10 Aprile 2024
Libreria Storia

Patria senza mare un libro di Marco Valle. Recensione di Luigi Morrone

In un famoso discorso al Lingotto del 29 novembre 1985, Gianni Agnelli citò una frase di Ugo La Malfa: «L’Italia deve scalare le Alpi», lamentando che una “pozza di gravità”, una “forza centrifuga”, la attirasse verso il Mediterraneo, quando – secondo “l’avvocato” – il “futuro” era rappresentato dalla “irreversibilità” della scelta “atlantica ed europea”.

Il precipitato della mentalità propalata dal “signor FIAT”, è un’Italia “Patria senza mare”, espressione che dà il titolo all’ultimo saggio di Marco Valle.

Nella pregevole prefazione, Giampiero Cannella nota come la scritta che campeggia sul Palazzo della Civiltà del Lavoro all’EUR abbia ormai perso di attualità: non siamo più un “popolo di naviganti” da almeno 200 anni.

Eppure, quella essenza liquida chiamata “Mare Nostrum” dai Romani è stato l’epicentro della civiltà “occidentale”, fin dai suoi albori, quando Omero trasportò in quel mare la saga terrestre di Gilgamesh, facendolo navigare in lungo e in largo da Odisseo. Non a caso, a mo’ di epigrafe del libro, Valle pone il famoso motto pompeiano «Navigare necesse est, vivere non est necesse».

Da figlio di istriani con il mare nel sangue, Valle compie un’appassionata carrellata del rapporto tra l’Italia e il mare, cominciando da «Quando l’Italia era una superpotenza», quando «proprio sul mare e grazie alle comunità marinare l’intera penisola si risvegliò dal lungo inverno seguito alla caduta di Roma».

Le vie di terra erano devastate dai Goti, le strade non più battute ed infestate da tagliagole. Il mare, nonostante le procelle, restava la via di comunicazione più affidabile. E fin dal periodo “tardoantico”, passando per l’alto Medioevo, il mare assicurò agli abitanti della penisola gli approvvigionamenti necessari.

Con lo sviluppo della tecnologia navale, la ricchezza delle genti italiche era assicurata da una fitta rete di commerci marittimi.

Comincia l’ascesa di quelle che verranno chiamate “Repubbliche marinare”. Ad aprire la strada è Amalfi, in cui Benedetto Croce vede un embrione della concezione italica della “città – porto”, un piccolo centro in un lembo dell’Italia meridionale diventato punto cruciale dei traffici tra oriente e occidente.

Nel frattempo, l’espansionismo arabo, anche se non aveva trasformato il Mediterraneo in un “lago musulmano”, come ritiene Pirenne, aveva comunque spezzato l’unità europea e cristiana tra le sponde del “Mare Nostrum”.

Paradossalmente, la “incomunicabilità” tra le sponde settentrionale e meridionale del Mediterraneo viene superate grazie alle Crociate, veri “pellegrinaggi armati” (come magistralmente ricostruito da Cardini) che – comunque – permisero al mondo cristiano e a quello musulmano di scambiarsi non solo merci, ma anche cultura.

Con gli imperi marittimi di Pisa prima e, soprattutto, di Genova e Venezia poi, l’Italia diventa una potenza marinara di prima grandezza, dominando il Mediterraneo per tutto il Medioevo.

Con la caduta di Costantinopoli in mano turca, un nuovo universalismo sostituiva quello, ormai da secoli tramontato, dei Romani d’Oriente. Il sultano della Porta Sublime assume per sé il titolo di Kaisar, rivendicando l’eredità dell’Impero Romano, anche per l’occupazione territoriale del sito ove fu Troia, la patria di Enea, progenitore di Roma.

