11 Aprile 2024
Julius Evola Tradizione

Julius Evola e il Cristianesimo – Daniele Bianchi (3^parte)

Da Roma pagana a Roma cristiana.

         Giunti a questo punto, resta ancora da domandarsi come sia stato possibile che una forma tradizionale di tipo lunare e religioso, originariamente indirizzata ad una civilizzazione semitica, sia stata eletta a sostituire la tradizione regale e solare di Roma. La domanda è più che legittima, dal momento che una forma tradizionale non può essere recepita in modo spiritualmente proficuo da una comunità alla quale non sia stata indirizzata, e sulle cui peculiari predisposizioni sia, per così dire, modellata. In virtù della generale confusione caratteristica della fine del ciclo, è possibile che ad un popolo venga imposta una tradizione estranea alla sua conformazione spirituale – com’è stato il caso della stessa diffusione del Cristianesimo in regioni del mondo non appartenenti alla sua giurisdizione tradizionale, inaugurata con l’espansione coloniale dell’età moderna.[1] Ma, quando ciò accade, tale tradizione devia generalmente in sincretismi o in eresie anti-tradizionali, mentre il fatto che il Cristianesimo abbia potuto fornire agli europei una forma tradizionale autentica e legittima (come riconosciuto dallo stesso Evola, per quanto riguarda la tradizione cristiana medioevale), dimostra che ciò non può essere avvenuto che per il suo essere stato rivelato precisamente a tale scopo, e perchè esso fosse la forma tradizionale meglio adeguata alla loro mentalità.

         Se teniamo conto dello sviluppo del pensiero occidentale, dalla spiritualità arya dell’Ellade arcaica (verosimilmente non dissimile dalle tradizione di civiltà come quella indù) sino alla nascita del pensiero filosofico, e da questa fino ai suoi sviluppi dell’età tardo-antica, possiamo osservare una generale e costante deriva intellettuale in senso razionalistico e sentimentale, con un peculiare sviluppo di un punto di vista morale estraneo all’originaria tradizione ario-occidentale. Questo indica che, ad un certo punto della loro storia, anche i popoli occidentali hanno seguito la china di un declino intellettuale non dissimile da quello che secoli prima era già occorso ai popoli semitici, e necessitante l’adozione di una forma tradizionale di tipo religioso. Se quindi gli occidentali divennero “spiritualmente semiti”, ciò non fu causato dal loro esser stati cristianizzati; al contrario, essi diventarono cristiani proprio perchè “spiritualmente semitizzati” e, lungi dall’essere dovuta ad una riemersione delle “vere” radici cristiane, la deriva del mondo moderno riprese in tutto il suo vigore proprio quando la civiltà occidentale si distaccò da esse. Del resto, la provvidenzialità della rivelazione cristiana all’interno del mondo occidentale appare evidente fin dalla sua collocazione temporale, dal momento che la nascita di Gesù coincise col passaggio di Roma dalla fase repubblicana della sua storia a quella dell’Impero (fondamento del potere temporale su cui verrà ordinata la futura civiltà medioevale), e dai fermenti di rinnovamento spirituale ad esso connessi, culminati con le aspettative palingenetiche del Puer vergiliano.[2]

         Secondo la tradizione, Roma era stata fondata nel 753 a.C. da bande di giovani guerrieri (männerbünde) appartenenti in larga parte all’ondata migratoria indoeuropea dei latino-falisci, discesa nella penisola italiana da una sede ancestrale nordica intorno al II millennio a.C.. Essi reclamavano un legame diretto con il padre Enea e con il centro spirituale precedentemente rappresentato dalla città di Troia,[3] e la loro spiritualità si esprimeva soprattutto nei termini di una pax deorum, in cui l’armonia e l’ordine cosmico erano garantiti dalla conformità della comunità umana ai princìpi divini, e il legame tra i patres ed i numina si configurava come un rapporto di interdipendenza (cioè una “religio” nel suo significato più primigenio) all’interno della quale i favori celesti venivano garantiti dall’osservanza dei riti e dei sacrifici, lasciando ben poco spazio per concezioni soteriologiche o devozionali.[4] Queste verranno introdotte nell’Urbe solo quando le sue legioni entreranno in contatto con le civiltà e le tradizioni dei popoli conquistati, affiancandosi così all’austera tradizione dei duri e severi pastori-guerrieri della Roma arcaica. L’espansione dell’impero, ed il meticciato etno-culturale che ne seguì, favorì uno stato di decadenza generale, ed il sorgere di una spiritualità eterogenea e dai tratti ambigui, in cui sia il patriziato che gli stessi imperatori, nonostante fossero i garanti ufficiali dei costumi dei padri e della pax deorum tradizionalmente intesa, vennero volentieri ad immergersi. Lo testimoniano, ad esempio, la devozione di Commodo per Iside e per Mithra, il culto di Serapide sotto la dinastia dei Severi, o la breve parabola di Eliogabalo, che fece collocare sul colle Palatino la pietra nera simbolo di El-Gabal – la divinità solare di Emesa di cui egli era gran sacerdote, e che cercò di imporre, identificandola col romano Sol invictus, quale massima divinità del pantheon imperiale.

