12 Aprile 2024
Ahnenerbe Razzismo

Una Ahnenerbe casalinga, quindicesima parte

di Fabio Calabrese

In attesa che la ricerca storica, archeologica, scientifica ci fornisca nuovi elementi sulla tematica delle origini, questa volta procederemo in modo un po’ diverso dedicandoci a un approfondimento metodologico. Non si può affrontare il problema delle origini della specie umana e del lungo lasso di tempo che va dalla sua genesi all’inizio della storia documentata senza imbattersi nella questione delle razze. La specie umana, come tutte quelle esistenti (e verosimilmente esistite) nel mondo animale o vegetale, è suddivisa in razze, ed è presumibile che alle differenze fisiche corrispondano differenti qualità intellettuali e comportamentali.

Per la tirannide democratica da cui siamo oppressi, il concetto di razzismo si è spostato dal voler opprimere o peggio ancora sopprimere una razza umana, o degli esseri umani per la loro appartenenza razziale, a questa semplice constatazione, che le razze esistono. E’ il segno di un’ideologia che si fa man mano più soffocante e oppressiva quanto più si sente forte.

Alcuni studiosi vicini alla nostra “area” adoperano il termine “razzialismo”, volendo indicare la teoria, la constatazione, che le razze esistono, senza pretesa, a differenza del “razzismo”, di stabilire una gerarchia di valore fra esse. Pur apprezzando il tentativo, temo che non sarà sufficiente una parola per sventare gli strali di un nemico a cui della verità e dell’obiettività scientifica non importa un bel nulla, ma che intenzionato a imporre con tutto il peso del potere mediatico e, all’occorrenza, col pugno di ferro della repressione poliziesca, la più soffocante ortodossia.

L’aspetto paradossale della questione è che se noi intendiamo la parola “razzismo” nel suo significato “tradizionale” e autentico, ossia discriminare, diffamare, perseguitare degli esseri umani in base a null’altro che alla loro origine etnica, “razziale”, questa è una colpa dalla quale i democratici e i “sinistri” non possono certo chiamarsi fuori, anzi, è per davvero la storia del bue che dà del cornuto all’asino.

Noi abbiamo sotto gli occhi l’esempio ripugnante dei democratici, della sinistra nostrana quella che si riconosce nelle sigle del PD e di SEL, ma arriva fino all’estremismo dei sedicenti centri sociali, che pratica una politica di discriminazione razzista verso i propri connazionali, gli italiani nativi, allo scopo di favorire gli stranieri, gli immigrati che, ultimi arrivati, dovrebbero avere tutti i diritti e nessun dovere, ma questa politica non è unica, senza precedenti in Europa; è già stata adottata vent’anni prima dai laburisti britannici, e per gli stessi sordidi motivi: calcolando che ogni voto di un immigrato naturalizzato sarebbe stato un voto dato “a sinistra”, hanno pensato, come i nostri PDidioti, di procurarsi in tal modo il margine che avrebbe consentito loro di rimanere al potere in eterno. Solo oggi alcuni di costoro hanno mostrato un tardivo pentimento, rendendosi conto del danno arrecato alle classi lavoratrici inglesi, il valore del cui lavoro si è deprezzato e le cui condizioni di vita si sono abbassate precisamente in conseguenza dell’importazione di braccia non qualificate a basso costo,  Nigel Farage e i suoi seguaci si sono staccati dal partito laburista dando vita a un movimento anti-euro e anti-immigrazione. Quando i buoi sono scappati, ci si affanna a fare la porta alla stalla. Chissà se fra venti o trent’anni i nostri PDidioti mostreranno analoghi segni di pentimento. C’è da dubitarne, visto che nessuno più di loro ha mai mostrato di considerare il popolo “sovrano” altro che un gregge di pecore da sfruttare per fini di arricchimento personale.

