12 Aprile 2024
Punte di Freccia

La bellezza della vita

Che il filosofo Nietzsche mi sia familiare, tanto da definirlo un amico, è cosa nota ai lettori di Ereticamente, anche quelli più distratti e disattenti. Da professore di un modesto liceo di periferia della capitale – storico per aver visto formarsi una colonna di B.R. – conducevo gli alunni della classe terza alla comprensione della filosofia dandone una lettura poco o nulla ortodossa. Ti guardi allo specchio – dicevo loro – e ti trovi con i brufoli i capelli ribelli al pettine sgraziato e anatroccolo inconsapevole di divenire in futuro un cigno candido e maestoso (sarà vera la favola di Andersen?) e, allora, ti fai assillare da domande sul senso dell’esistenza di come e perché di qui ed ora… ecco i filosofi ti vengono incontro, illusi e menzogneri, eppure una pacca sulle spalle dà conforto, scopri di non essere solo, né il primo né l’ultimo, che qualcuno ci ha provato ad afferrarti per i capelli a farti drizzare la schiena e guardare lontano. Lo so, evitate di essere saputelli e moralisti, lo so che il filosofare, la storia della filosofia richiede pretende propone altro ed alto, ma a sedici anni il mondo o si stringe fra le dita o lo si prende a calci in culo. Così filosofo serio è Nietzsche – anche questo mi è notorio – ma tanti dei suoi aforismi asciugano i brufoli danno piega ai capelli e avverti come le tue scapole possono consentirti, simili ad ali, al volo in spazi azzurri e immensi…

Eppure questo amico – ‘il più inquietante tra gli ospiti’ definiva il nichilismo e pensava a se stesso -, ancora prigioniero di quei linguaggi universali e necessari di cui la filosofia s’arroga l’esclusività, ha un concorrente specifico e superiore: la gran parte della letteratura russa e Dostoevskij in particolare. In questa stagione di esili scritture e sentimenti miti è un richiamo inascoltato (del resto Nietzsche vendette cinque copie del suo Zarathustra!), troppe pagine e troppi personaggi e troppi intrecci e troppo pesanti sono i volumi da tenere sul comodino… ma come sottrarsi alla ‘leggenda del grande Inquisitore’ (tanti anni fa Ugo Franzolin me ne fece dono in pubblicazione estrapolata da I fratelli Karamazov), che si solleva ben oltre la cupa scena della cella ove Torquemada e Gesù si affrontano, l’uno rivendicando il dovere di preservare l’ordine costituito e il secondo di rinnovare l’originario atto d’amore? Perché qui è ‘l’uomo in rivolta’ – eterno dramma quando ci si accorge che ogni orizzonte nasconde sbarre e chiavistelli -, simile a Titano che trema e vacilla e precipita nell’inane tentativo di scalare il cielo. Ciò che conta – sta qui forse la grandezza dello scrittore? – è abbandonare il mondo dei luoghi comuni, di una spartizione del bene e del male, quel vivere tipico del borghese per inoltrarsi in una sorta di terra di nessuno (per Dostoevskij tra l’inferno e il paradiso), rendersi Straniero, escluso come potevano sentirsi e volevano sentirsi gli gnostici. Allora egli si renderà conto come il suo volto è rivolto all’illusione umana, alla corruzione, al dolore, alla stupidità, alla estrema sconfitta, ma anche che queste altro non sono che ombre e che la sfida è scorgere dietro la loro trama l’abisso il vuoto il non-essere…