         Il debole ed effeminato Eliogablo finirà trucidato dai suoi stessi pretoriani ad appena diciannove anni, ma l’avvento a Roma del dio-Sole (il cui culto venne nobilitato in chiave neoplatonica, e purificato dai suoi elementi più spurii) fu destinato ad una maggior fortuna e longevità. L’imperatore Aureliano, ad esempio, vide nel culto del Sol invictus uno strumento per agevolare quel processo di accentramento ideologico intorno al concetto sacrale della aeternitas Romae, mirante a creare, nell’ideale di un Summus Deus dai molti nomi, l’unità religiosa di un impero in preda a miriadi di forze centrifughe.[5] In seguito, si cominciò a guardare con sempre maggior favore all’alternativa costituita dal Cristianesimo, cioè al culto orientale che stava attirando a sé una fascia sempre più estesa della popolazione romana, e la cui gerarchia ecclesiastica costituiva un’esempio di solido apparato para-statale. Così, l’imperatore Costantino concesse alla Chiesa il definitivo statuto di fede tollerata, e la politica sempre più filo-cristiana dei suoi successori sfocerà, sotto il regno di Teodosio, nella proclamazione del Cristianesimo quale religione ufficiale dell’Impero. Da quel momento, il Paganesimo inizierà a subire una violenta repressione, fino a quando la chiusura della scuola di Atene del 529 d.C (fondata mille anni prima dallo stesso Platone) non ne sancirà simbolicamente il definitivo tramonto.

         Tuttavia, il processo di affermazione del Cristianesimo non era stato facile. La politica religiosa dell’Impero implicava un pronunciamento sui diversi culti diffusi entro i suoi confini da parte dell’imperatore e del senato, che ne stabilivano il carattere di religio licita o superstitio illicita. Già sotto Tiberio, la liceità del Cristianesimo era stata respinta dal Senato (sebbene, secondo la testimonianza di Tertulliano, ciò fosse stato contrario al parere dell’Imperatore)[6] e, se questo non significò un’automatica impossibilità a professare la fede cristiana, pose però le fondamenta per la giustificazione delle successive ostilità. Sono note, a tal proposito, la persecuzione neroniana del 64 d.C., in cui avrebbero trovato il martirio gli apostoli Pietro e Paolo, oppure la persecuzione di Decio del 250. Durante il breve regno di Gallieno (262-268) si assistette invece al riconoscimento del Cristianesimo come religio licita, ma sempre all’interno di un’ordinamento pagano delle istituzioni imperiali. Tuttavia le persecuzioni ripresero sotto gli imperatori Diocleziano e Galerio, il cui tremendo editto del 303 (che determinò la distruzione delle chiese, il rogo dei testi sacri e liturgici, l’obbligo del sacrificio pagano ai sacerdoti cristiani, e la sottoposizione ad infamia dei cristiani di ceto abbiente) può essere considerato il colpo di coda finale dell’anti-Cristianesimo di stato. Esso fu di breve durata, e non ebbe i medesimi effetti in ogni regione dell’Impero; nella Gallia e nella Britannia governate da Costanzo Cloro, ad esempio, l’editto galeriano rimase sostanzialmente lettera morta. Sarà col figlio di quest’ultimo, il già citato Costantino, che il periodo delle persecuzioni cesserà definitivamente, se si esclude la breve parentesi di restaurazione pagana dell’imperatore Giuliano che, tuttavia, è piuttosto da considerarsi come un utopistico tentativo di contrapposizione dell’antica tradizione all’ormai vittoriosa nuova fede (da cui l’appellativo di “apostata” attribuitogli dalla storiografia cristiana).