Oltre a questo razzismo pratico, c’è un razzismo semi-argomentato o pseudo-argomentato sempre democratico, sempre di sinistra e diretto, come al solito, verso chi ha la colpa di essere caucasico, “bianco”. Ve ne ho parlato con una certa ampiezza nel mio precedente scritto La vergogna, la violenza e la stupidità, per cui ora ve lo richiamo in breve: si tratta di un’invenzione dei liberal americani, analoghi dei nostri sinistrorsi: in poche parole, secondo costoro, l’appartenere a una comunità unirazziale, scegliersi un partner della propria razza, come anche negli USA continua ad avvenire soprattutto negli ambienti rurali, sarebbe l’equivalente dell’incesto. Un concetto, non occorre sottolinearlo, che vale solo per i bianchi caucasici, non per gli afro-americani né per gli appartenenti ad altre etnie e tanto meno per gli intoccabili ebrei, che hanno un’ “identità culturale” da preservare.

Noi abbiamo visto, e non credo sia necessario ritornarci se non con un fuggevole accenno, che la FAVOLA, che non si può nemmeno considerare un’ipotesi né tanto meno una teoria scientifica, dell’ “Out of Africa”, dell’origine africana della nostra specie, con il sottinteso che noi bianchi caucasici saremmo dei neri “sbiancati”, è stata inventata per distruggere il concetto di razza, per imporre il dogma democratico che “le razze umane non esistono”.

Tuttavia, è difficile impedire alla verità di venire a galla: scienziati e ricercatori, etnologi, antropologi, linguisti sono costretti a ricorrere a circonlocuzioni macchinose, imbarazzanti e ridicole per non dire le cose come stanno troppo esplicitamente e venire così apertamente in urto con il dogma, il pregiudizio, la mistificazione democratica, ma talvolta la verità che non vorrebbero dire scappa loro fra i denti.

In un precedente articolo di questa serie, vi ho citato un’incauta ammissione di quello che è probabilmente almeno da noi il top dell’antropologia “politicamente corretta”, Luigi Luca Cavalli Sforza a cui in un’intervista è scappata un’incauta ammissione: “Etnia e razza sono praticamente la stessa cosa”.

Decenni di elucubrazione di Claude Levi Strauss e discepoli, che si sono sforzati di persuaderci che l’etnia è determinata da fattori culturali: il linguaggio, le credenze, gli usi e i costumi, che non hanno nulla a che vedere con la genetica, la razza, l’eredità biologica, spazzati via all’improvviso, come ragnatele sotto un colpo di scopa!

Naturalmente, si comprende bene che una cosa è un’osservazione casuale, quasi di sfuggita, come questa, ben altro è quando un ricercatore ammette in maniera esplicita che i risultati delle sue ricerche vanno chiaramente a smentire l’ortodossia democratica imposta e dominante.

Un esempio in questo senso è rappresentato da Edward O. Wilson, fondatore della sociobiologia, lo rilevava Sergio Gozzoli in un bell’articolo, La rivincita della scienza, pubblicato nel 1997 su “L’uomo libero”: molte caratteristiche umane, e proprio quelle che siamo portati a considerare specificamente umane, dipendono da un’ineludibile base genetica:

“Il problema centrale, conclude Wilson, è che dalla genetica non dipendono soltanto l’intelligenza, le inclinazioni, i ruoli, l’aggressività e l’emotività, ma anche le scelte morali fondamentali, che non sono affatto il prodotto di un libero arbitrio, ma espressione di tendenze iscritte da sempre nel patrimonio genetico del nostro cervello”.

Queste ammissioni in palese contrasto con il dogma democratico, devono essere costate a Wilson un’autentica sofferenza, infatti ci racconta Gozzoli:

“Edward O. Wilson, è un vecchio liberal, infarcito da sempre delle antiche sciocche credenze politically correct – antirazzismo, femminismo, permissivismo sessuale, bontà naturale dell’uomo, raziopacifismo – ed enuncia le verità inconfutabili della scienza con palese rammarico”.