L’espansionismo turco travolge quel che resta della talassocrazia genovese, erode l’impero veneziano, i pirati barbareschi armati dal nuovo padrone di Costantinopoli minacciano le coste cristiane, in una Europa lacerata dalla rivalità franco-spagnola, a fronte della quale i sovrani italiani non sanno trovare l’unità, operando giravolte da un fronte all’altro, più attenti a combattersi tra di loro che a trovare una unità d’intenti che avrebbe potuto fare dell’Italia l’ago della bilancia tra le “Superpotenze”.

Anzi: le mire dei principi italiani sono chiaramente quelle di impadronirsi dei ricchi domini della Serenissima. Grazie alla sua capacità proteiforme di trovare sempre il modo di rinascere, Venezia si riprende dalla sua ora più buia, segnata dalle sconfitte di Agnadello e Polesella con il conseguente dominio milanese.

Ma il Cinquecento è il secolo delle grandi scoperte geografiche. I navigatori italiani, al servizio di Spagna e Portogallo, si inoltrano in terre inesplorate. Il genovese Cristoforo Colombo apre la strada e quella che era stata la “tomba liquida” dei fratelli Vivaldi (riecheggiata nell’episodio di Ulisse nella Divina Commedia) diventa la strada per nuove imprese, nuove esplorazioni, nuove scoperte. Il fiorentino Amerigo Vespucci capisce che le terre scoperte da Colombo non erano le “Indie”, ma un nuovo continente che prenderà il suo nome. Il vicentino Antonio Pigafetta completa la prima circumnavigazione del globo intrapresa dal portoghese Vasco De Gama.

Le nuove scoperte spostano il baricentro della Storia verso l’Atlantico, il Mediterraneo perde la sua centralità, ma lì si gioca comunque una partita importantissima, tra la Cristianità e l’espansionismo turco.

La rivalità tra Francia e Spagna, che aveva indebolito l’Europa, viene ancor più aggravata dallo scisma di Lutero, che spacca il mondo cristiano.

L’espansionismo turco viene in qualche modo tamponato dal lavorìo diplomatico di fra’ Michele, il domenicano Antonio Ghisleri, vescovo di Roma con il nome di Pio V che, reagendo – da un lato – alla riforma luterana con un profondo rinnovamento della Chiesa cattolica, dall’altro riesce a tamponare le conseguenze della contesa tra potenze cattoliche richiamando all’unità nei confronti della minaccia islamica. Subito dopo la caduta di Costantinopoli Pio II, il colto umanista Enea Silvio Piccolomini, aveva tentato di offrire a Mehemet II, eversore dell’Impero Romano d’Oriente, lo scettro di successore di Costantino il Grande chiedendogli di convertirsi al Cristianesimo come il suo grande predecessore. Gesto che non aveva sortito effetto.

Pio V, invece, intesse una fitta tela di rapporti tra potenze cristiane. Riesce a mediare persino tra l’Impero ed il neonato Granducato di Toscana, che l’Impero non aveva riconosciuto, onde Felipe II, re delle Spagne, riesce ad armare una potente flotta espressione della coalizione tra le potenze cattoliche. Partecipa anche il Granducato, che aveva ereditato la potenza marittima di Pisa, issando sulle sue navi la bandiera della Chiesa. La flotta è comandata da don Giovanni d’Austria, figlio naturale di quel Carlo V che nel 1527 aveva lasciato la capitale della cristianità in mano ai lanzichenecchi.

Il 6 ottobre 1571 a Lepanto la flotta turca è schiantata. La battaglia non ha conseguenze su quanto già in mano turca, ma l’espansionismo islamico nel Mediterraneo viene arginato (dopo Lepanto, i Turchi riusciranno solo a riconquistare Tunisi, ma sulle coste Europee non avanzeranno oltre).

Il Seicento compirà il lento, ma inesorabile spostamento dell’asse dei traffici commerciali dal Mediterraneo alle rotte oceaniche e la traslatio imperii nel mare interno dalla Spagna a Francia, Olanda e Inghilterra.

Sulle rotte oceaniche, alle cattoliche Spagna e Portogallo si contrappongono i protestanti olandesi e inglesi.