         Secondo René Guénon, il motivo per cui i cristiani furono perseguitati sarebbe stato unicamente da ricercare nel loro disconoscimento formale del culto dell’Imperatore, il quale – se fosse stato inteso dalle autorità romane nel suo autentico significato primitivo – non avrebbe in realtà potuto giustificare alcuna violenza.[7] Bisogna tuttavia ricordare che gli ebrei si rendevano partecipi dello stesso rifiuto pur senza alcuna ripercussione, e ciò per il rispetto che Roma nutriva nei confronti di ogni vetus religio, la cui venerabile antichità era fonte di legittimazione[8] e, all’occorrenza, di speciali riguardi. Il popolo giudaico era pertanto esentato dall’obbligo di sacrificare al genio dell’imperatore, e gli veniva solo richiesto di pregare per la sua persona.[9] Viceversa, il carattere di nova religio attribuito al Cristianesimo non gli permetteva di beneficiare di simili dispense e, dunque, il suo rifiuto di aderire al culto imperiale minava formalmente le fondamenta stesse della pax deorum, la qual cosa spiega secondo noi le reali motivazioni che si celavano dietro le persecuzioni anti-cristiane.[10] È in questo senso che va intesa l’accusa di “ateismo” loro rivolta, ed è per questo motivo che certi polemisti pagani attribuirono all’affermazione del Cristianesimo la causa della caduta dell’Impero romano d’Occidente. Lo stesso pregiudizio verrà veicolato da certa storiografia moderna, erroeneamente propensa a ritenere il mondo romano cristianizzato come più attento alle diatribe teologiche e all’incentivazione delle istituzioni monastiche che alla strategia militare e alla difesa dei confini dell’impero – le cui virtù marziali, del resto, sarebbero state compromesse dal molle pacifismo della nuova fede.[11]

         Tuttavia, una simile visione delle cose non regge ad un esame più attento della Storia; lungi dall’essere un elemento dissolutore del tessuto politico, economico, e sociale dell’Impero, l’austerità e il rigore morale della religione cristiana rappresentarono semmai un’argine alla degenerazione dei costumi della società tardo-antica, insieme origine e conseguenza dello sfacelo della civiltà occidentale dell’epoca.[12] Per questo motivo gli apologeti cristiani (volendo confutare coloro che interpretavano il declino di Roma, e la fine dell’invincibilità delle sue legioni, come un ritiro del favore degli dèi) affermavano che la caduta dell’imperium occidentale fosse dovuta non già all’abbandono della pax deorum pagana, ma alla disattesa della novella pax Dei cristiana, che si era sostituita alla prima.[13] Del resto, bisogna altresì riconoscere che, con l’affermazione della fede cristiana, l’Impero romano non finì affatto, almeno non fino a che la conquista turca di Costantinopoli non integrò il titolo imperiale all’interno della corona ottomana, più di un millennio dopo l’elevazione del Cristianesimo alla dignità di religione di stato. Quanto alla “restaurazione” carolingia, essa si fondò giuridicamente sull’idea che la sede imperiale fosse vacante a seguito delle dispute dinastiche successive alla morte di Leone IV Isaurico, e niente affatto (come generalmente si crede) per via della deposizione di Romolo Augusto – le insegne del cui imperium furono rimesse all’imperatore d’Oriente dal condottiero barbaro Odoacre, che governò l’Italia in nome di questi.[14] Quel che terminò formalmente fu piuttosto l’Impero romano d’Occidente, ma qui il Cristianesimo era assai meno diffuso che nella sua controparte orientale, che non fu affatto investita dal crollo di quest’ultimo. È quindi evidente che la cristianizzazione del mondo romano non può che essere esclusa dal complesso insieme di motivazioni che determinarono la fine dell’istituzione imperiale.

