12 Aprile 2024
Tradizione Romana

Seneca: l’alienazione negli anni dell’Impero – Luigi Morrone

Seneca ha analizzato in pagine che hanno veramente il sapore della vita, e con uno stile drammatico di grande intensità, sia le situazioni, le scelte e le non-scelte che meglio attestano l’ambivalenza dell’uomo, sia le “figure” fenomenologiche che sono proprie di una vita alienata: l’attivismo inconsulto e l’inerte “guardarsi vivere”; l’omologazione che massifica e tende a ridurre gli “io” a uno zero; la perdita del significato a cui si arriva a forza di guardare le cose e i nostri simili solo con l’occhio di una ragione strumentale, attenta a usare gli esseri e non ad apprezzarne il valore; lo sbriciolamento del nostro tempo, la fuga da sé stessi, la vertigine e la nausea del vuoto spirituale.

Due sono le forme di esistenza che sono alla base di ogni nostro atteggiamento: da una parte, c’è una vita alienata, e quindi un tempo sprecato; dall’altra, una vita di cui ci riappropriamo a ogni istante e dunque un tempo ritrovato. «Fa’ – dunque- mio Lucilio, quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va»[1]. Per fare ciò che consiglia il filosofo spagnolo al suo discepolo, prende in esame la tripartizione di passato, presente e futuro. Il passato è sottratto al dominio della fortuna e può essere da noi rivisitato nei suoi momenti più significativi, anche se dolorosi. Abbiamo bisogno, infatti, di interrogarci sul nostro passato, per mettere a profitto del presente e del futuro la lezione dell’esperienza. All’insensato e al malvagio, però, il passato è molesto, perché ridesta in essi un senso di colpa messo accuratamente a tacere. Ma fingere che il proprio passato non esista è ancora un modo per fuggire da sé stessi; del resto non c’è redenzione possibile senza pentimento, e dunque, senza un giudizio sul male compiuto. Giova immensamente, invece, all’animo ricordare, e spesso, i benefici ricevuti. «Memoriam gratum facit»[2]. Un individuo e una società che non abbiano coscienza della loro storia, sono senza radici e, dunque, in balia di impressioni del momento e di pulsioni istintive; né può esserci vera cultura senza conoscenza dell’eredità che ci è stata trasmessa. Bisogna, però, evitare sia l’assenza di memoria storica, sia la fuga all’indietro, che è tipica dei laudatores temporis acti, inguaribili nostalgici di un passato che non è mai esistito e che non si vuole effettivamente conoscere, ma in cui sicerca un riparo per le proprie illusioni. Anche al futuro ci si può rapportare in maniera patologica, sacrificando ad esso la serenità da conquistare oggi e gli impegni concreti da adempiere giorno dopo giorno. È molto diffuso l’atteggiamento di chi vive fuori di sé perché totalmente preso dall’ossessione del futuro, ardentemente temuto o sperato. Seneca, però, tiene a distinguere dall’assillo di ciò che ancora non è, e che potrebbe anche non esserci mai, l’esercizio della capacità razionale di collegare fenomeni e avvenimenti in modo da prevederne, entro certi limiti, i possibili sviluppi e gli esiti. L’uomo, insomma, è pur sempre un essere capace di progettare e di lavorare alla costruzione del futuro per sé e per i suoi simili. È bene poi esercitarsi a prevedere – Tacito[3] racconta che Seneca praticasse addirittura di esercizi di praemeditatio futurorum malorum [4] – soprattutto le avversità più dolorose, e in primo luogo la morte. Soffriremo di meno, o non soffriremo affatto, se esse non si abbatterannoa sorpresa su di noi [5]: «Perché non ci immaginiamo nessun male prima che esso avvenga, ma come se noi ne fossimo immuni e percorressimo la nostra strada più tranquillamente di altri e non ci accorgiamo, dalle altrui disgrazie, che esse sono comuni a tutti»[6]. Passato e futuro non si dissolvono, dunque, nel nulla del “non è più” e del “non è ancora entrato nell’esistenza”: essi esistono perché esiste colui che li pensa e perché il ricordo e l’attesa sono presenti allacoscienza di un io. Tutto riconduce, quindi, alla realtà vivente e pensante di quell’io che, essendo qui e ora presente a sé stesso, può ricordare ciò che è stato, quod fuit, e prevedere o preparare ciò che sarà, quid futurum est[7]. Tuttavia è proprio riguardo al presente, più ancora che al passato e al futuro, che l’uomo non sa rapportarsi nel modo giusto. Il più grave e diffuso atto di irresponsabilità nei confronti del presente è l’incredibile, sconsiderato spreco di esso: «Mi stupisco sempre quando vedo alcuni chiedere tempo e quelli, a cui viene richiesto, tanto accondiscendenti; l’uno e l’altro guardano al motivo per il quale il tempo viene richiesto, nessuno dei due alla sua essenza: lo si chiede come se fosse niente, come se fosse niente lo si concede»[8]. Come l’uomo si lascia derubare del presente dagli altri e come egli stesso lo sprechi, Seneca lo ha descritto in pagine memorabili. Molti sono i modi in cui la stoltezza si manifesta, ma il denominatore comune è e rimane sempre lo stesso: la dissipazione della propria esistenza attraverso la perdita di quel tempo di cui dovremmo, invece, assicurarci il possesso.