Il che però non ha impedito che le sue conferenze siano state bruscamente interrotte da violente aggressioni, soprattutto a opera di commando di femministe, quando si è permesso di ipotizzare che le differenze di comportamento fra uomo e donna non derivino da fattori educativi, ma affondino le loro radici nella differenza biologica fra i due sessi.

Un caso ancora più emblematico è quello di Arthur Jensen. Jensen, uno dei più eminenti psicologi americani, ha iniziato le sue ricerche che lo hanno portato nella categoria dei reprobi, con l’intento di dimostrare che la ben nota differenza di Q.I. medio di ben 15 punti fra bianchi caucasici e afroamericani, non dipende dalla razza ma da rimediabili fattori sociali e culturali, come prescrive il dogma democratico, ma esse gli hanno presto dato l’evidenza del contrario, e vale la pena di citare un esperimento davvero notevole, un experimentum crucis, avrebbe detto Francesco Bacone, uno di quegli esperimenti cruciali che davvero tagliano la testa al toro.

Noi sappiamo che gli afroamericani non sono un gruppo razzialmente omogeneo, presentano un 20-30% di sangue caucasico. Jensen usò come soggetti degli afroamericani che suddivise in tre gruppi, a seconda che si avvicinassero come caratteristiche fisiche all’europeo caucasico, fossero in una situazione intermedia o fossero maggiormente vicini al nero puro africano.

I tre gruppi appartenevano al medesimo strato sociale e culturale e tutti e tre erano composti da soggetti considerati “neri”, si erano bilanciati, “randomizzati” si dice in gergo scientifico, i fattori di ordine ambientale, culturale, appreso. Jensen si aspettava che, sottoposti a test d’intelligenza, fra essi non emergesse alcuna differenza significativa; invece i risultati furono presto chiari: il gruppo più “bianco” risultava più intelligente e vicino allo standard della popolazione caucasica, quello più “africano” otteneva i risultati peggiori, e quello “di mezzo” si poneva in una situazione intermedia. Era la prova evidente della dipendenza del quoziente intellettivo da fattori genetici, cioè razziali.

Bisogna notare che Jensen non era affatto “un razzista”, riteneva di agire nell’interesse degli afroamericani evidenziando il fatto che i loro ragazzi necessitano di programmi educativi differenziati, soprattutto commetteva l’errore di pensare che in ciò che viene chiamata “scienza” i fatti contino più del pregiudizio ideologico. E’ in questa chiave che va letta la relazione da lui presentata nel 1973 al XXVII Congresso Internazionale di Psicologia Applicata, Educability and Group Differences.

Il risultato fu la perdita della cattedra, l’essere additato come campione di razzismo, e diversi attentati alla sua vita che lo costrinsero a vivere per parecchi anni sotto scorta (pagando i bodyguard di tasca propria, non era mica Saviano!). Bizzarro, vero? I metodi con cui si difende l’ortodossia democratica somigliano stranamente a quelli della mafia.

In Italia, una traduzione della relazione di Jensen è stata pubblicata nel 1981 su “L’uomo libero” (non poteva essere che una pubblicazione “di area”), Genetica, educabilità e differenze fra le popolazioni, un testo alquanto tecnico, di lettura non facile, ma di estremo interesse.

“L’uomo è PER NATURA un animale culturale”, diceva il grande Konrad Lorenz, evidenziando il fatto che è precisamente la sua NATURA biologica e genetica che gli consente di essere un produttore e portatore di cultura e che pertanto, contrapporre le due cose è un assurdo. C’è, a dire il vero, l’implicito sottinteso che poiché la natura, l’eredità genetica biologica non è uguale in tutti gli uomini e in tutti i gruppi umani, del pari differenti saranno le capacità di creare e trasmettere cultura.

Il pensare il rapporto natura-cultura in termini di opposizione è tipico del marxismo (e dell’antropologia culturale di Levi Strauss, che però rappresenta a livello di mentalità comune, dell’auto-percezione della gente, qualcosa di ben meno rilevante dell’ideologia “rossa”), e non è altro che la traduzione in forma laicizzata e moderna della contrapposizione materia-spirito tipica del cristianesimo, ed è del pari una concezione innaturale e anti-naturale. Il marxismo per questo lato si dimostra chiaramente una filiazione adattata alla nostra epoca del “bolscevismo dell’antichità”, una visione dell’uomo e del mondo deformata e deformante.

