14 Maggio 2024
Appunti di Storia

1922: l’anno primo dell’Era Fascista (ottavo capitolo)

 

13. La vigilia

 

A Milano, il 13 e 14 agosto si riunisce il Comitato Centrale del PNF. Assise particolarmente importante, incentrata sul contrasto tra “legalitari” e “rivoluzionari”, che poi altro non è che lo specchio di una differenza di opinioni sul modo di impadronirsi del potere.

La prospettiva  della “Marcia”, che, per dirla con Bottai  “prima di essere un proposito concreto fu una formula politica e propagandistica che andò insinuandosi in tutto l’apparato fascista delle province” è, comunque, quella dominante.

Punto fermo nella discussione è che a tempi brevi, anzi brevissimi, il fascismo debba mutarsi da Partito di lotta in Partito di Governo; dubbi rimangono solo sui modi di questa trasformazione, e ben li sintetizza De Felice:

“Andare al potere i fascisti lo volevano, fossero essi “legalitari” o “insurrezionali”, ma soprattutto lo dovevano. Gli ultimi avvenimenti ne avevano creato le premesse; perché queste si concretizzassero, occorreva però del tempo, ed era proprio il tempo che mancava al fascismo”

E’ per questo che il Comitato Centrale, se da un lato chiede, con proprio Ordine del Giorno, lo scioglimento della Camera e nuove elezioni, dall’altro affida ad un Comando Supremo la responsabilità di eventuali iniziative militari.

Sono chiamati a farne parte Balbo, De Vecchi e il neo-iscritto De Bono. E’ evidente l’intento – con l’inserimento di due monarchici “doc” – di rassicurare le Istituzioni sul vero portato della volontà rivoluzionaria del fascismo in marcia di avvicinamento ai palazzi del potere.

Bianchi, il 24 agosto, con una propria circolare, allo scopo di disciplinare in qualche modo l’ondata di nuove adesioni, e di facilitare la militarizzazione del Partito in corso, ribadisce la necessità di selezionare le domande di iscrizione, che rischiano di mutare la natura stessa del movimento.

Proseguono, nel contempo, raduni e convegni che, anche se di vario carattere e su temi importanti, hanno, però,  soprattutto lo scopo di rodare l’organizzazione e la capacità di mobilitazione.

E’ anche una corsa contro il tempo: osservatori come Vilfredo Pareto lo intuiscono subito:

“Quel volpone di Giolitti sta preparando la disfatta del fascismo. Credo che se i fascisti si lasciano addomesticare, sono finiti… La moltitudine che ora abbandona i socialisti, abbandonerà i fascisti, perché questi non potranno dare ad essa da rosicchiare la luna. Occorre quindi fare la rivoluzione prima dell’abbandono, perché altrimenti è festa finita”

Il 17 settembre, a Torre Pelice, De Bono e De Vecchi  elaborano il nuovo Regolamento della Milizia, destinato a sostituire il vecchio, preparato da Balbo, Perrone Compagni e Gandolfo, in gennaio, a Oneglia. Seguiranno poi le “Istruzioni per l’organizzazione e il funzionamento delle Legioni”, pubblicate sul Popolo d’Italia del 3 e 12 ottobre.

La trasformazione in corso del Partito, con un grosso incremento di Congressi, inaugurazioni di Sezioni, costituzioni e ricostituzioni di fasci, soprattutto nel Mezzogiorno, che per certi versi è una forma di burocratizzazione strisciante dopo lo spontaneismo delle squadre, mira soprattutto ad eliminare, imbrigliandola, ogni forma di indisciplina:

“Alla fine, azione rivoluzionaria e azione politica concorsero entrambe alla realizzazione del colpo di Stato, ma non è certo più un mistero oggi, che, pur sostenendosi ed integrandosi vicendevolmente, delle due azioni quella che fu veramente determinate del successo fu quella politica, e – al limite – si potrebbe addirittura dire che quella rivoluzionaria più che contro lo Stato agì contro  il fascismo più intransigente e rivoluzionario, soddisfacendolo con l’apparenza di una rivoluzione che non ci fu”

Mussolini è l’unico che continua a considerarsi al di fuori ed al di sopra della nuova struttura militaristica che sta prendendo piede, e che pure lui ha voluto perché giova al suo disegno politico di controllo del Partito, per evitare “sorprese” come nell’estate del ’21.

