11 Maggio 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, sessantanovesima parte – Fabio Calabrese

Come al solito, non so dirvi quando questo nuovo articolo prederà la strada della pubblicazione su “Ereticamente”. Abbiamo a che fare, come sempre, con tempi tecnici, un gap temporale che pare incomprimibile. Vi posso dire che nel momento in cui mi accingo a stenderlo, siamo oltre la metà di giugno, ci avviamo al solstizio estivo e a lasciarci alle spalle la prima metà del 2021, che finora non si è rivelato meno ricco di novità dell’anno che lo ha preceduto, per quanto riguarda il campo della nostra eredità ancestrale, novità che “stranamente” il più delle volte sono andate a confermare la nostra visione del mondo e ad essere altrettanti scrolloni della concezione ufficiale, del dogma che si continua a volerci imporre, dell’Ex Oriente lux, della derivazione della civiltà dal Medio Oriente. L’Out of Africa recentemente è rimasta un po’ fuori tiro, forse perché oggi è stata sostituita dalla pretesa, ancor più radicale e del tutto infondata che i nostri antenati fossero melanodermi come quelli con cui vogliono sostituirci, fino a poche migliaia di anni fa, ed è questo sterco che si insegna oggi nelle università americane.

Premessa questa sintesi nello stesso tempo grottesca e drammatica, vediamo cosa ha in serbo per noi questa incipiente estate.

Cominciamo con qualcosa che riguarda l’Italia. Come vi ho spiegato più volte, se in queste pagine sono comparsi più spesso riferimenti al mondo nordico, vichingo, anglosassone, non è per uno sviscerato amore per tutto ciò che si trova a nord delle Alpi, ma solo al fatto che da lì ci giungono informazioni più abbondanti rispetto a quel che avviene da noi, dove al cospetto di un retaggio di antichissima civiltà, non corrisponde un interesse altrettanto vivo dei nostri connazionali.

L’Europa mediterranea è terra di antichissima civiltà non meno di quella centro-settentrionale e atlantica, sappiamo anzi che le culture indoeuropee dell’antichità, ellenica e romana, sono state precedute da quelle pre-indoeuropee (ma sempre caucasiche, sarà bene sottolinearlo, visti i tempi che corrono) etrusca e minoica.

E’ dunque con particolare soddisfazione che cominciamo partendo da qualcosa che riguarda la nostra Penisola.

Il 16 giugno sul blog personale dell’archeologo Daniele Mancini, è apparsa la notizia, in un breve articolo che è la rielaborazione di un comunicato di Etruria Oggi, del ritrovamento nella Necropoli dell’Osteria a Vulci, già abbondantemente esplorata e saccheggiata, pare, fin dall’antichità, in una sepoltura dell’VIII secolo a. C. di un vaso decorato da una ricca pittura vascolare raffigurante un corteo di donne, che è stata attribuita all’artista noto come “Pittore delle rondini”.

E’ quasi superfluo sottolineare che tutte le persone raffigurate hanno lineamenti europidi e che la fanfaluca che oggi si cerca di accreditare degli “etruschi neri”, è una fesseria e niente altro, inventata da chi vuole stravolgere la nostra storia per avvelenare il nostro futuro.

Continuiamo con le notizie di casa nostra. Un articolo di Desirée Maida pubblicato il 14 giugno sul n. 10 di “Artribune”, un periodico di arte, ci informa che a Verona, sotto i locali dell’ex cinema Astra ormai da tempo in disuso in via Oberdan, sono stati ritrovati resti di età romana, “una piccola Pompei”, così sono stati definiti, un ambiente con pareti affrescate in uno stile che ricorda appunto quello dei celebri affreschi pompeiani e un mobile di legno carbonizzato che però mantiene la forma originaria. Il tutto risalirebbe al II secolo d C.

Tanto per non farci mancare nulla in questo (piccolo) risveglio dell’archeologia italica, ricorderete certamente che la volta scorsa vi ho parlato della vasca votiva di Noceto (Reggio Emilia) di cui ci ha raccontato “The Archaeology News Network”. Bene, a parlarcene di nuovo, stavolta è Ansa.it in un comunicato del 16 giugno, ripreso anche da MSN.com, che per la verità non aggiunge nulla, anzi è considerevolmente più sintetico, comunque, meglio poco che nulla.