Penso alla lettura de I demoni (mia madre mi fece pervenire copia a Regina Coeli). Liberamente ispirato all’assassinio dello studente Ivan Ivanov (1869), accusato di tradimento e attirato in un parco e ammazzato a colpi di pietra. Mandante era Sergej Necaev, fuggito in Svizzera, carpita la fiducia di Michail Bakunin, con cui scrive Il catechismo della rivoluzione (edito da Adelphi, mi sembra, negli anni Ottanta). Per esserne poi sconfessato. Un rivoluzionario è animato da una sola passione, ‘distruggere tutto anche se stesso’, dalla passione della distruzione (che, secondo Bakunin, porta in sé il principio della futura edificazione). Insomma lo scrittore ha una libertà in più, quella di trasformare l’apparente realtà in uno scavo narrativo dell’animo umano, qualunque sia l’esito e il senso. Per Dostoevskij è la figura del Cristo ad assurgere a confine contro il ‘tutto sarebbe permesso’ –der heiliger Anarchist come Nietzsche lo definisce. Si può obiettare… Qual’è la massima opportunità nelle infinite possibilità dell’agire umano? Fra le letture furiose e arruffate del ’68 e dintorni (non s’urlava nelle piazze lo slogan ‘vietato vietare’? Prima che subentrassero quelli che si autoproclamarono ‘i gesuiti della rivoluzione’ con le briglie lo staffile e le liste di proscrizione. I moralisti che si dilettano ad imporre agli altri mentre, sempre Nietzsche docet, la morale s’impone solo a se stessi…), i classici e gli eretici di ieri e di oggi, rossi rossoneri neri, fra cui – anche allora tenuto al margine rispetto alle icone inossidabili (una patina di ruggine s’è stesa anche su di loro dopo l’’89) – Lev Trotzkij (l’ebreo Leiba Bronstein, rientrato in Russia dagli Stati Uniti nel 1917 con due valigie piene di dollari per consentire a Lenin di andare al potere pochi mesi dopo e finito a picconate a Coyoacàn in Messico nel 1940). Rammento come scrivesse ‘se la vita umana è considerata sacra, bisogna rinunciare alla rivoluzione’. E’ far da sponda, magari rifiutandola, alla visione di Dostoevskij? Già Robespierre ideò riti alla Dea Ragione, di cui – suppongo – si considerasse tacitamente il Sommo Sacerdote (un mistico, un asceta che soffriva di stomaco, non beveva non scopava dormiva in un lettuccio monacale).

Ogni rivoluzione abbisogna di ‘lacrime e sangue’, anche quando – è il caso del Fascismo e del Nazismo – la conquista del potere fu sostanzialmente incruenta. Certo gli squadristi caduti negli agguati e negli scontri con i ‘sovversivi’; certo Horst Wessel che diede il suo nome all’inno nazionalsocialista… E anche qui il culto degli eroi e dei martiri, la chiamata del ‘Presente!’, la cappella al Verano dei caduti della Rivoluzione ormai in stato d’abbandono, le pagine de I sette colori di Brasillach durante la visita in Germania, a Norimberga e ad un campo nei boschi della Hitlerjugend. (‘Su una stele di legno, sono iscritti i nomi di centinaia di fanciulli del partito caduti sotto i proiettili marxisti. Una fiamma arde, un fanciullo monta la guardia. Salutiamo in silenzio i giovani morti’). C’è, dunque, una sacralità riconosciuta in colui che si batte e muore per l’Idea, che viene onorata e portata ad esempio, trasmessa alle nuove generazioni, a contraddire le parole di Trotzkij e le parole di Trotzkij sono troppo prigioniere dell’eredità monoteista (l’uomo quale immagine e somiglianza con il Dio)? E’ che sul termine sacro poco ci s’intende… La vita è un dono – e va rispettata e protetta essendo Dio colui che l’ha elargita (infatti si usa dire ‘rendere l’anima’, eco di quell’idea platonica del corpo carceriere imperfetto e da abbandonare alla finitudine) – e un dono non si rifiuta non si disprezza non si getta via. (Discorsi teologici , mi rendo conto, e che poco mi si addicono, simili ad aspri sentieri troppo onerosi in questi giorni di calura). Eppure, sempre trattasi di dono, e un dono può essere gradito riciclato messo da parte, in qualche polveroso scatolone in solaio, utilizzato in vario modo rotto… Se, poi, trattasi di una condanna, chiedo la massima delle pene o l’ergastolo o la morte – vivere in eterno, capace di stupirmi ogni mattina al risveglio, oppure affrontare a passo sicuro alta la testa il plotone d’esecuzione la corda al collo o la lama affilata del boia…