         Per quanto riguarda la dissoluzione (pralaya) dell’antica tradizione occidentale “pagana”, e del mondo che essa aveva plasmato, questa coincise con l’esaurimento delle possibilità vitali del ciclo eroico romano, naturale conseguenza delle dinamiche che avevano accompagnato l’espansione della res publica, e che comportarono un’oscuramento dei principi tradizionali, frenato almeno parzialmente dalla successiva civilizzazione europea medioevale. Ma questa si dovette di necessità appoggiare ad una diversa forma tradizionale, il successo del cui passaggio di consegne si spiega con la congiuntura creatasi tra la decadenza ciclica di cui sopra e la politica religiosa di contrasto alla stessa, sfociata nell’affermarsi di un eno/monoteismo “solare” promosso quale instrumentum regni (ma non necessariamente privato di una parimenti sincera devozione), che trovò nella Chiesa cristiana il candidato ideale per potersi concretizzare. Quanto abbiamo detto in precedenza, circa le modalità attraverso le quali una forma tradizionale si modelli sulle contingenze storico-culturali del popolo a cui si rivolge, dimostra altresì chiaramente il perchè questa nuova forma tradizionale dovette provvidenzialmente, per superare la degenerazione in cui era incorso il mondo romano, assumere proprio alcuni dei tratti che tale degenerazione avevano caratterizzato.[15]

 

Cristianesimo e Tradizione occidentale.

         Quanto detto sopra conferma senza dubbio la tesi guénoniana sul passaggio dalla Roma pagana alla Roma cristiana, e si sarebbe pertanto tentati di liquidare la posizione evoliana come un semplice errore di valutazione. Ma è davvero così?

         Se leggiamo più attentamente le affermazioni di Guénon, possiamo osservare che la funzione provvidenziale del Cristianesimo nei confronti dell’Occidente potè manifestarsi solo al prezzo di una discesa nel dominio essoterico della sua forma originaria che, come abbiamo già visto, non fu nient’altro che una via iniziatica del Giudaismo del secondo Tempio.[16] Del resto, il “Cristianesimo” di cui abbiamo parlato fin’ora, e di cui abbiamo sottolineato le imprecisioni di giudizio compiute da Evola, non è affatto la forma tradizionale che si sostituì alla tradizione greco-romana nella direzione spirituale del mondo occidentale, bensì il Giudeo-cristianesimo primitivo, consistente in una comunità di ebrei radicati nella fede dei loro antenati, che si differenziavano dai propri correligionari esclusivamente per la credenza nella dignità messianica del loro rabbi, e per l’adesione alla particolare riforma della legge e dei costumi giudaici che egli predicava, in concomitanza con il suo insegnamento esoterico. Se quest’ultimo dovette in seguito essere recepito dalla massa dei fedeli, non potè farlo che riconfigurandosi nel senso di una ricezione in senso esteriore, da parte di un’umanità che non poteva possedere le qualificazioni intellettuali necessarie a comprendere il senso profondo di una via iniziatica. Da questo punto di vista, sia Guénon che Evola concordano nel negare una qualsiasi dimensione acroamatica al Cristianesimo così inteso, anche se la concezione evoliana del successivo esoterismo occidentale medioevale si differenzierà sensibilmente da quella del pensatore francese. Come sappiamo, infatti, Evola vede nel Cristianesimo solo una tipica religione dell’età del ferro, in cui il sentimentalismo religioso ha surclassato l’ideale di un’umanità virilmente sacrale. Negandone ogni origine o legame con qualsivoglia dimensione interiore, Evola non potè vedere l’esoterismo “cristiano” del Medio Evo che come una riproposizione di dottrine e iniziazioni pagane o comunque non-cristiane, solo superficialmente adattate alla forma della nuova religione imperante in Occidente.[17] Viceversa, Guénon riconobbe che, insieme a queste, vi fu anche un passaggio alla nuova religione di un’iniziazione propriamente gesuana.[18]

         Alla luce della propria particolare interpretazione del Cristianesimo delle origini, Evola concede alla dottrina della salvazione cristiana la sola possibilità di un qualche effetto positivo nel post-mortem per la massa dei diseredati e dei senza-tradizione dell’ecumene romano, altrimenti destinati a “spegnersi senza gloria nell’Ade”.[19] Lungi dal vedere il successivo carattere tradizionale del Medioevo come un merito del Cristianesimo, Evola attribuisce ciò ad un parziale superamento del suo effetto dissolutore, dovuto ad un ripristino dei simboli e delle istituzioni dell’antica tradizione pagana, solo superficialmente “cristianizzata”. Tale ripristino si sarebbe accompagnato alla traslatio imperii dalle genti italiche a quelle germaniche che, pur se tiepidamente convertite al Cristianesimo, avrebbero re-infuso la spiritualità guerriera delle genti arie nel suolo europeo, dando origine alla tradizione ghibellina e cavalleresca del Medio Evo.[20] Significativamente, però, anche Guénon vide nella spiritualità cavalleresca fondata sulla leggenda del Graal (cioè: nel cuore stesso della tradizione cattolica medioevale) un passaggio di consegne al Cristianesimo di un deposito sapienziale pre-cristiano,[21] la qual cosa complica ulteriormente la questione del rapporto tra la concezione guénoniana e quella evoliana.

