18 Luglio 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, quindicesima parte – Fabio Calabrese

Sembra impossibile. Come certamente avrete notato, la tredicesima e la quattordicesima parte de L’eredità degli antenati sono state pubblicate a una settimana di distanza in luogo della solita scadenza bisettimanale di questa rubrica come di Una Ahnenerbe casalinga che l’ha preceduta. Il motivo di ciò è semplice: concludere al più presto il discorso sul 2019, dato il gap temporale che si è verificato circa le notizie sulla nostra eredità ancestrale e il momento in cui riesco a parlarvene sulle pagine di “Ereticamente”. L’idea era di fare in modo di ripartire dal 2020 con questa nuova parte, la quindicesima.

Pia illusione: “la rete” è un mare magnum dove tenere d’occhio tutto quanto senza che sfugga nulla di rilevante dal nostro punto di vista, è praticamente impossibile, e stavolta in particolare è accaduto che dopo aver postato la quattordicesima parte, mi sono trovato per le mani un discreto numero di notizie riguardanti l’anno trascorso, rilevanti dal nostro punto di vista e di cui sarebbe un peccato non rendervi conto. E nel momento in cui stendo queste note siamo a febbraio.

Non è tuttavia il caso di rammaricarsi di questo: l’archeostoria (mi piace questo neologismo creato dagli amici di “Ereticamente” che fonde archeologia e storia e a mio parere è assolutamente adeguato a indicare la tematica delle origini, che spazia dai più remoti segni ancestrali della presenza umana nel nostro mondo fino ai tempi storici documentati) non è la politica spicciola, la cronaca sportiva, quella nera o il gossip, tutti campi dove c’è da attendersi un flusso regolare e costante di eventi. A periodi densi di informazioni possono benissimo succedere tempi di magra.

Quello che invece può essere obiettivamente oggetto di rammarico e di preoccupazione è il fatto che, magari questo flusso di notizie/eventi che ci ha letteralmente investiti per l’anno trascorso avesse perlopiù riguardato informazioni sempre più complete e precise sul nostro passato ancestrale, no, invece abbiamo perlopiù assistito a una mistificazione in grande stile del nostro passato da parte della “scienza” e della “cultura” mainstream, cioè del sistema mediatico strettamente dipendente dal potere, una riscrittura orwelliana della nostra storia che ha palesemente lo scopo che le mostruosità multietniche che si vogliono oggi costruire ovunque siano viste come qualcosa di “naturale”, “sempre esistito”, precisamente per farci accettare la distruzione dei nostri popoli, culture, etnie, mediante le immigrazioni/invasioni e annegandoli nell’universale meticciato.

Abbiamo così assistito all‘invenzione di Etruschi, Romani, Inglesi, persino Vichinghi, multietnici o addirittura neri in toto. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la realtà, ma si vuole applicare il principio orwelliano per cui non è vero ciò che è vero, ma ciò che la gente (plagiata) crede che lo sia. Bene, finché ci sarà possibile, noi saremo qui a combattere chi vuole stravolgere il nostro passato per compromettere il nostro futuro.

A ogni modo, data l’imprevedibilità di questo tipo di eventi, potrebbe essere benissimo che a un periodo di piena ne succeda uno di siccità.

Voi comunque non vi dovete preoccupare: se anche gli articoli di questa rubrica dovessero rarefarsi, questo non significherà che non mi occuperò di archeostoria sulle nostre pagine. C’è materiale di scorta e ce n’è un bel po’.

Come avete visto con la ventottesima parte, ho ripreso la serie di Ex Oriente lux, ma sarà poi vero? E il discorso non è concluso, c’è dell’altro in programma. Poi ci sono i testi delle conferenze che ho intenzione di presentarvi, quella tenuta lo scorso marzo al corso Erasmus, L’Europa alle origini della civiltà, e quella tenuta a giugno al festival celtico Triskell su L’Italia megalitica, il testo di ciascuna di esse suddiviso in tre articoli. Insomma, sto scaldando il motore per un 2020 alla grande.