La guerra di corsa furoreggia ai danni della Spagna sia sull’Atlantico sia sul Mediterraneo. Le coste dei possedimenti spagnoli sono infestate sia da avventurieri in cerca di bottino, sia da una sistematica politica di razzìa organizzata da inglesi e olandesi sull’Oceano e dagli islamici nel Mediterraneo. Per effetto delle incursioni piratiche e di devastanti pestilenze, l’Italia declina inesorabilmente. Il sistema delle torri costiere ideato dai viceré di Spagna non riesce ad arginare il fenomeno. Una “piccola glaciazione” fa ritirare il mare e interra la laguna. L’intera penisola si impoverisce, la popolazione si assottiglia.

«Dalla “piccola era glaciale” prese vigore e calore un pensiero antropocentrico e individualistico che determinò l’emergere della borghesia nel segno dell’economia-mondo e del primato dell’Occidente. La Modernità, con tutte le sue luci e le sue ombre, le sue glorie e le sue sciagure».

Se l’apertura delle rotte atlantiche fa perdere centralità al Mediterraneo sullo scacchiere europeo, sul piano “globale” fa perdere centralità alla Cina, padrona dei traffici terrestri tra Oriente e Occidente lungo la “via della seta”.

I traffici vengono assicurati da rotte marittime, vere e proprie “vie d’acqua”, attraverso il Pacifico. Le “Province Unite”, futuri Paesi Bassi, ottengono l’affermazione di un principio giuridico basilare: la libertà dei mari, teorizzata dall’olandese Grozio e avversata da genovesi e portoghesi.

L’affermazione del principio giuridico liberò le rotte del Pacifico ai naviganti olandesi (tra cui il leggendario Bernard Fokke, “l’Olandese volante”), così impedendo agli iberici di acquisire il monopolio dell’approvvigionamento dall’Oriente.

Il lungo, implacabile tramonto della Serenissima prelude al subitaneo crollo del 1797 sotto i colpi delle armate napoleoniche. I patrizi veneti, a cominciare dal Doge Manin, sono imbottiti di dottrine illuministiche e danzano intorno all’albero della Libertà. Il popolo minuto, come in Piemonte, in Toscana, nello Stato Pontificio, come l’Armata della Santa Fede del cardinale Ruffo, insorge contro chi percepisce come invasore ed eversore di valori millenari. Dapprima le Pasque veronesi, poi le “insorgenze” nel martoriato popolo d’Istria, nella Venezia Giulia, nella Dalmazia il popolo prende le armi e continua a resistere fino all’arrivo degli austriaci. I francesi abbandonano, ma la Repubblica è finita per sempre. Avrà un nuovo padrone, l’imperatore d’Austria, che resterà fino al 1866, quando Venezia si riunirà al Regno d’Italia.

La bufera napoleonica investe tutta l’Italia. Gli antichi stati vengono travolti. Anche l’antica rivale di Venezia, la Repubblica di Genova, subisce uguale destino. Schiantata dal generale còrso, tradita dagli aristocratici, trova anche qui la sua opposizione all’invasore nelle file dei popolani, che assaltano i francesi al grido di «Viva Maria!». Trucidati i popolani, neanche dopo le sconfitte di Napoleone a Lipsia e Waterloo Genova ritroverà la sua indipendenza. Il Congresso di Vienna la consegnerà al Regno di Sardegna (ed anche contro i sardo-piemontesi ci saranno rivolte popolari soffocate nel sangue).

Si conclude la parabola napoleonica. “Due secoli l’un contro l’altro armati” cedono il passo ai grandi rivolgimenti seguiti al Congresso di Vienna, al trionfo della borghesia, dei principi della Grande Révolution, alla Rivoluzione industriale, al capitalismo.

Sulle acque, la rivoluzione industriale porta al tramonto della navigazione a vela. Nel 1807 Fulton mette in acqua il battello Clermont che risale, spinto dalla propulsione a vapore, il fiume Hudson da New York ad Albany. È l’inizio di una vera e propria rivoluzione nel mondo della navigazione, fermo da millenni alla propulsione a vela.