         In realtà, la lettura evoliana del Cristianesimo sarebbe assolutamente corretta, se limitata unicamente ad una sua peculiare ricezione in senso anti-tradizionale, verosimilmente diffusa all’interno di quelle masse spiritualmente “plebeizzate” di cui abbiamo detto poc’anzi. È però evidente che esso si possa pure declinare all’interno di un’ordinamento dell’Orbe tradizionalmente inteso, ed in un senso ben diverso da quello dissolvente e degenere con cui Evola unilateralmente lo dipinge, ciò essendo comprovato non solo dallo sviluppo dell’Europa medioevale e dai suoi prolungamenti nell’età moderna (si pensi alla tradizione delle Spagne cattoliche), ma anche dall’eredità più diretta della civilizzazione tradizionale plasmata dal Cristianesimo, cioè la civiltà bizantina. Questa è infatti qualificata dallo stesso Evola come un “imperialismo vero, spirituale, sacro ed eroico”,[22] anche se portato avanti da forze caotiche e torbide,[23] la cui presenza tuttavia rafforza quanto abbiamo detto circa la necessità della cristianizzazione del mondo romano – l’esaurimento della cui tradizione richiedeva un necessario adattamento formale che, per l’appunto, contenesse, rettificasse, e ri-orientasse le forze in questione, nella specifica fase di decadenza ciclica in cui esso si venne a trovare, e adeguatamente alla propria capacità di ricezione. Del resto, proprio Evola aveva già ascritto, a merito di quel Mosaismo da cui deriva la rivelazione cristiana, lo sforzo di “dominare in una unità una sostanza etnica torbida, plurima e turbolenta”, dandole una base formale nell’adesione alla Legge giudaica.[24]

         Terminata, con la fine dell’evo antico, l’età “aurea” della civiltà europea, l’ineluttabile caduta verso il moderno occidente anti-tradizionale veniva così ad essere frenata dalla “argentea” età medioevale. Da questo punto di vista, poco importa che l’attivazione delle possibilità spirituali di quest’ultima sia avvenuta grazie al lascito di élites spirituali pagane che (essendo giunte al termine della propria funzione ciclica, e in procinto di ritirarsi di fronte all’avanzata del Cristianesimo trionfante) veicolarono quantomeno una parte del proprio deposito sapienziale sotto forma di folklore e tradizione popolare,[25] in seguito riattivato da quell’élite intellettuale cristiana evidentemente consapevole dell’unità fondamentale che lega ogni forma tradizionale autentica.[26] Questo perchè, se il lascito in questione fosse stato in contraddizione con la rivelazione su cui si fonda il Cristianesimo (cioè l’euanghélion di Gesù), esso non avrebbe potuto entrare a farne parte. Bisogna dunque riconoscere che, in ogni caso, quest’ultima contiene esplicitamente o implicitamente tutto lo sviluppo della successiva forma tradizionale cristiana.

         Tuttavia, Evola ha perfettamente ragione nell’affermare che questo lascito avvenne, e che plasmò significativamente l’aspetto tradizionale del Cristianesimo (guénonianamente inteso come la forma tradizionale originata dalla discesa nel dominio essoterico della via iniziatica giudeo-cristiana). Il perchè di questo è facilmente comprensibile, se si tiene conto del fatto che la tradizione cristiana doveva porsi come la forma tradizionale di un mondo che, per quanto alterato dalla fase di avanzamento del ciclo, rimaneva pur sempre legato alle specificità caratteristiche che ne avevano determinato la storia passata.