Insomma, ritornando a Dostoevskij, a I fratelli Karamazov, potrei sottoscrivere questa affermazione di Ivan: ‘ Non è Dio che non accetto, Alioscia – solo che molto rispettosamente gli restituisco il biglietto d’ingresso’. Trascurate queste poche frasi, tanto simili a balbettio di bambino sperduto, di studente con penna e foglio su banco di scuola, costretto a stilare un tema di cui ignora il significato. E andate oltre… Dostoevskij era stato posto di fronte al plotone d’esecuzione in piazza Semyonosky, fucilazione simulata, ma aveva visto le bocche di fuoco avide del suo sangue, forse si era pisciato nei pantaloni, mentre la bocca si inaridiva e spasmi allo stomaco lo attanagliavano… tutto, in pochi istanti, apprese intorno al valore della vita (da Delitto e Castigo così riflette Raskolmikof: ‘…qualcuno condannato a morte dice, o pensa un’ora prima di morire, che se dovesse vivere su un’alta roccia, su una sporgenza così stretta da avere soltanto il posto per starci, e l’oceano, eterna oscurità, eterna solitudine, eterna tempesta intorno a sé; se egli dovesse rimanere su un quadrato di jarda per tutta la vita, mille anni, l’eternità, sarebbe meglio vivere così che morire subito. Soltanto vivere, vivere e vivere. La vita, qualsiasi essa sia…). Ed io sono tentato a pensare come lui… Trotzkji il valore sacro della vita la negazione d’ogni rivoluzione possibile. O l’uno o l’altra; l’un contro l’altra armati.

Ogni rivoluzione finisce per torcere intorno all’uomo la catena che intendeva spezzare. Il Terrore in Francia; Stalin in Russia… Illusione inganno impotenza oppure lasciare che quella tigre, nascosta in ciascuno di noi, come Nietzsche aveva preannunciato prima di Freud, prenda il sopravvento e faccia scempio dentro e fuori di noi (ricordate lo straordinario monologo di Marlon Brando in Apocalypse now?). Pretesa di eterno contro il divenire utopico di uomini e idee in cammino. Già, ma un universo a cui si nega l’utopia è il confine sbarrato da sbarre e chiavistelli – è un bel sogno morto con il trillo della sveglia.

E, allora, abbandoniamo i luoghi sacri, ove regnano gli dei e la noia, l’indifferenza eterea, e sacro sia il nostro furore la lancia lo scudo le idee i sogni; guardiamo la morte e la vita le cose che amiamo in nome di quelle che vorremmo realizzare; sacro sia il nostro esistere quando ci leviamo in piedi e urliamo il grido di ‘Rivolta!’… Allora – e solo allora – le contraddizioni si faranno uno con la nostra carne il sangue le ossa.

10 Comments

  • f.dd91 7 Luglio 2015

    Dostoevskij, nel magma caleidoscopico dei suoi film mentali, non capisce una cosa molto più semplice.
    Il problema non è se per il bene superiore siamo disposti a sacrificare delle vite (come fa Raskolnikov o come Ivan Karamazov nel capitolo “Ribellione” sostiene che non bisogna fare), il problema è:
    -se si sacrificano delle vite davvero per un bene superiore o se, come fa Raskolnikov, per dimostrare a sé stesso narcisisticamente di essere in grado di vincere la compassione e più in generale gli istinti di repulsione alla violenza;
    -se il bene superiore che si intende raggiungere è realistico (e non le sciocche infatuazioni di Raskolnikov) e se il sacrificio di un essere umano ha effettivamente un rapporto causale con il raggiungimento del bene superiore.

    Non penso che i romanzi di Dostoevskij avrebbero avuto il successo che hanno avuto se, molto più realisticamente, avessero rappresentato il dilemma di salvare degli ostaggi da terroristi o dare loro del denaro (potenziando l’organizzazione terroristica).

    Certamente, con i suoi romanzi ha sdoganato l’emotivismo ed il buonismo, cieco di fronte al bene superiore, che sta distruggendo la mostra civiltà.

  • f.dd91 7 Luglio 2015

    Dostoevskij, nel magma caleidoscopico dei suoi film mentali, non capisce una cosa molto più semplice.
    Il problema non è se per il bene superiore siamo disposti a sacrificare delle vite (come fa Raskolnikov o come Ivan Karamazov nel capitolo “Ribellione” sostiene che non bisogna fare), il problema è:
    -se si sacrificano delle vite davvero per un bene superiore o se, come fa Raskolnikov, per dimostrare a sé stesso narcisisticamente di essere in grado di vincere la compassione e più in generale gli istinti di repulsione alla violenza;
    -se il bene superiore che si intende raggiungere è realistico (e non le sciocche infatuazioni di Raskolnikov) e se il sacrificio di un essere umano ha effettivamente un rapporto causale con il raggiungimento del bene superiore.