La nuova tecnologia si diffonde rapidamente. Un boemo triestino di adozione, Joseph Ressel, nel 1829 ha l’idea di utilizzare l’elica quale sistema di propulsione, sostituendo la ruota, più adatta alla navigazione fluviale. Lo spartiacque è il 1860, quando il numero dei battelli a vapore supera quello dei natanti a vela nella marina britannica. Nel 1870 l’Italia è ancora tra i pochi paesi a continuare la costruzione dei natanti a vela.

Ma per il Mediterraneo l’Ottocento significa soprattutto il canale di Suez (a cui Valle ha a suo tempo dedicato la monografia Suez, Il Canale, l’Egitto e l’Italia).

Una via liquida di collegamento tra Mediterraneo e Mar Rosso era nei pensieri fin dai tempi faraonici. Più volte restaurata, la idrovia dei Faraoni sfruttava le acque superficiali per raggiungere l’Oceano Indiano dalla foce del Nilo.

Dopo l’interramento dell’idrovia, per secoli non si era più progettato questo collegamento tra il Mare Interno e l’Oceano Indiano. I Veneziani, nel Cinquecento, avevano suggerito al Sultano mamelucco di «far una cava dal Mar Roso che mettesse a drectura in questo mare de qua, come altre volte fo rasnado de far», così progettando non un ripristino della idrovia faraonica, ma un vero e proprio taglio dell’istmo. Fu – però – nell’Ottocento che il rinnovato progetto vede la sua realizzazione, a partire dagli studi napoleonici durante la Campagna d’Egitto, passando attraverso varie vicissitudini, fino al compimento dell’opera, progettata dall’italiano Luigi Negrelli ed eseguita da una Compagnia multinazionale dovuta all’iniziativa del francese Ferdinand de Lesseps.

Il 17 novembre 1869 il Canale di Suez diviene una realtà. Un corteo di trenta navi, in testa l’ammiraglia francese con a bordo l’imperatrice Eugenia, passa dal Mediterraneo al Mar Rosso.

Paradossalmente, la palingenesi dei traffici marittimi innescata dall’apertura di quella via marittima, invece di rinverdire gli antichi fasti di una penisola adagiata in un Mediterraneo che ritrovava la sua centralità, si rivela deleteria per la marineria italiana.

A parte la fisiologica decadenza dei porti adriatici, tagliati fuori dalle rotte che passavano per Suez, la marineria italiana non sa adeguarsi alle nuove esigenze.

La “rivoluzione industriale” postunitaria, infatti, non investe la cantieristica navale, rimasta ancorata alla navigazione a vela. E i velieri, inadatti a solcare i ventosi tragitti verso il Mar Rosso, sono ancora costretti a doppiare il Capo di Buona Speranza per dirigersi a Oriente, così soffrendo la concorrenza di chi sfrutta la nuova via di accesso.

Il mancato ammodernamento della marina mercantile italiana è figlia anche di una politica che – come dirà più di un secolo dopo Gianni Agnelli – mira a “valicare le Alpi”, con l’ambizione di trasformare l’Italia in una piattaforma di smistamento delle merci italiane verso le pianure della Mitteleuropa e delle merci europee verso l’Oriente.

Unico bilancio attivo nelle “voci” della marina mercantile, il traffico di esseri umani verso le Americhe. Una tragedia che investe milioni di persone, facendo la fortuna di trafficanti senza scrupoli, che stivano gli emigranti su vecchie carrette, previo un vero e proprio “reclutamento”, in cui mette zampino la criminalità organizzata.

La pochezza marittima dell’Italia unita trova il suo paradigma nella cosiddetta “Terza guerra d’Indipendenza”, quando, il 20 luglio 1866, nei pressi di Lissa, sull’Adriatico, la Kriegsmarine austriaca, inferiore numericamente, sbaraglia la flotta del neonato Regno d’Italia. La ferita di quella sconfitta resterà a lungo nell’inconscio collettivo italiano.