         Da un certo punto di vista, si può quasi dire che, mentre l’economia della tradizione abramica si esplica nella successione tra la prisca theologia dei patriarchi biblico-coranici, l’Ebraismo mosaico, il Giudeo-cristianesimo originario, e l’Islamismo, la particolare forma di Cristianesimo affermatosi nel mondo romano si configura non tanto come una sostituzione della tradizione greco-romana (cioè di quella forma tradizionale appartenente alla civilizzazione con cui era venuto a identificarsi, in modo preminente, il mondo posto sotto l’ègida di Roma),[27] ma come un adattamento formale di questa stessa tradizione, l’assimilazione della cui eredità spirituale da parte della Chiesa è il segno più evidente.[28] Ciò è funzionale alla stessa logica dell’Ebraismo messianico da cui il Cristianesimo deriva, secondo il quale tutta l’umanità è chiamata a partecipare in vario modo al “regno dei cieli”, da realizzarsi attraverso il sentiero del patto che Dio ha stretto con l’umanità in generale (attraverso Noè), e con Israele in particolare (attraverso Mosè). È pertanto dovere del popolo ebraico il ricordare ai gentili la loro necessità di attenersi ai comandamenti che Dio ha impartito all’umanità salvata dal diluvio universale, e che possono essere considerati alla base di ogni forma tradizionale ortodossa.[29] La nascita del Cristianesimo può essere perciò interpretata nei termini di un raddrizzamento intellettuale (tiqqun) del mondo romano-occidentale, e di un suo ritorno ai principi tradizionali (teshuvah) attraverso la riforma “noachide” delle genti che lo abitano, compiuto con l’aiuto dell’élite spirituale giudeo-cristiana, tramite l’innesto di un “ramo” della sua tradizione nell'”albero” della tradizione romana, che ne è stata così rivivificata.

         Ma, dal punto di vista evoliano, che è poi quello dell’iperborea spiritualità solare di cui il mos maiorum romano rappresenta uno dei vertici, il Cristianesimo non potrà che essere quel famoso “tradizionalismo a metà” che l’insigne filosofo italiano rimproverava a chi pretendesse di aderire ad una prospettiva tradizionale per il tramite della Chiesa cattolica. I caratteri che distinguono peculiarmente il Cristianesimo dalla Tradizione ario-romana saranno infatti quegli elementi materni, femminei, tellurici, e specificamente clericali che Roma aveva soggiogato e che, pur anch’essa incorporandoli parzialmente, li aveva con ciò stesso neutralizzati, relegandoli in uno specifico ambito di espressione che non nuocesse l’ordine della res publica. Detto questo, Evola ha sicuramente torto nell’inquadrare tali aspetti del Cristianesimo unicamente alla luce della loro declinazione anti-tradizionale, ma va altresí tenuto presente che tanto il tramonto del Paganesimo quanto la corrispettiva ascesa della fede cristiana costituirono un processo secolare; ed è legittimo pensare che, nella misura in cui la tradizione pagana continuava a mantenere una certa vitalità, l’elemento predominante del Cristianesimo dovesse essere quello del degenere culto orientale descritto nelle pagine dell’opera evoliana, non avendo avuto alcun senso (al di fuori delle comunità giudeo-cristiane primitive, o delle – per definizione ristrette – cerchie iniziatiche etno-cristiane) l’espansione e l’imposizione del suo elemento più nobile e tradizionale.

         In questa specifica cristianità plebea delle origini si può altresí vedere non già una semplice deviazione da una rivelazione originaria, ma una ben precisa possibilità insita in tale rivelazione, corrispondente al manifestarsi di quella direzione provvidenziale delle masse dei diseredati dell’ecumene imperiale di cui abbiamo in precedenza accennato. A tal proposito, la tradizione indù riferisce che una discesa avatarica può anche rivestire la funzione di spargere sulla Terra un insegnamento eretico e contrario all’ortodossia del Veda, in modo da proteggere il Sanatana Dharma da coloro le cui tendenze āsuriche rischerebbero di contaminare indelebilmente l’ordine tradizionale.[30] Questo è precisamente il compito del nono avatara di Vishnu, che viene generalmente identificato nel Buddha Shākyamunī,[31] ma che, significativamente, Guénon ritiene doversi invece riferire al primo avvento di Cristo.[32] Ciò spiegherebbe l’enigmatico oracolo della dea Ecate, che dirà al filosofo pagano Porfirio:

         “Quell’anima [di Gesù] appartiene ad un uomo eccellente nella devozione, che venerano coloro che sono avversi alla verità. […] Egli era un uomo religiosissimo e la sua anima, come quella degli altri uomini religiosi, dopo la morte è stata giudicata degna dell’immortalità, ed è venerata dai cristiani ignoranti. […] Tuttavia, quell’anima lasciò fatalmente che altre anime, alle quali il destino non aveva concesso di ottenere i doni degli dèi, né di avere la conoscenza del divino Giove, si impligliassero nell’errore. […] Egli stesso è senza dubbio un uomo religioso e, come tutti i religiosi, è andato in cielo. Perciò sicuramente non lo insulterai, ma avrai misericordia della follia degli uomini, in quanto da Cristo proviene per loro un serio pericolo.”[33]

         Ci sembra quindi assai probabile che la divergenza tra Julius Evola e René Guénon sulle origini e sulla funzione del Cristianesimo sia solo apparente, la prima fondantesi sullo specifico punto di vista formale della tradizione romana pagana, e la seconda sulla prospettiva sovraformale della Tradizione Primordiale considerata nell’interezza della sua economia ciclica, alla luce della quale l’insigne metafisico francese potè giustamente affermare che: “l’omaggio reso […] al Cristo nascente, nei tre mondi che sono anche i loro rispettivi regni, dai rappresentanti autentici della Tradizione primordiale, è […] il pegno della perfetta ortodossia del Cristianesimo nei confronti di essa.”[34]

 

Conclusione.

         Giunti al temine di queste brevi (e certamente non esaustive) considerazioni, ci auguriamo di aver fornito una traccia utile alla comprensione dell’anti-Cristianesimo di Julius Evola, intimamente legato a quella “rivolta contro il mondo moderno” che consideriamo (a lato di alcune imprecisioni nell’analisi dei dati e delle dottrine tradizionali) come assolutamente valida e condivisibile. Per usare una felice espressione di Michel Valsan, anche nell’analisi del pensiero evoliano René Guénon si conferma quella “bussola infallibile” che permette di orientarsi, in modo certo e sicuro, nel caleidoscopico labirinto dei simboli e delle dottrine tradizionali.

         Tuttavia, è senza alcun dubbio ingiusto rifiutare aprioristicamente il contributo evoliano agli studi tradizionali (con un disprezzo che richiama il proverbiale “gettar via il bimbo con l’acqua sporca”), dal momento che, per quanto i due maestri non possano essere posti sullo stesso livello, né manchino delle divergenze dottrinali anche profonde e importanti tra le rispettive opere, queste si dimostrano essere assai meno (e talvolta assai meno marcate) di quel che certi fin troppo zelanti loro epigoni amino pensare. Nelle mani di chi sappia distinguere il grano dall’oglio, l’opera di Evola può rivelarsi assai preziosa, integrando e ampliando non poco quella guénoniana. A lato di tutto ciò, ci piace anche ricordare che, se Guénon ha sempre tenuto in stima e simpatia il suo corrispondente italiano, Evola ha sino alla fine riservato al metafisico francese il rispetto e la considerazione che si hanno per un maestro.[35] Questo è bene ricordarlo, in un mondo in cui certe qualità umane sono divenute sempre più rare, anche in chi ha pretese iniziatiche.

         Al di là delle loro differenze in merito alla natura tradizionale del Cristianesimo, sia Evola che Guénon hanno però concordato su un punto, e cioè che la sua funzione ciclica di sostegno tradizionale per l’Occidente cattolico è oramai giunta al termine.[36] Avendo ormai da secoli tagliato alla radice ogni sua prospettiva esoterica e iniziatica, ed essendone divenuta oggetto di dubbio e di disputa (a seguito dell’ultimo concilio ecumenico) persino la validità essoterica, la Chiesa cattolica sembra vivere il periodo di quella “grande apostasia” profetizzata da San Paolo, a cui un suo omonimo, il sommo pontefice Paolo VI, forse alludeva quando parlò enigmaticamente dell’ingresso del “fumo di satana” in Vaticano. Quanto alla gerarchia ecclesiastica e al suo vertice, che dovrebbero guidare la Chiesa in un simile periodo di bufera, essi appaiono sempre più inadatti al loro ruolo, sedotti come sono (al pari del loro gregge, ogni giorno più intiepidito e diradato) dalle illusioni di questo basso mondo, e da quella deriva veramente plebea e dissolutrice dell’Europa e del mondo che Evola aveva descritto in modo assai preciso.