Se ve ne ricordate, già tempo addietro vi avevo parlato del sito tedesco di Pommelte nella Sassonia-Anhalt, che sembra essere stato una replica lignea di Stonehenge (a differenza della pietra, i pali di legno non si sono conservati, e quello che rimane sono le loro impronte, le buche nel terreno, e vi avevo fatto notare che per copiare Stonehenge questi antichi germanici dovevano averla vista, e questo ci porta a supporre un’Europa preistorica dove i contatti e gli scambi fra popolazioni e culture fossero più fequenti e su scala maggiore di quanto ordinariamente non si pensi. Non è soltanto questo a farlo pensare, ovviamente, ma anche l’ormai accertata provenienza inglese dell’oro dei fregi del famoso disco di Nebra rinvenuto poco distante.

Bene, sempre il 16 giugno su “Ancient Origins”Ashley Cowie ci da nuove informazioni su questo antico sito che risale a 4000 anni fa.

La nuova campagna di scavi intrapresa quest’anno dagli archeologi dell’Università di Halle ha permesso di stabilire che in realtà Pommelte è un complesso notevolmente più vasto di Stonehenge, sono emersi i resti di 130 abitazioni, 20 fossati e numerose sepolture. Gli scavi sono tuttora in corso. Un particolare che gli archeologi hanno definito “agghiacciante”, è che fra i resti inumati sono stati trovati quelli di numerose donne e bambini che mostrano i segni di una morte traumatica e violenta. Potrebbe trattarsi di vittime di un’incursione di un clan rivale che hanno poi ricevuto una sepoltura cerimoniale, oppure di sacrifici umani.

Che cosa sapete degli Ittiti? Non molto, credo. Questa antica popolazione indoeuropea insediatasi in Anatolia costituì attorno al II millennio avanti Cristo un vasto impero con notevoli manifestazioni culturali, hanno lasciato rovine imponenti e una vasta e articolata mitologia. Tuttavia sono un po’ gli illustri sconosciuti della storia, scoperti solo alla fine del XIX secolo, non hanno mai raggiunto la popolarità di egizi, assiri e babilonesi, anche se gioverà ricordare che Adriano Romualdi aveva per questo popolo una particolare predilezione, considerandoli una sorta di antemurale indoeuropeo in faccia al mondo mediorientale e semitico.

Bene, il 18 giugno, sempre lui, Ashley Cowie ci porta a esplorare un complesso ittita poco noto quello di Yazilikaya. In turco Yazilikaya significa “roccia incisa”, e in effetti lì di pietra incisa ce n’è parecchia, si tratta di un vasto complesso templare datato a 3200 anni fa.

Cowie ce lo descrive così:

Yazilikaya è un edificio di 3.200 anni che era noto per essere stato centrale nelle cerimonie religiose nella capitale dell’antico impero ittita Ma secondo un team di ricercatori, potrebbe essere servito anche come calendario di lavoro, un orologio sacro e un riflesso simbolico del cosmo. (…) che pochi decenni prima della caduta del regno ittita (intorno al 1190 a.C.), gli scalpellini crearono circa 100 rilievi di persone, animali e mitiche chimere nei due cortili naturali del massiccio roccioso”.

Non è tutto, perché la parete nord dell’ultimo edificio del complesso templare è allineata con il solstizio d’inverno, secondo una consuetudine indoeuropea che troviamo anche, ad esempio nelle Isole Britanniche, e presuppone sviluppate conoscenze astronomiche.

Rimane un mistero: perché gli ittiti sono stati così a lungo e continuano a essere snobbati dall’archeologia ufficiale, forse perché si trattava di indoeuropei?

Qui, frecciata polemica a parte, il discorso andrebbe allargato e assumere una doppia dimensione: noi sappiamo che l’archeologia ufficiale, quella che crea l’immagine che un po’ tutti abbiamo del nostro passato, attraverso il sistema mediatico e quello (dis)educativo scolastico è affetta da una doppia cecità “politicamente corretta”: da un lato ignora alla grande la più remota civiltà europea di cui pure i monumenti megalitici sono una testimonianza inequivocabile, dall’altro, per quanto riguarda la stessa area mediorientale dove si suppone sia nata la civiltà umana, tende a minimizzare, sottovalutare, ignorare tutto ciò che può essere anche in questo contesto l’elemento europeo, indoeuropeo, caucasico, “bianco”, il cono d’ombra che sembra avvolgere gli Ittiti (a proposito, quanti di voi ricordano che furono sul punto di prevalere sull’impero egizio nella battaglia di Kadesh, dove il faraone Ramses II sfuggì per un pelo alla cattura?) ne è certamente un esempio, ma non ne è il solo.