La “Italietta” postunitaria ritrova lena verso il mare solo a fine secolo, quando inizia l’avventura coloniale. Le mire italiane, fin dai tempi mazziniani, sono orientate verso il Nordafrica, ma la Francia gioca d’anticipo. Già dai tempi di Carlo X aveva occupato l’Algeria. Con il trattato del Bardo (1881) ottiene Tunisi. Le mire italiane si spostano così sul Mar Rosso, creando le colonie di Somalia ed Eritrea.

L’avventura di Libia e l’occupazione di Rodi indirizzano sempre più la politica italiana verso il mare. Il “neoimperialismo” italiano è talassocratico.

Con lo scoppio della Prima guerra mondiale, l’Italia si schiera con le forze dell’Intesa. Teatro delle operazioni belliche per le nostre Forze Armate è la terra, ma alla vittoria contribuisce anche la Marina, che costringe la Kriegsmarine a non uscire dall’Adriatico.

Con il trattato di Versailles e la “vittoria mutilata”, s’infrangono i sogni italiani di un predominio sull’Adriatico: David Lloyd George (premier del Regno Unito) e, soprattutto, il presidente statunitense Thomas Woodrow Wilson, soffiano sul nazionalismo slavo, sottraendo agli italiani la sponda orientale, popolata da genti italiche e già dominio della Serenissima.

L’avventura di D’Annunzio a Fiume viene segretamente appoggiata dal Governo in carica: i navarchi italiani sanno bene che la sponda orientale dell’Adriatico è di importanza vitale per la stessa sicurezza nazionale. Il trattato di Rapallo, sancendo l’annessione al Regno d’Italia di Gorizia, Trieste, Pola e Zara, lascia insoddisfatte le esigenze strategiche dell’Italia.

Gli anni Venti del Novecento vedono protagonista l’ex agitatore romagnolo Benito Mussolini, che riesce a portare alla presa del potere un gruppo eterogeneo nato dalle trincee della Grande Guerra.

Il futuro Duce è sostenitore della necessità di una rinnovata potenza navale quale base per la costruzione della Nazione come potenza internazionale («la nave da guerra è il migliore strumento di politica estera», aveva scritto sul Popolo d’Italia il 26 luglio del 1919), nonché fautore di una “politica mediterranea” che proiettasse l’Italia verso il dominio sul Mediterraneo, per cui l’ascesa del Fascismo viene visto con favore dagli ammiragli (“matrimonio di convenienza” tra fascisti e Forze armate, come nota Marco Valle).

Il primo exploit fascista in politica estera è l’occupazione di Rodi e del Dodecanneso utilizzando la flotta. Si occupa anche Corfù, coronando un disegno prima borbonico, poi risorgimentale, ma l’intervento del Regno Unito, sostenitore della sovranità greca, porta a un compromesso. Rodi e il Dodecanneso restano in mano italiana, de iure oltre che de facto, ma Corfù torna sotto la sovranità greca.

La politica estera del governo fascista si pone in continuità con quella dei governi liberali: appeasement con il Regno Unito, “vicinanza” alle forze dell’Intesa, “attenzione” alla sponda orientale dell’Adriatico e pacificazione con gli slavi del “Regno dei Serbi, Croati e Sloveni” nato da Versailles.

Con il trattato di Roma viene annessa Fiume all’Italia e viene regolato il confine con gli slavi. Con la conferenza di Locarno si tenta di rimediare alle révanches dei delusi da Versailles, tentando di conferire un assetto pacifico all’Europa. L’Italia fascista si avvicina alla Repubblica Russa (futura Unione Sovietica) con un patto che prevede la libertà di navigazione. Ma, quando scoppia la crisi della Bessarabia, l’Italia fascista assume posizioni “filooccidentali”, di legittimazione dell’occupazione rumena.