Cominciamo segnalando nel mese di dicembre l’uscita di un testo in lingua inglese: Beyond the North Wind di Christopher McIntosh e Hilmar Orn Hilmarsson.

McIntosh è un ricercatore “eretico”, “fuori dagli schemi”, uno scozzese che vive in Germania, e Hilmarsson è un islandese, un sacerdote di quello che è oggi il rinascente paganesimo nordico.

Beyond the North Wind, “Oltre il vento del nord” è letteralmente la traduzione e il significato del termine greco Iperborea. Il mito greco della “luce da nord” viene qui riletto nel significato di una rivalutazione e di una rivincita del mondo nordico e della sua cultura a lungo misconosciuta:

Ci hanno insegnato che la civiltà europea si è diffusa da sud a nord e che l’Europa settentrionale è stata prima civilizzata dai romani e ulteriormente civilizzata dal processo di cristianizzazione nel primo Medioevo. Quindi tutta la prima cultura dell’Europa settentrionale tendeva ad essere emarginata. Culturalmente e spiritualmente, la parte settentrionale della bussola era semi-invisibile. Ora tutto ciò sta cambiando radicalmente. Il Nord è tornato con un desiderio di vendetta”.

L’idea centrale è sempre quella, a noi non certo ignota, di una remota origine settentrionale, iperborea appunto, della civiltà che chiaramente s’incontra con quanto asserito a suo tempo dagli studiosi tradizionalisti, e mi sembra superfluo ripetere ora testi e nomi, un’idea che oggi guadagna sempre nuove prove archeologiche, mentre quelle dell’origine africana della nostra specie e dell’origine mediorientale della civiltà mostrano crepe sempre più vistose.

Qualcos’altro che può essere significativo per quanto riguarda la teoria iperborea è la presenza onnipresente di antichi labirinti di pietra. Questi si trovano in tutto il mondo, ma in una concentrazione particolarmente densa in Scandinavia, in particolare intorno alla costa baltica di Svezia e Finlandia. Si trovano anche sulla costa artica e sulle isole della Russia e in Nord America”.

E’ un discorso che certamente può essere collegato alla presenza di circoli megalitici in tutto il continente europeo, snobbati come sappiamo dall’archeologia ufficiale.

Dispiace che gli autori, spinti da un forse esagerato “patriottismo nordico” equiparino romanità e cristianesimo: il mondo romano fa parte della medesima famiglia indoeuropea, e come dimenticare l’insegnamento del grande Friedrich Nietzsche che ci ha insegnato a vedere nella romanità e nel cristianesimo due poli opposti? Tuttavia non è certo possibile misconoscere che questo testo costituisce un prezioso pendant allo “strabismo mediorientale” e alle mistificazioni africano-centriche oggi imperanti.

un articolo apparso su phis.org in data 24 dicembre a firma di Bob Yirka ci riporta delle novità su un personaggio che avevamo già incontrato, l’Oreopithecus bambolii o Oreopiteco di monte Bamboli. Si tratta di un antico primate vissuto tra i 6,7 e gli 8,3 milioni di anni fa in Toscana e Sardegna. Ce ne eravamo occupati perché questa creatura presenta le stesse caratteristiche che hanno permesso di attribuire agli australopitechi africani il ruolo di precursori dell’umanità: dentatura ad arco anziché “a scatola”, assenza di muso sporgente e di grandi canini, andatura (forse) eretta. Scimmia od ominide. Questo studio non scioglie il dubbio sul primate misterioso, ma semmai l’infittisce. Pare non fosse un arrampicatore che viveva sugli alberi, ma nemmeno che camminasse completamente eretto, bensì con un’andatura forse intermedia fra quella umana e quella delle grandi scimmie, è quanto si desume dal riesame del suo scheletro.

“L’uomo deriva dagli ominidi, gli ominidi vivevano in Africa, quindi l’origine dell’uomo è africana”. L’Out of Africa si fonda in definitiva su questo sillogismo, ma un po’ di conoscenza della logica, quella che Aristotele insegnava già due millenni e mezzo or sono, dovrebbe far capire che la validità di un sillogismo dipende dalla validità delle premesse. Sulla prima si possono avanzare dubbi, la seconda è chiaramente falsa, come dimostrano non solo l’oreopiteco ma anche il Graecopithecus freibergi, “El Greco”, le impronte cretesi di 5,7 milioni di anni fa, i denti ominidi vecchi di 9 milioni di anni ritrovati in Germania.