A ricordarcelo, è il professor Leonardo Melis, l’esperto dei Popoli del Mare che ho più volte citato, in un articolo comparso il 17 giugno sul suo blog personale “Shardana”. In esso ci spiega che esaminando con attenzione le fonti bibliche e quelle egizie, si scopre che i Popoli del Mare di origine europea (fra cui i suoi prediletti Shardana – verosimilmente sardi), non si limitarono a episodiche scorrerie ma si insediarono in varie zone dell’area mediorientale.

Aggiungiamo anche le menzioni degli scriba egizi, che menzionavano: – i Pheleset nella Pentapoli, – I Shardana ad Akko, sotto la città di Tiro (Papiro Anastasi) – I Libu a Tiro stessa – i Tjekker a Byblos e Dor (Il Poema di Wen.Amon).. etc.”.

Strano, vero? Tutto ciò potrebbe portarci a una conclusione molto poco “politicamente corretta”. Sicuramente in un remoto passato la regione mediorientale – Egitto compreso – ha presentato i segni di una grande civiltà, e conosceva anche un elemento europide molto maggiore di oggi, ed è decaduta man mano che questo elemento europide si è affievolito.

Sempre il giorno 19 Rudra Bhushan ci parla di un esperimento che è stato condotto da un gruppo di archeologi spagnoli dell’Università della Cantabria guidato dalla dottoressa Angeles Medina-Alcalde, che hanno lavorato in una grotta dei Paesi Baschi nota come Isuntza 1.

Noi tutti sappiamo che l’arte paleolitica è in grandissima parte rappresentata da pitture e incisioni parietali, che si trovano cioè sulle pareti delle grotte, spesso a grande profondità e lontane dalla luce naturale. Come hanno fatto gli uomini preistorici a produrle? Gli esseri umani non possono vedere al buio, e nel paleolitico la luce elettrica non era disponibile. Gli archeologi spagnoli hanno sperimentato vari metodi di illuminazione disponibili già allora: torce composte da ramoscelli, lampade alimentate da grasso animale, e un caminetto. Quest’ultimo è stato subito escluso, produce troppo fumo e non consente una buona visibilità. Restano torce e lampade, e fra queste la scelta è difficile: le prime producono una buona visibilità ma anche molto fumo, le seconde danno una luce piuttosto fioca. Per ora non sappiamo come era illuminata “la notte dei tempi”.

Noi non dobbiamo dimenticare che lo scopo di questa serie di articoli (che penso si possa tranquillamente considerare una rubrica) non è un interesse erudito verso il passato, ma collegare il nostro passato – e quindi noi stessi – a quella che si può definire una cultura miltante. Non sarà quindi strano che, come ho fatto altre volte, accanto alle fonti propriamente archeologiche, prendere ora in considerazione fonti meno ufficiali, ma indubbiamente legate alla nostra sensibilità.

In particolare, vediamo ora un paio di cose che sono recentemente comparse su You Tube, cominciamo dal 13 giugno, quando Giuseppe Barbera per conto dell’associazione Pietas, ha postato il suo discorso in occasione del quarto anniversario delle fondazione (o sarebbe meglio dire ri-fondazione) del tempio di Giove a Roma. Ricordo che l’associazione Pietas si è recentemente costituita come vero e proprio culto gentile e ha riconosciuto Giuseppe Barbera come pontifex. Dal momento che questo titolo, usurpato dal cristianesimo, deriva dalla tradizione romana, penso che Barbera lo porti più legittimamente degli inquilini del Vaticano (a prescindere dal fatto che ora ce ne sono due, non cambia, sono entrambi abusivi).

Il sedici giugno, sempre con un filmato su You Tube, è il noto esperto di mitologia norrena (nonché amministratore del guppo FB omonimo) Fabrizio Bandini a presentarci in tal modo quella che dovrebbe essere la prima di una serie di conferenze sulla tradizione nordica e indoeuropea. Il tema di questo primo incontro, è quello del sacrificio primordiale: Ymir e Purusha, questo, secondo Bandini, quello del sacrificio primordiale di un gigante primevo all’origine del mondo, è uno di quei concetti ricorrenti che dimostrano il fatto che alla base di tutte le tradizioni indoeuropee c’è una tradizione comune che poi si è variamente diversificata.