E’ lui infatti che, con una di quelle decisioni improvvise che non gli sono nuove, d’accordo con Giunta, ordina l’offensiva su Trento e Bolzano, alla fine di settembre, all’insaputa dello stesso Comando Generale della Milizia.

E’ ancora lui che il 16 ottobre, allo scopo di garantirsi la neutralità di D’Annunzio, impone la firma del patto tra il PNF e la Federazione Marinara di Giulietti, anche col rischio di lasciare delusi gli squadristi protagonisti della battaglia di agosto al porto di Genova.

Nell’insieme, l’azione fascista è ancora altalenante: il 29 settembre la Direzione del Partito, dopo una relazione di Balbo, sposta ad ottobre l’azione “decisiva” su Parma. Lo stesso futuro quadrumviro non è, però, molto convinto:

“Osservo come tutti gli altri problemi secondari del Partito, che una volta ci accendevano di sacro fuoco, oggi si interessino mediocremente. Più che mai ho la convinzione che qualche cosa che supera ogni suggestione su obiettivi parziali stia maturando. In tutti noi è la certezza che il movimento insurrezionale per la conquista integrale del potere abbia la prevalenza. Dio lo voglia!”

Il 1° ottobre, Giunta, De Stefani e Starace occupano la scuola Elisabetta di Bolzano che ribattezzano Regina Elena e consegnano ai bambini italiani. Il giorno dopo, con un colpo di mano, si impadroniscono del Municipio cittadino, per poi passare alla sede dell’Amministrazione Provinciale  a Trento, fino ad ottenere, il 5, le dimissioni dello “Sgovernatore” Cedraro, contro il quale, accusato di non tutelare i diritti degli italiani, l’azione è principalmente diretta.

Nello stesso periodo, il 9 ottobre, gli squadristi, guidati da Igliori e Calza Bini espugnano “manu militari” Civitavecchia, non senza aver prima posto un vero ultimatum di resa alle forti organizzazioni social-comuniste locali.

Una precedente azione sulla cittadina, organizzata il 4 di agosto dai fascisti maremmani, è fallita, e si impone un nuovo tentativo, per assicurare agli uomini di Mussolini quell’importante snodo ferroviario e stradale, in previsione della marcia su Roma.

Gli squadristi tornano alla ribalta anche a Cremona, con l’espulsione definitiva dalla città di Miglioli, il 22 settembre, e confermano il loro impegno “sociale” a Terni con la mobilitazione a favore degli operai messi alle strette dalla morsa padronale e la gestione in prima persona del contenzioso con le Acciaierie.

Anche a Siena squadre fasciste si muovono in difesa dei più deboli ed occupano tenute male lavorate a San Gimignano, Poggibonsi, Casole, Serre di Rapolano. L’iniziativa provoca la reazione dei socialisti “defraudati” della loro tradizionale funzione e dei liberali che accusano il movimento senese di fare del bolscevismo.

Interviene lo stesso Mussolini da Roma con telegrammi imperiosi a Chiurco, ordinandogli di chiarire la situazione onde evitare speculazioni.

E il chiarimento infatti avviene, senza nessuna marcia indietro. Un articolo sul Popolo d’Italia  giustifica i mezzi adoperati in nome del fine esclusivamente e puramente d’interesse nazionale: dare incremento all’agricoltura locale ed eliminare la disoccupazione.

L’obiettivo ultimo è quello di sempre: la rivoluzione, anche se l’idea che gli squadristi ne hanno non è sempre coincidente con quella del Capo:

“Ma sapevano quei fascisti quanto fosse diversa l’idea che essi si facevano della rivoluzione da quella che aveva in mente Mussolini? La marcia su Roma va bene, ma poi?”