Il 30 dicembre “Discover Magazine” ha pubblicato un articolo a firma di Nathaniel Sharping dal titolo (che vi traduco in italiano): Gli antichi uomini erano più complessi di quanto pensiamo. Questa complessità non si riferisce all’anatomia dei nostri remoti predecessori, ma alla complessità delle relazioni filogenetiche all’interno del genere homo e in particolare all’uomo di Denisova. Questo antico uomo che ha popolato l’Asia centrale e orientale alcune decine di migliaia di anni fa e le cui tracce sono state scoperte soltanto nel 2008 nella caverna russa nella regione dell’Altai che gli ha dato il nome, sembra essere stato più polimorfo e con popolazioni notevolmente differenziate rispetto a quanto si pensasse all’inizio, lo dimostrano i ritovamenti avvenuti in Indonesia e in Papua-Nuova Guinea che presentano significative differenze morfologiche rispetto al tipo dell’Altai (aggiungo l’ipotesi che anche i resti ritrovati nelle Filippine e battezzati Homo luzonensis rientrino in realtà nella “famiglia” denisoviana).

Come se tutto ciò non bastasse, l’articolo ci parla del rinvenimento di nuovi resti denisoviani avvenuto nel 2019 in Tibet (che per disgrazia è oggi politicamente cinese) nella caverna di Baishiya.

Noi sappiamo che, così come negli europei e negli asiatici attuali è presente una percentuale di DNA neanderthaliano pari a una percentuale variabile dal 2 al 4% del nostro genoma, e negli asiatici la percentuale di DNA denisoviano arriva al 6% (ma in alcuni gruppi, in particolare nei Melanesiani che appaiono geneticamente molto distinti da qualsiasi altra popolazione umana attuale, essa potrebbe essere molto più alta),. Gli uni e gli altri si sono ripetutamente incrociati fra di loro e con gli uomini “anatomicamente moderni” di tipo gromagnoide, dando luogo a una discendenza fertile, noi.

Discendenza fertile significa appartenenza a una medesima specie. Come se non bastasse, gli uni e gli altri erano capaci di manifestazioni artistiche. Vi ho già parlato della statuina raffigurante un leone delle caverne incisa in avorio di mammut ritrovata proprio nella grotta di Denisova, e per quanto riguarda i neanderthaliani, vedete l’aricolo di “Sputniknews” di cui vi parlo più sotto.

A questo punto, che senso ha ancora voler parlare di un’origine africana della nostra specie, se all’epoca della supposta uscita dall’Africa l’Eurasia era già popolata da uomini chiaramente sapiens da decine di migliaia di anni? Nessuno, se non quello di voler imporre a tutti i costi un’ortodossia “scientifica” chiaramente contraddetta dai fatti.

Veniamo finalmente a parlare del 2020, della prima decade di gennaio, sempre nella speranza che non saltino ancora fuori notizie importanti relative all’ “interminabile” 2019 che abbiamo sin qui trascurato.

Il 6 gennaio “Sputniknews” (it.sputyniknews.com) ha pubblicato un articolo sulle pitture rupestri recentemente ritrovate in Indonesia nella grotta Sipong 4 dell’isola di Sulawesi. Queste pitture che raffigurano scene di caccia a opera di “lupi mannari” (probabilmente uomini mascherati da animali) risalirebbero a un periodo compreso fra 44 e 35.000 anni fa, probabilmente troppo antiche per essere attribuite a homo sapiens anatomicamente moderni, cosa che invece si può attribuire con facilità a quelle rinvenute recentemente in Croazia e datate tra i 17 e i 13.000 anni or sono, ma il dato davvero sorprendente riguarda le grotte spagnole le cui pitture si è scoperto poco tempo fa, sarebbero antiche di ben 65.000 anni e sarebbero quindi opera di uomini di Neanderthal.

