sarebbe stato alto attorno al metro e 80 cm., una ventina di centimetri in più della media delle popolazioni padane della stessa epoca, il che confermerebbe l’appartenenza ad una popolazione di origine nord-europea o centro-europea, il che induce a pensare che ci fosse un’importante componente nordica almeno fra le élites celtiche.

A ogni modo, una sepoltura in una posizione così insolita, proprio all’ingresso del castelliere ha fatto pensare che essa avesse un particolare significato propiziatorio, come di un leader chiamato a difendere il suo villaggio e la sua gente anche dall’oltretomba.

I castellieri non esauriscono le tipologie megalitiche che riscontriamo in Friuli – Venezia Giulia né nell’area triveneta. Un esempio poco noto è citato nel volume Kurm edito dall’Associazione La Bassa di Latisana (Udine) nel 1994 (questo termine sarebbe il nome celtico della Bassa friulana, di cui oggi rimane traccia nel nome del Cormor, il fiume di Udine). In questo notevole lavoro coordinato dal professor Roberto Tirelli e che raccoglie il contributo di diversi specialisti sulle origini celtiche del Friuli – Venezia Giulia, si menziona fra l’altro una ricerca condotta dal professor Maurizio Buora responsabile per l’archeologia dei Civici Musei di Udine sull’area del fiume Stella. Per quest’area abbiamo testimonianze delle fonti classiche, (in particolare Tito Livio che transitò nella zona attraverso la via Annia) ma non evidenze archeologiche. Gli scavi del professor Buora hanno riguardato due strutture di epoca preromana che presentano somiglianze con i castellieri carsici e sono note come Cjastelir e Cjasteon. Lo scarso materiale emerso dagli scavi sembra tuttavia prevalentemente di fattura veneta piuttosto che celtica. “Sono materiali”, dice l’autore, “che potrebbero indicare la presenza in loco nel periodo [precedente] la colonizzazione romana, di elementi di cultura venetica, non però di popolazioni venetiche”.

In altre parole, potrebbe essere che Celti insediati nella zona abbiano fatto uso, soprattutto se si trattava di un piccolo avamposto, di vasi ed altri oggetti di uso comune acquistati o frutto di baratti con popolazioni venete circostanti, ma non siamo in grado di affermarlo con certezza.

Un particolare curioso è che, sebbene Buora sia fra gli autori presenti nel volume Kurm con un articolo di altro soggetto, non è lui l’autore di quello della sua ricerca sulle strutture del bacino dello Stella, che è invece di Giuliano Bini.

Parliamo ora di tre località friulane il cui nome non so quanto potrà dire a coloro che vivono fuori della nostra regione, tranne che per il caso di Gemona che balzò tragicamente all’onore delle cronache nazionali come epicentro del disastroso terremoto del 1976: Gemona, appunto, Artegna e Zoppola.

Riguardo ad Artegna (Udine), bisogna segnalare la conferenza tenuta venerdì 20 maggio 2004 nella sala consiliare del comune dal prof. Ferdinando Patat dell’Osservatorio Europeo Australe (quell’osservatorio, o meglio catena di osservatori che trapiantatasi per ragioni d’inquinamento luminoso nel deserto di Atacama sulle Ande cilene, rappresenta la punta più avanzata dell’astronomia europea); l’oggetto della conferenza si può ben definire di archeoastronomia, ossia quella disciplina che indaga le conoscenze astronomiche, spesso sorprendenti, dei popoli antichi, e non manca di stupire.

Riassumendo in breve, si è scoperto che la parte più antica della chiesetta di San Martino ad Artegna è orientata con sorprendente esattezza lungo l’asse est – ovest, e si ipotizza che tale orientamento rispecchi la pianta di un preesistente tempio pagano, celtico con ogni probabilità, sulle cui fondamenta la chiesa cristiana sarebbe stata eretta, e dedicato probabilmente al culto di divinità celesti. Gli antichi Celti, sappiamo, erano in grado di disporre i loro monumenti secondo allineamenti astronomici che ancora oggi risultano sorprendentemente precisi.

Nel marzo 2007 il n. 3 di “Fantastica…Mente” il periodico dell’Atelier di Creatività delle sorelle Vignoli dedicò un breve articolo alle origini della città di Gemona (Udine) (anche se il termine “città” in riferimento alla consistenza odierna dell’abitato, appare un po’ esagerato, ma le cose pare andassero altrimenti nell’antichità). Oggi la località è nota fuori dai nostri confini regionali soprattutto per essere stata l’epicentro del terremoto che nel 1976 mise a terra, si può dire, l’intero Friuli; tra l’altro andò completamente distrutto il bel castello cittadino che aveva il difetto di essere stato costruito con una tecnica che lo rendeva particolarmente esposto a questo tipo di eventi, perché pur essendo di età medievale, era stato eretto con una tecnica costruttiva “a secco” cioè senza l’uso di calce, che in regione risaliva probabilmente alla preistoria, all’epoca dei castellieri, a testimonianza, una volta di più di quanto certe usanze e tecniche dalle nostre parti risalgono indietro nel tempo, al punto, si potrebbe dire, da essere state coperte solo da un lieve velo di romanizzazione e poi di cristianizzazione.

Già l’etimo del nome, anticamente “Glemona” o “Castrum Glemonae”, è, a parere della maggior parte dei ricercatori, di origine celtica, e celtiche paiono essere le origini dell’abitato, il cui insediamento si sarebbe verificato attraverso diverse fasi.

Sul monte Cumieli vicino alla cittadina (un altro etimo su cui sarebbe bene indagare) si trovano diversi resti di castellieri analoghi a quelli carsici, databili tra il 1300 ed il 1100 a. C. Verso il 500 a. C. vi sarebbe stato un insediamento celtico nell’attuale frazione di Godo, poi la fondazione di un abitato sul sito vero e proprio della città, databile attorno al 300 a. C., ad opera dei Galli Carni, ed infine nel primo secolo a. C. la conquista romana.

Su RAI 3 giovedì 6 agosto 2008 un servizio di Geo Magazine dedicato al Friuli Venezia Giulia ed in particolare alla località di Zoppola (Pordenone). La zona, che si trova sulla linea delle risorgive al confine fra l’area montana e la pianura (la “Bassa” friulana), eccezionalmente ricca di acque, posta fra i fiumi Tagliamento e Meduna, fu abitata da insediamenti umani fin da tempi antichissimi, Euganei e Celti appartenenti al gruppo dei Galli Carni.

L’insediamento del fiume Meduna sorge su di un antico castelliere costruito su di un’isola fluviale, e sembra che l’abitato moderno si sia sviluppato direttamente dall’antico villaggio celtico in una continuità abitativa che si è prolungata ininterrotta per almeno tre millenni. Il nome della località viene dal celtico “zaupo” che significa “abbeveratoio”, e “Zaupola” era ancora in età medievale la grafia che veniva usata. Ancora oggi il luogo è un centro di tradizioni artigiane e contadine che evidenziano la continuità e la robustezza delle radici della nostra gente.

NOTA: Nell’illustrazione, veduta aerea delle rovine di un castelliere nei pressi di Rovigno (foto: Auro Wild).

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