Ed “occupare il tempo” con ciò che non porta ad una crescita interiore è “perdere tempo”: gli “affaccendati” sprecano il loro tempo e si accorgono di ciò solo nel momento della malattia o della morte: «Però quando qualche infermità (li) ammonisce del loro stato mortale, come muoiono terrorizzati, non come uscendo dalla vita, ma come se ne fossero tirati fuori!» [9].

Ma anche gli “sfaccendati”, che hanno il loro “tempo libero”, occupandolo in attività inutili sono, in fondo degli “affaccendati”, appunto, in cose inutili, con le quali “sprecano” il loro tempo: «Il tempo libero di alcuni è tutto impegnato: nella loro villa o nel loro letto, nel bel mezzo della solitudine, benché si siano isolati da tutti, sono fastidiosi a sé stessi: la loro non deve definirsi una vita sfaccendata ma un inoperoso affaccendarsi … Chiami sfaccendati quelli che passano molte ore dal barbie-re, mentre si estirpa qualcosa che spuntò nell’ultima notte, mentre si tiene un consulto su ogni singolo capello, mentre o si rimette a posto la chioma in disordine o si sistema sulla fronte da ambo i lati quella rada? Come si arrabbiano se il barbiere è stato un po’ disattento, come se tosasse un uomo! Come si irritano se viene tagliato qualcosa dalla loro criniera, se qualcosa è stato mal acconciato, se tutto non ricade in anelli perfetti! Chi di costoro non preferisce che sia in disordine lo Stato piuttosto che la propria chioma? Che non sia più preoccupato della grazia della sua testa che della sua incolumità? Che non preferisca essere più elegante che dignitoso? … Costoro non hanno tempo libero, ma occupazioni oziose … Sento che uno di questi delicati – se pure si può chiamare delicatezza il disimparare la vita e la consuetudine umana –  trasportato a mano dal bagno e sistemato su una portantina, abbia detto chiedendo: “Sono già seduto?”. Tu reputi che costui che ignora se sta seduto sappia se è vivo, se vede e se è sfaccendato? Non è facile dire se mi fa più pena se non lo sapeva o se fingeva di non saperlo» [10].

Ed è unica la via per trasformare il tempo in un bene tangibile e fecondo: solo la riscoperta dell’interiorità e la socratica “cura dell’anima” possono farci uscire da uno stato di alienazione e restituirci finalmente a noi stessi: «Ma per chi la vita trascorre lungi da ogni faccenda, perché non dovrebbe essere di lunga durata? Nulla di essa è affidato (ad altri), nulla è sparpagliato qua e là, nulla perciò è affidato alla fortuna, nulla si consuma per noncuranza, nulla si dissipa per prodigalità, nulla è superfluo: tutta (la vita), per così dire, produce un reddito. Per quanto breve, dunque, è abbondantemente sufficiente, e perciò, quando che venga il giorno estremo, il saggio non esiterà ad andare incontro alla morte con passo fermo» [11].

Allora il tempo – passato, presente, futuro – non fa più paura:«È tipico di una mente serena e tranquilla spaziare in ogni parte della propria vita»[12]. Il passato non è più da temere perché è stato vissuto bene, o è redento dalla consapevolezza dell’errore e dalla sua espiazione; e al futuro l’uomo saggio e buono può rivolgersi. E il presente? Il presente diventa quello che i greci designano col termine kairós e Seneca, rende con tempus captatum, afferrato a volo, al giusto momento: un tempo, quindi, su cui letteralmente bisogna saltare addosso: «“… ma quando si presenta l’occasione a lungo attesa, bisogna balzare su prontamente»[13]. Ci vuole, però, una coscienza desta e una volontà tesa per trasformare le circostanze in materia e strumento di iniziativa morale. Qui non si tratta solo diaccettare con coraggio l’inevitabile, cosa che pure ha grande importanza, ma di lasciar spazio alla creazione di una vita più alta che prima del nostro agire non c’era.

E questa “missione interiore” dell’Uomo costituisce l’unica e sola ragione di vivere. Vivere, non sopravvivere o trascorrere il lasso di tempo dalla vita alla morte.

Note:

[1 Seneca, Ad Luc. 1, 2

[2]“La memoria fa riconoscente” – Ben. 3, 4, 2

[3]Ann., XV, 62

[4] La previsione di mali futuri, di cui già aveva parlato Antifonte (technealypias), in questo duramente confutato da Euripide (Al., vv. 779 ss.)

[5] Seneca, Ad Luc. 46, 33-35; 78, 21; 107, 3-4

[6] Seneca, Ad Marc. 9, 1

[7] Seneca, Brev. 10, 2

[8]“” ibid. 8, 1

[9] Seneca,  Brev., 11, 1

[10] Ibid., 12.2-7

[11]  Ibid., 11.2

[12] Ibid. 10, 5

[13] Seneca, AdLuc. 22,6.

 

Luigi Morrone

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