L’attivismo dell’Italia sullo scacchiere europea suscita l’ostilità della Francia. Ciò induce i navarchi a consigliare l’aumento delle spese destinate alla Marina militare, ma la situazione interna porta a lesinare gli investimenti militari.

Le “leggi fascistissime” del 1925 imprimono una svolta autoritaria al regime fascista. Mussolini assume l’interim del Ministero della Marina, anche se – di fatto – il dicastero viene retto dal sottosegretario Giovanni Sirianni, il più giovane ammiraglio della Regia Marina, provocando il risentimento dei più anziani.

Fin dal primo governo fascista, importanti capitali vengono investiti nella ricostruzione della marina mercantile, praticamente distrutta dagli eventi della Grande Guerra (diventerà la quarta marina al mondo).

Nella seconda metà degli anni Venti, Mussolini riprende il suo disegno di un’Italia proiettata verso il Mediterraneo. Gli investimenti sono massicci. Non si crea la “potenza marinaia” sbandierata dal Regime, ma è comunque sufficiente ad assicurare una modernizzazione della flotta e un’adeguata protezione delle coste.

Anche la flotta passeggeri conosce una rinascita importante. Il transatlantico Rex batte il primato di velocità nell’attraversamento dell’Oceano, la flotta passeggeri è tra le più importanti del mondo.

La proiezione verso il mare della politica nazionale vede non solo cantieri navali, porti, dighe, idroscali, ma anche la scoperta del mare da parte delle popolazioni rurali. Con la politica sociale del regime, masse di fanciulli e adolescenti vengono a scoprire le vacanze balneari, prima privilegio di pochi.

Vede anche una “strategia di attenzione” verso il mondo arabo, con iniziative diplomatiche e culturali tese a fare dell’Italia un “ponte ideale” tra la l’Europa e l’Islam.

Alla fine degli anni Venti, domata la ribellione dei Senussi in Cirenaica e Tripolitania, l’Italia abbandona la politica del “basso profilo” che manteneva da Corfù in poi e si propone un ruolo da protagonista nello scacchiere europeo, con una frenetica attività diplomatica, che coinvolge sia i Paesi vincitori della Grande Guerra, sia l’URSS.

Nel 1935 inizia una nuova avventura coloniale: la conquista dell’Impero etiopico. Ciò provoca la reazione della Società delle Nazioni, che approva durissime sanzioni economiche nei confronti dell’Italia. La Royal Navy intraprende manovre nel Mediterraneo al fine di ostacolare le operazioni belliche. Le sanzioni si rivelano inefficaci, mentre il blocco viene aggirato e la Regia Marina offre egregiamente il supporto logistico alle operazioni, che si concludono del 1936. Come nota De Felice, è l’acme del consenso popolare al Regime.

Ma il ruolo della Regia Marina nella guerra di Etiopia era stato di mero supporto. Non vi erano stati scontri con la Home Fleet britannica, che si era limitata a “mostrare i muscoli”. In realtà, gli investimenti del Regime erano stati protesi alla propaganda, più che all’efficienza, puntando alla quantità a discapito della qualità.

Le sanzioni e la Guerra Civile Spagnola hanno l’effetto di avvicinare il regime fascista alla Germania dove, dal 1933, era al governo un partito parafascista, la NSDAP, all’inizio guardato con diffidenza dall’Italia fascista, che aveva impedito un tentativo di annessione (Anschluß) dell’Austria nel 1935, schierando le truppe sul Brennero.

Nel 1938 un nuovo Anschluß ha successo anche per il via libera dell’Italia, che di lì a poco (22 maggio 1939) stipula con la Germania un “patto d’acciaio” di alleanza politica, economica e militare.

Gli eventi precipitano; scoppia la guerra. L’Italia decide di parteciparvi e l’annuncio viene dato da Mussolini il 10 giugno 1940.