 

Quel che pensa veramente, il Capo lo dirà retrospettivamente nel suo “Il tempo del bastone e della carota”:

“Che cosa fu la marcia su Roma? Una semplice crisi di Governo, un normale cambiamento di Ministeri? No, fu qualcosa di più. Fu un’insurrezione? Sì. Durata, con varie alternative, circa due anni. Sboccò questa insurrezione in una rivoluzione? No… Invece di passare davanti al palazzo del Quirinale, sarebbe stato meglio penetrarvi dentro. Non vi si pensò, perché in quel momento tale proposito sarebbe apparso a chiunque inattuale ed assurdo”

Per ora sono ancora gli uomini di Renato Ricci, cavatori e contadini, che guadagnano consensi al fascismo quando,  a San Terenzio, nel golfo di la Spezia, in occasione dello scoppio della polveriera del forte Falconara, intervengono con forti gruppi in aiuto alla popolazione civile, prodigandosi senza sosta  e meritandosi  il riconoscimento delle stesse Autorità.

La lunga battaglia fascista paga anche in termini elettorali: le amministrative che si svolgono nella prima quindicina di ottobre in vari centri, vedono il successo delle liste mussoliniane a Massa, a Novara e in sessanta Comuni su sessantadue del Polesine.

Il dato è confortante, anche se tutto ormai lascia capire che non è più tempo di elezioni. A Udine, il 20 settembre Mussolini tiene il primo dei quattro “discorsi della vigilia”; seguirà il 24 l’intervento al raduno di Cremona, e il 4 ottobre quello milanese di fronte agli squadristi della “Sciesa”.

Infine a Napoli, il 24, il futuro Capo del Governo pronuncerà il suo ultimo discorso da direttore del Popolo d’Italia, capo riconosciuto – anche se non sempre e non da tutti – di un movimento politico ancora dalle incerte e tempestose vicende da definire.

 

14. La marcia

 

La marcia del 28 ottobre viene definitivamente decisa nel pomeriggio del 16, nel saloncino del direttorio del fascio, a Milano, in via S Marco 16.

Sono presenti: Mussolini, De Bono, Bianchi, Balbo, Igliori, e i Generali Fara e Ceccherini (questi ultimi due, in verità, non molto graditi da De Vecchi e De Bono, per la loro maggior fama “militare” nel Paese).

Nel corso della riunione si profila un contrasto tra l’elemento militare, favorevole a procrastinare tutto di un mese e quello politico, che, per bocca di Balbo e Bianchi ritiene secondari i problemi organizzativi delle squadre.

Subito dopo la conclusione del convegno, Mussolini si sfogherà con Cesare Rossi:

“Bisogna bruciare le tappe. Non lo volevano capire quelli là…Ma ho puntato i piedi. Entro questo mese bisogna che tutti i preparativi siano ultimati. Dicevano che mancavano i bottoni alle uose…Capsici?… Credono di dover organizzare una parata d’onore. Dicono che non son pronte le divise. E non capiscono che, se passa questo momento favorevole, è finita per noi” 

 

Alla fine prevale la linea politica, e resta in sospeso solo la decisione sul giorno preciso, demandata a dopo lo svolgimento del già programmato Convegno di Napoli. Si stabilisce, comunque, che all’inizio dell’azione, tutti i poteri passino nelle mani del Quadrumvirato composto da Balbo, Bianchi, De Vecchi e De Bono, con Capo di Stato Maggiore Dino Grandi.

I concentramenti degli uomini vengono fissati in Santa Marinella, Monterotondo e Tivoli. A Perugia avrà sede il Comando Militare, e su Foligno convergeranno le colonne di riserva. All’armamento, oltre che con gli assalti alle caserme, si provvederà con prelevamenti forzati dai grandi depositi d’armi esistenti nel Paese, come quello di Terni.

La successiva riunione del Quadrumvirato, a Bordighera il 18, designa Perrone Compagni, assistito dal generale Ceccherini, quale comandante della colonna di Santa Marinella, Igliori, assistito dal Generale Fara, per quella di Monterotondo, e Bottai per quella di Tivoli.

Ulteriori precisazioni di dettaglio sono stabilite in occasione dell’incontro di Firenze il 20 ottobre, con la scelta dei responsabili delle 12 zone, e, infine,  con la visita-sopralluogo di Balbo ed Igliori a Perugia il 22.

Il giorno 24, alle ore 0,30, Mussolini giunge a Napoli, dove sono confluiti e continuano a confluire con treni speciali, colonne automobilistiche, e perfino a cavallo, circa 30.000 fascisti.