Io credo tuttavia che sia sbagliato reagire a un errore con un errore di segno opposto, è meglio rispondere ad esso imboccando la strada della ragionevolezza e, per quel che le nostre possibilità e conoscenze ce lo consentono, della verità.

Il rapporto fra natura e cultura è di tipo dinamico e dialettico; la base genetica e razziale è imprescindibile, ma a sua volta la cultura, l’ambiente, l’appreso, hanno un’influenza su di essa. Lo si vede molto bene dal fatto, ad esempio, ben noto agli antropologi, che fra popolazioni geograficamente vicine ma culturalmente differenti, lo scarto genetico è corrispondente allo scarto culturale, in particolare linguistico. In questi casi, l’incomunicabilità linguistica agisce come ostacolo all’interscambio genetico proprio come se fosse un ostacolo fisico, ed è il motivo per cui la lingua è solitamente un buon indicatore (non assoluto, s’intende) della nazionalità.

La genetica dà delle potenzialità che poi saranno, l’ambiente, l’educazione, l’apprendimento a sviluppare o a deprimere. Un esempio drammatico in questo senso è rappresentato dalla profonda giudaizzazione degli Stati Uniti, dovuta alla loro cultura protestante, calvinista e all’ossessione biblica, a cominciare proprio dal nucleo caucasico anglosassone degli “States”. Come faceva rilevare Silvano Lorenzoni, “Un calvinista è un ebreo in tutto fuorché nel nome”, pur trattandosi di persone caucasiche dai tratti spesso nordici.

Gli Stati Uniti sono un’invivibile società multietnica, come l’Europa stessa si appresta a diventare in conseguenza di un’immigrazione che si poteva evitare aiutando in loco le popolazioni povere del Terzo Mondo, e che invece e stata voluta e incoraggiata per imbastardire i popoli europei, ma hanno almeno il vantaggio di presentarsi come un enorme laboratorio dove le differenze fra le diverse etnie possono essere studiate.

Si constata che le persone di origine asiatica (cinese o giapponese) hanno un quoziente di intelligenza lievemente superiore a quello dei bianchi caucasici, cinque punti, un terzo della distanza che separa i bianchi dai neri, tuttavia questa differenza esiste.

En passant, essa costituisce una risposta nei fatti concreti a tutti i liberal che, arrampicandosi sugli specchi, sostengono che i test di Q. I. non sarebbero obiettivi ma rifletterebbero gli standard culturali della popolazione caucasica.

Ricerche più attente hanno dimostrato che questa differenza non esiste nel momento dell’ingresso nella scuola elementare, quando il livello dei bambini afroamericani si dimostra già nettamente inferiore a quello dei loro coetanei bianchi e asiatici, ma si evidenzia man mano con gli anni.

La spiegazione più probabile, è che essa sia dovuta all’apprendimento e ai diversi stili educativi delle famiglie bianche e asiatiche. I genitori asiatici sono in genere più severi di quelli europei, pretendono dai figli impegno e rispetto puntuale delle consegne scolastiche, laddove questi ultimi sono di solito più lassisti e permissivi.

Capite quello che significa? L’educazione lassista, permissiva, “democratica” non soltanto impone ai ragazzi un’acquisizione carente e imperfetta delle conoscenze culturali e anche delle nozioni tecniche che domani dovranno essere loro utili sul lavoro, ma deprime lo sviluppo stesso dell’intelligenza.

Razza e cultura, quest’ultima si riassume soprattutto nel concetto di tradizione che parte dal rispetto dell’autorità genitoriale. Purtroppo la direzione – LA CHINA – verso cui si sta sempre di più avviando il nostro mondo, non è certo questa.

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