    Non penso che i romanzi di Dostoevskij avrebbero avuto il successo che hanno avuto se, molto più realisticamente, avessero rappresentato il dilemma di salvare degli ostaggi da terroristi o dare loro del denaro (potenziando l’organizzazione terroristica).

    Certamente, con i suoi romanzi ha sdoganato l’emotivismo ed il buonismo, cieco di fronte al bene superiore, che sta distruggendo la mostra civiltà.

  • mario michele merlino 7 Luglio 2015

    non so se a dostoevskij si possa addebitare la china rovinosa che le cose hanno assunto nel corso del XX secolo… in ogni tormenta si generano forze a noi sconosciute e, sovente, salvifiche. io affermo solo che nello scrittore russo abbiamo scorto l’abisso… e nietzsche ci rammenta come solo le aquile possono guardarlo e non essere colti dalla vertigine.

  • mario michele merlino 7 Luglio 2015

    non so se a dostoevskij si possa addebitare la china rovinosa che le cose hanno assunto nel corso del XX secolo… in ogni tormenta si generano forze a noi sconosciute e, sovente, salvifiche. io affermo solo che nello scrittore russo abbiamo scorto l’abisso… e nietzsche ci rammenta come solo le aquile possono guardarlo e non essere colti dalla vertigine.

  • f.dd91 8 Luglio 2015

    In Dostoevskij, sebbene le notevoli intuizioni dell’autore, alla fine non si trova affatto il filo di Arianna per uscire da questo labirinto di allucinazioni. La pseudo-soluzione sarebbe abbandonarsi alla mano invisibile di Dio, agisci avendo fede in Dio che non ti puoi sbagliare (tuttavia la ragione mi suggerisce che i deliri di potenza di Raskolnikov e la spiritualità epilettica del cristianesimo restano sulla stessa lunghezza d’onda di emotivismo).

    Quello che vedo in Nietzsche non è una sfiducia alle capacità analitiche dell’uomo (sfiducia invece abbastanza palese in Dostoevskij), quanto più sfiducia nelle escatologie e nelle vane speculazioni.
    Non posso fare a meno di notare una certa simpatia di Nietzsche per un intelletto arguto ed intuitivo che penetri la realtà, intelletto raffinato ulteriormente da Evola.
    Se si comincerà ad interpretare questo filone Nietzsche-Evola come una vera e propria maestranza corporativa che affila le tecniche dell’analisi e dell’azione arti di forgiare spade, a mio avviso si potrà arrivare alla rinascita della Destra.

  • f.dd91 8 Luglio 2015

    In Dostoevskij, sebbene le notevoli intuizioni dell’autore, alla fine non si trova affatto il filo di Arianna per uscire da questo labirinto di allucinazioni. La pseudo-soluzione sarebbe abbandonarsi alla mano invisibile di Dio, agisci avendo fede in Dio che non ti puoi sbagliare (tuttavia la ragione mi suggerisce che i deliri di potenza di Raskolnikov e la spiritualità epilettica del cristianesimo restano sulla stessa lunghezza d’onda di emotivismo).

    Quello che vedo in Nietzsche non è una sfiducia alle capacità analitiche dell’uomo (sfiducia invece abbastanza palese in Dostoevskij), quanto più sfiducia nelle escatologie e nelle vane speculazioni.
    Non posso fare a meno di notare una certa simpatia di Nietzsche per un intelletto arguto ed intuitivo che penetri la realtà, intelletto raffinato ulteriormente da Evola.
    Se si comincerà ad interpretare questo filone Nietzsche-Evola come una vera e propria maestranza corporativa che affila le tecniche dell’analisi e dell’azione arti di forgiare spade, a mio avviso si potrà arrivare alla rinascita della Destra.

  • Miranda 8 Luglio 2015

    Felice di ritrovarla signor Merlino,(il mio iPad si rifiutava di aprire Ereticamente)e’ un grande piacere leggere i suoi pensieri e condividere il Professore,sempre caro al mio cuore.Grazie.

  • Miranda 8 Luglio 2015

    Felice di ritrovarla signor Merlino,(il mio iPad si rifiutava di aprire Ereticamente)e’ un grande piacere leggere i suoi pensieri e condividere il Professore,sempre caro al mio cuore.Grazie.

  • mario michele merlino 9 Luglio 2015

    grazie a te e sempre il mio augurio…

  • mario michele merlino 9 Luglio 2015

    grazie a te e sempre il mio augurio…

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