In mattinata, al Teatro San Carlo, il discorso “abilissimo”, col quale egli rassicura l’opinione pubblica moderata e monarchica, e, riduttivamente, quasi lasciando intravedere la possibilità di una soluzione “ministeriale”,  individua in Amendola Taddei ed Alessio la vera opposizione governativa alle richieste del fascismo.

Nel pomeriggio, la imponente sfilata dal campo sportivo a piazza San Ferdinando, per il saluto al Duce.

Ciò che accade nei due giorni successivi nel capoluogo campano, è pura coreografia, con i lavori del Congresso che si trasferiscono nella Sala Maddaloni, apparentemente nella massima normalità:

“Bisogna che la commedia del Congresso continui, per lo meno fino a tutto domani. Soltanto così potremo ingannare il Governo e l’opinione pubblica”

 

In realtà, già la sera del 24, all’hotel Vesuvio, si riuniscono Mussolini, i Quadrumviri e i Vice segretari del Partito, Starace, Bastianini e Teruzzi, per mettere a punto gli adempimenti finali in vista dell’insurrezione:

“Viene deciso che per venerdì 27 si ordini la mobilitazione occulta; quindi, il 28, scatto sugli obiettivi parziali, che sono Prefetture, Questure, stazioni ferroviarie, poste e telegrafi, stazioni radio, giornali e circoli antifascisti. Una volta conquistate le città, nello stesso giorno, si proceda al concentramento delle squadre sulle colonne designate per la marcia su Roma”.

 

Più in dettaglio, vengono fissate le cinque fasi dell’azione fascista fin dalle ore immediatamente seguenti, qualunque sia lo svolgimento della vicenda.

In caso positivo,  si parte dalla mobilitazione e occupazione degli uffici pubblici, si prosegue con il concentramento nelle tre località fissate, e si termina con l’entrata a Roma e  la presa di possesso dei Ministeri.

In caso negativo, invece, le milizie ripiegano sull’Italia centrale e si procede alla costituzione di un Governo fascista, a premessa di una ripresa dell’azione offensiva.

Il giorno 25 viene comunicato ai Comandanti di zona l’ordine di partenza immediata, e la direttiva per la mobilitazione occulta, mentre anche Mussolini lascia Napoli e, dopo una breve sosta a Roma, arriva a Milano, nella sede del Popolo d’Italia, guardata da squadristi guidati da Enzo Galbiati, per dirigere il convulso lavorio diplomatico-politico che si va intessendo nella Capitale.

Il 27 a sera il Quadrumvirato lancia il suo proclama “rivoluzionario”, preparato da Mussolini stesso, mentre in varie zone del Paese iniziano i concentramenti fascisti.

A Perugia e Pisa, dopo alcuni momenti di grande  tensione, i fascisti riescono ad occupare le Prefetture, mentre a Cremona 150 squadristi guidati da Farinacci in persona, si scontrano con la polizia, con parecchi morti.

Comunque, la sera del 28 gran parte dell’Italia del Nord è sotto il pieno controllo dei  fascisti “turbolenti ed allegri”.

Un po’ dovunque le squadre distruggono le residue Camere del Lavoro, occupano o stringono d’assedio i principali uffici pubblici, si insediano nelle scuole per farne alloggiamenti di fortuna, controllano le stazioni ferroviarie e assicurano anche servizio di ordine pubblico, come a Venezia, dove  è istituita una Corte Marziale per giudicare l’operato di provocatori colti sul fatto.

Seguire passo passo lo svolgersi degli avvenimenti richiederebbe, a questo punto, uno studio a parte, voluminoso quanto quello fatto fiora, che vada dalla mancata proclamazione dello stato d’assedio alla magistrale condotta politica di Mussolini. Vediamo di definire, piuttosto, prima di chiudere, alcuni punti essenziali:

–      è indubbio che la “marcia”, intesa come movimento di masse dalla periferia verso la Capitale (o, almeno i suoi dintorni) avviene. E questo comporta la soluzione di tutta una serie di problemi pratici, soprattutto logistici che sono tanto più gravosi se si considerano i tempi ristretti intercorrenti tra la messa a punto della macchina insurrezionale e la conclusione vittoriosa;