A questo proposito, devo ammettere che avverto, per quanto mi riguarda, una certa contraddizione: come italiano, dovrei riconoscermi soprattutto nella tradizione gentile romana, ma mi sento anche molto attratto (ve ne sarete accorti) dal mondo celtico e nordico.

Ma queste in ultima analisi, sono sfumature: è lo spirito della tradizione europea, che non è un blocco monolitico, che dobbiamo cercare di mantenere vivo.

NOTA: Nell’illustrazione, il vaso recentemente ritrovato nella necropoli di Vulci (dal blog di Daniele Mancini), si osservino le figure femminili che compongono il corteo funebre. Per quanto il disegno sia schematico, i loro lineamenti europidi sono evidenti. Una conferma in più che si unisce alle moltissime disponibili grazie alle pitture sia vascolare, sia parietali che ci sono pervenute delle tombe etrusche, che la bufala “politicamente corretta” degli “etruschi neri” non è altro che una panzana, e che le menzogne della democrazia “made in USA” stanno uccidendo la cultura e la verità storica.

6 Comments

  • Charles Vinson 26 Settembre 2021

    A proposito di etruschi, da un recente studio genetico di cui al link che segue, sembra che non c’entrassero nulla con il medio oriente o con l’anatolia, ma avessero la stessa impronta genetica … pur non parlandone la lingua. A mio avviso non potrebbe essere escluso a priori che, semplicemente, le nostre conoscenze di tale lingua siano così esigue da averci mandato fuori strada nell’interpretazione della sua origine. Comunque ecco il link: https://www.unifimagazine.it/dna-antico-le-origini-degli-etruschi/

    • Charles Vinson 26 Settembre 2021

      Correggo: intedevo dire la stessa impronta genetica degli indoeuropei

  • Charles Vinson 26 Settembre 2021

    Correggo: sembra che avessero la stessa impronta genetica degli indoeuropei

  • Fabio Calabrese 26 Settembre 2021

    Caro Vinson, è un concetto che è meglio ribadire una volta di più: “indoeuropeo” è un concetto linguistico che siamo costretti a usare in luogo di uno più propriamente antropologico a causa della censura “politicamente corretta” (i pregi della democrazia). La lingua degli Etruschi è ancora misteriosa, la loro appartenenza al gruppo delle etnie caucasiche, assolutamente no. In generale, alla base di ogni civiltà, troviamo sempre un elemento caucasico, anche di quelle asiatiche e di quelle precolombiane, come ho spiegato in “Ex Oriente lux”, e meglio ancora nel mio libro “Alla ricerca delle origini” (Ritter Editore). Quella che fino a oggi pareva l’unica eccezione, la civiltà della Valle dell’Indo, che essendo pre-indoeuropea era attribuita ai Dravidi, la popolazione “scura” dell’India, si è rivelata non essere tale. Da un cimitero nei pressi di Mohenjo Daro sono emersi scheletri “con fattezze simili a quelle degli antichi Romani”. Siamo arrivati al punto che i sostenitori degli “Etruschi neri” di fronte all’abbondanza di dati antropologici e iconografici che li contraddicono, sono arrivati a sostenere che si dipingessero di giallo. Forse confondono gli Etruschi coi Simpson.

  • Charles Vinson 26 Settembre 2021

    Interessante. Mi fa pensare ad un articolo che lessi tempo fa su una indagine genetica operata sulle mummie della XVIII dinastia egizia, per scoprirne i gradi di parentela. Purtroppo non ho più il link, ma tra le varie cose accertate in quello studio fu che i membri di detta famiglia erano geneticamente europei, come la gran parte dei principi egiziani, ed anzi si ipotizzava che questa differenza anche fisica con il resto del popolo fosse una delle cause della loro endogamia estrema… vedo di ritrovare l’articolo

  • Fabio Calabrese 27 Settembre 2021

    Infatti, caro Vinson, anche quello della genetica europea delle élite egizie, è un tema che ho più volte affrontato, e a cui ho dedicato un capitolo in “Alla ricerca delle origini”. Abbiamo alle spalle una storia che non è quella che ci raccontano.

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