Questi antichi uomini di cui ritroviamo le tracce nel nostro DNA, perché si sono ripetutamente accoppiati con i Cro Magnon dando luogo a una discendenza fertile (e basterebbe già questo a escludere che si tratti di specie diverse), che si continuano a raffigurare falsamente come bruti scimmieschi, erano capaci di rappresentazioni artistiche e uomini non molto diversi da noi. Perché è così difficile ammetterlo? Perché se un homo che possiamo tranquillamente considerare sapiens popolava l’Eurasia già da qualche centinaio di migliaia di anni, allora la sua presunta uscita dall’Africa attorno ai 50.000 anni fa, va definitivamente relegata nel regno delle favole.

Tutto, ma proprio tutto quello che hai studiato sull’evoluzione di “homo sapiens” è falso, nuove scoperte lo confermano”.

Questa lapidaria affermazione non si trova in un sito “nostro”, dove certo non desterebbe meraviglia, vista la necessità di opporsi alla vulgata, al dogma africano-centrico, ma in un articolo, di cui costituisce il titolo, apparso l’8 gennaio su “Business Insider Italia”, e ancora più sorprendente è la firma dell’autore, Luigi Bignami, uno dei più noti divulgatori scientifici italiani. Che qualcosa all’interno dell’establishment culturale finora concorde nel sostenere la menzogna Out-of-africana, e – ovviamente – in rapporto molto stretto con il potere mondialista, si stia finalmente rompendo?

Gli argomenti riportati ci sono da tempo noti, ma fa un certo effetto vederli sostenuti da una delle firme più autorevoli della divulgazione scientifica italiana.

Secondo Bignami, l’mmagine “classica” delle nostre origini come di un cammino lineare, un’evoluzione che va dagli ominidi primitivi australopitechi a homo e da un homo primitivo fino ai sapiens, noi, è alla prova dei fatti, delle scoperte più recenti, insostenibile. Homo è più antico di quanto non si pensi, e ha a lungo convissuto con forme ominidi dalle quali non può, logicamente, essere derivato. Allo stesso modo, uomini anatomicamente moderni hanno a lungo convissuto con umani “non sapiens” che non possono quindi essere stati i loro antenati.

Bignami cita il ritrovamento marocchino di Jebel Irhoud. Si tratta sempre di Africa, ma molto distante da quell’orizzonte subsahariano, dove secondo la versione ufficiale avrebbe avuto origine la nostra specie, e quello ancor più significativo di Apidima in Grecia, un teschio di homo anatomicamente moderno risalente a 210.000 anni fa, più le prove genetiche del fatto che i nostri antenati si sono ripetutamente incrociati con neanderthaliani e denisoviani. Non sposa nettamente una tesi alternativa, ma si limita a constatare che la nostra origine è ridiventata un grande punto interrogativo:

“Chi è dunque il sapiens? C’è ancora molto da capire, forse molto più di quel che pensiamo”.

Forse aspettarsi che abbracciasse apertamente la tesi “boreale” sarebbe stato un po’ troppo. Per ora accontentiamoci di questa vistosa crepa nella concezione imposta dall’establishment scientifico.

C’è da dire che Bignami è stato recentemente licenziato da Mediaset. Che abbia voluto togliersi un sasso dalla scarpa rivelando che quella che viene presentata al pubblico come la “verità scientifica” sulle nostre origini è in realtà una costruzione molto discutibile?

Le crepe nella concezione “scientificamente” ortodossa e “politicamente corretta” delle nostre origini, sono sempre più visibili. Dobbiamo essere consapevoli che in realtà in questa visione africano-centrica di veramente scientifico non c’è nulla, che si tratta soltanto di ideologia, o meglio impostura finalizzata a minare la nostra resistenza alla sostituzione etnica.

NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra Beyond the North Wind di Christopher McIntosh e Hilmar Orn Hilmarsson, al centro il divulgatore scientifico Luigi Bignami, a destra resti fossili dell’oreopiteco, “primate misterioso”, scimmia o ominide? Ma se si tratta di un ominide, perché dovremmo discendere da quelli africani e non da lui?

 

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