Rifacendosi ai (pochi) studi seri in subiecta materia, Valle smentisce le leggende nere sul ruolo della Regia Marina nella Seconda guerra mondiale. Smentisce i presunti “tradimenti”, perché in realtà gli inglesi non ricevono notizie riservate dai “traditori”, ma da un servizio di intelligence che decritta i messaggi tra le forze dell’Asse tramite una macchina antenata dei moderno computer.

Pur non smentendo l’inadeguatezza tecnologica della Regia Marina, ricorda come essa svolga egregiamente i compiti di supporto, vincendo la “guerra dei convogli”, che è l’unica che si combatte davvero nel Mediterraneo.

Ma, anche sul piano strettamente militare, nonostante tutto, la Regia Marina coglie i suoi successi, il più importante dei quali è il blocco del Mediterraneo, che impedisce ai britannici di utilizzare Suez quale via di collegamento con le colonie.

Altra leggenda da sfatare, quella della consegna in blocco della Regia Marina agli Alleati. In realtà, da un attento esame dei documenti, meno della metà della forza navale subisce questa sorte. E le navi cadute in mano inglese (“magnifica preda”, secondo Churchill) sono utilizzate contro le forze dell’Asse, addirittura anche a supporto delle forze titine.

Chi non si arrende è la X Flottiglia MAS al comando di Junio Valerio Borghese che, senza alcun intento ideologico, combatte con la RSI, al solo scopo di rifiutare una resa che comporta il disprezzo degli alleati e dei nemici.

Finisce la guerra. Pesanti condizioni sono dettate all’Italia dai vincitori.

Il mondo si divide in blocchi. Da una parte i paesi occupati dall’Armata Rossa durante la guerra, dall’altra quelli occupati dagli Alleati.

La “Dottrina Truman”, esposta in un discorso del Presidente statunitense del 12 marzo 1947, preso atto dell’esistenza di una “cortina di ferro” tra i due blocchi, predispone una serie di misure atte a favorire l’adesione al blocco “occidentale” dei Paesi fuori dall’influenza URSS. Il lavorìo diplomatico era già cominciato, con l’esautorazione dei partiti comunisti dall’area di governo, in Lussemburgo con il gabinetto Dupong-Schaus; in Belgio con il III governo Spaak; in Francia con un rimpasto al primo governo Ramadier; in Italia con il IV Governo De Gasperi (31 maggio 1947), con una “svolta moderata” della politica italiana che durerà fino al 1964.

Il “Piano Marshall” porta massicci aiuti economici ai Paesi del blocco occidentale; la fondazione dell’OTAN (Organizzazione per il Trattato dell’Atlantico del Nord, nota in Italia con l’acronimo NATO, (dall’inglese North Atlantic Treaty Organization) militarizza la divisione in blocchi e consente all’Italia un riarmo “col permesso delli superiori”, riprendendo il concetto di politica estera sotto tutela sperimentata a fine XIX secolo, con gli SUA nel ruolo che allora era stato del Regno Unito.

Ma la proiezione delle esigenze difensive è verso l’Europa e l’Atlantico. Il riarmo interessa soprattutto l’esercito e solo marginalmente la marina.

Le cose cambiano con il ritiro di De Gasperi. Fanfani, Gronchi e – soprattutto – Enrico Mattei, fondatore dell’ENI, giocano un ruolo autonomo dell’Italia nel Vicino e Medo Oriente, in accordo con gli SUA ed in latente contrasto con Francia e Regno Unito.

La crisi di Suez del 1956 fa – però – tramontare il sogno italiano di una posizione di preminenza nello scacchiere mediterraneo. Di fronte all’aggressività anglofrancese, l’Italia si schiera cautamente con gli egiziani, ma gli statunitensi intervengono per far capire chi è il padrone. Britannici e francesi si ritirano, ma sono gli SUA a giocare il ruolo di arbitri dei destini del canale, snodo essenziale dei traffici marittimi.