–      non va trascurato che, in contemporanea a questa fase di movimentazione, si verificano una serie molto estesa di episodi locali e sanguinosi, sempre vittoriosi, che – sia pure con il triste bilancio di una trentina di morti fascisti – testimoniano la forza “militare” delle squadre;

–      è impossibile fare un discorso “serio” sull’armamento delle milizie (che tante ironie ha provocato da parte di malevoli osservatori): la dirigenza fascista per prima è consapevole dei limiti, ma, proprio per questo, era stato predisposto un articolato piano di impossessamento di depositi ancora stracolmi di residuati bellici. Se ciò   avviene solo parzialmente (per fare solo qualche esempio: ad Alessandria sono “prelevati” 500 fucili, 10 mitragliatrici e camion pieni di munizioni, a Siena 1000 fucili con  relativo munizionamento, a Bologna 200 fucili e 20 mitragliatrici) è proprio per la rapidità con la quale sopravviene la vittoriosa  conclusione;

–      resta tutta da dimostrare la tesi che un’azione decisa dell’Esercito avrebbe avuto facilmente ragione dell’insurrezione. Se essa è anche credibile da un punto di vista “tecnico”, restano insoluti una serie di problemi e senza risposta tanti dubbi:

–        i Reparti militari avrebbero aperto il fuoco su quelli che spesso erano vecchi commilitoni del tempo di guerra e che si dicevano disposti a morire piuttosto che colpire i fratelli in divisa?

–        gli Ufficiali in comando avrebbero ordinato il fuoco su masse alla cui testa c’erano veri plotoni di decorati, superdecorati e mutilati, espressione vivente del comune sacrificio in trincea?

–        quale sarebbe stato il costo in vite umane, da ambedue le parti, posto che, dopo l’iniziale sorpresa e sbandamento, la truppa fascista avrebbe risposto al fuoco, anche con una certa perizia, data dalla presenza di forti aliquote di Arditi e trinceristi?

–        l’eventuale prolungamento di tale conflittualità, estesa a tutto il territori nazionale, quale conseguenze avrebbe avuto sull’opinione pubblica che continuava a chiedere e sperare solo pace?

Insomma, credo che, concludendo si possa dire, con popolare saggezza che “andò bene come andò”, e con il senno di poi che “non poteva che andare così”.

E’, quindi, ingenerosa  e solo “giornalistica” la definizione di Missiroli: “una marcia fata da una pattuglia di Arditi seguita da un esercito di vivandieri”.

Se alcuni avevano allora ed avranno negli anni a venire da rammaricarsi che la “rivoluzione” non ci fu, questi saranno  gli uomini delle squadre, quelli che – secondo la versione defeliciana – a Civitavecchia erano saliti sul treno con Mussolini diretto a Roma, per ricordargli di non “annacquare” i diritti della rivoluzione”.

Toscani (ma non solo), futuri “supertraditi” del fascismo, come ha scritto qualcuno, che già al 31 di ottobre  avevano capito che qualcosa non stava andando come doveva:

“Camminammo ancora a lungo, storditi dalla stanchezza, così che senza accorgercene ci trovammo in treno

“Ma come, e ‘un siamo ancora arrivati che ci mandano via? e senza fucilare nessuno? o che rivoluzione lì è? o un s’è vinto?”

“E se si era perso, ci avrebbero condito loro e ci avrebbero…”

“E ci sloggiano! e siamo troppo pericolosi per star quaggiue!”

Ma nessuno aveva più nemmeno la forza di bestemmiare. Mi sdraiai su un portabagagli di terza, che sedili e pavimento erano pieni zeppi di gente. Sotto i compagni, con voce afona commentavano le giornate

Solino smoccolava per lo scempio della sua divisa nuova, Bocca si domandava preoccupato se il suo principale lo avrebbe ripreso alla panetteria, dopo sei giorni di assenza. Altri ricordavano le famiglie, la propria vita, gli affari

Mi parve che Giovanni, nel frastuono, mi chiedesse se ci avrebbero concesso un appello straordinario per gli esami

Poi le voci ad una ad una si affievolirono, e nel vagone, zeppo di gente, rimase solo il monotono rullio del treno”

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