Gli SUA soffocano qualunque anelito di preminenza della creatività e produttività italiana. Anche il cosiddetto “boom economico” declina rapidamente verso la subalternità dell’industria italiana negli scenari internazionali.

Il cosiddetto “centrosinistra”, nato nel 1964 con il dichiarato intento di “isolare i comunisti” e condurre il PSI verso posizioni socialdemocratiche da sempre minoritarie all’interno del partito, rivela tutti i suoi limiti.

La adesione del PSI all’internazionale socialista (da cui era stata esclusa nel 1948 per la sua alleanza con il PCI) si unisce alla vecchia adesione della DC alle “Internazionali democristiane”, dalle “Nouvelles Equipes Internationales” in poi, fanno spostare definitivamente il baricentro della politica italiana verso l’Europa, con una sempre più entusiastica partecipazione agli organismi transalpini dalla CECA alla Comunità Europea.

La conseguenza è, ancora una volta, una “Patria senza mare”, una Nazione posta al centro del Mediterraneo che preferisce giocare il ruolo di paese periferico dell’Europa continentale anziché quello di potenza marittima.

Neanche la Marina mercantile, culla di eccellenze, può invertire la rotta. Una politica predatoria dei grands commis frustra le intraprese dell’industria nautica di Stato

I capitani coraggiosi della marineria privata (tra tutti, Angelo Costa ed Achille Lauro) hanno ben altro spessore, ma non possono andare oltre un basso profilo, incapaci di concorrere con i giganti della marineria internazionale, soprattutto a causa di una politica miope che rifiuta di vedere le grandi prospettive di un’economia italiana proiettata sul mare.

Un certo risveglio dell’interesse italiano verso il Mediterraneo si ha con i governi Spadolini e Craxi degli anni Ottanta del XX secolo.

L’interesse verso il mondo arabo ha una speculare ricaduta nel particolare attivismo della Marina militare.

E ritorniamo all’inizio della nostra disamina. Gianni Agnelli, nel convegno al Lingotto, pare rispondere all’allora Presidente del Consiglio Bettino Craxi, che inaugura la prima portaerei italiana, l’incrociatore Garibaldi, con le parole: «Dobbiamo imparare a guardare lontano, proprio come fate voi marinai. L’evolversi degli avvenimenti mondiali, ma soprattutto l’impetuoso sviluppo del nostro Paese, ormai inserito tra i maggiori produttori del mondo, assegnano all’Italia sempre nuovi compiti e nuove funzioni nell’area del Mediterraneo, verso l‘Africa, dove ci sono tensioni pericolose e pericolosi focolai di conflitto, ma dove esistono anche tanti Stati e tanti popoli che desiderano solo di stringere le nostre mani».

Le politiche successive seguono Agnelli e non Craxi.

L’acme si ha nel 2011, quando si assecondano gli interessi anglo-francesi coinvolgendo l’Italia nella destabilizzazione del Nord Africa, rovesciando Muhammar Gheddafi in Libia, Hosni Moubarak in Egitto, Zine El-Abidine Ben Ali in Tunisia e ponendo così fine allo stretto partenariato con quei paesi.

Così, all’orizzonte, spunta una nuova potenza marittima: la Cina popolare, che abbraccia sempre più strettamente l’Africa, con un controllo per ora “morbido” degli snodi fondamentali di Suez e Gibuti, con una massiccia presenza militare e mercantile sull’Indo pacifico, a fronte della quale i paesi mediterranei sembrano lentamente farsi soffocare.

E noi? Siamo quelli del titolo del libro: una Patria senza mare.

Amara premessa, amara conclusione di Marco Valle, che cavalca i secoli con una narrazione serrata, più di 500 pagine che avvincono il lettore senza conoscere pause, con digressioni letterarie da Namaziano a Leopardi passando per Dante, Petrarca, Ariosto, che invece di “distrarre” dall’oggetto contribuiscono ad attrarre.

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