         Ricacciato nelle catacombe il Cattolicesimo tradizionale, dove volgersi, dunque, per risollevare le sorti dell’Occidente? Qualcuno auspica un ritorno sulla via degli antichi déi (forse mai davvero estinta, e conservatasi presso antichi casati della nobiltà europea o ristrettissime cerchie iniziatiche), mentre altri hanno creduto di vedere una speranza nella ri-evangelizzazione in seno alla Chiesa ortodossa, o nel sorgere ad occidente del “sole di Allah”. Tuttavia non bisogna farsi illusioni in proposito: nella presente fase terminale dell’età oscura, ogni futura rettifica spirituale dell’umanità non potrà che avere i tratti di una chiamata per pochi eletti, un’adunanza all’interno dell’Arca che traghetterà i germi del ciclo futuro dalla dissoluzione dell’età del ferro al ripristino dell’età dell’oro. Una simile consapevolezza non deve essere però fonte di pessimismo o di turbamento, indegni di un animo superiore. Questi guarda a tutte le cose con l’olimpico distacco di chi sa che, all’interno di un qualsiasi grado dell’esistenza, ogni sua possibilità di manifestazione deve necessariamente trovare il proprio posto, concorrendo alla perfezione totale. Calmo, puro, e illuminato, impassibile davanti agli esiti del fato, egli rimane sempre saldo sul sentiero della grande guerra santa – non per cogliere i frutti di un’azione agitata, ma perchè questa è la natura della sua predisposizione essenziale.

         Una fiaccola che arde nell’oscurità, testimoniando la sua fedeltà al fuoco iperboreo. Non vi è onore più grande.

 

NOTE

[1] Il ruolo svolto dall’età delle esplorazioni nella capillare diffusione del mondo moderno è indicativo del fatto che il nec plus ultra, legato al tema mitologico delle “colonne d’Ercole”, abbia avuto un significato ben più profondo di quello di una (infondata) generale ignoranza della sfericità dell’Orbe terracqueo, o di una (inesistente) impossibilità tecnologica nell’affrontare le traversate oceaniche. Esso designa piuttosto il provvidenziale limite di contenimento delle popolazioni europee, latrici di quelle pulsioni anti-tradizionali che avrebbero dato origine alla modernità, e che il tramonto della civiltà medioevale avrebbe definitivamente scatenato. Trattasi di un caso simile a quello degli ebrei, l’elemento tifonico della cui indole, liberato dai lacci con cui la tradizione mosaica lo soggiogava, ha contribuito grandemente (ma di certo non esclusivamente) alla genesi del mondo moderno. D’altra parte, tanto le potenze sataniche che  patrocinano quest’ultimo, quanto i loro agenti terreni, non sono meno avversi all’Ebraismo ed al Cristianesimo tradizionali di quanto non lo siano di qualunque altra via celeste che congiunga l’umano al divino; e, come nota assai giustamente René Guénon: «una certa volontà di fuorviare le ricerche, suscitando e alimentando diverse “ossessioni” (poco importa che sia quella della Massoneria, degli ebrei, dei gesuiti, del “pericolo giallo” o ancora di qualche altra), fa anch’essa parte integrante del «piano» che […] si propongono di smascherare; gli autentici “retroscena” di certi gruppi antimassonici sono, a riguardo, particolarmente istruttivi.» (cit. in: R. Guénon, Studi sulla Massoneria e il Compagnonaggio, volume I, Arktos 1991, p. 100).

[2] Sull’argomento, cfr. N. d’Anna, Mistero e profezia. La IV egloga di Virgilio e il rinnovamento del mondo, Giordano Editore 2007.

[3] Secondo il mito romano, Troia era stata fondata dalla dinastia etrusca dei dardanidi, ed effettivamente la storia e le istituzioni dell’Urbe devono molto all’influenza di questa civiltà, il cui elemento etnico ha contribuito alla formazione delle sue tribù costitutive, e le cui origini sono per alcuni da ricercare nell’area lido-anatolica. Tuttavia, secondo quanto riferito da Virgilio, la patria ancestrale dei dardanidi era proprio l’Italia, e questo dato potrebbe conciliare l’ipotesi anatolica con quella nordico-alpina e/o autoctona proposte da altri studiosi. Secondo il compianto Massimo Pittau, la civiltà etrusca sarebbe inoltre imparentata con quella nuragica (che egli identifica coi feaci omerici e col “popolo del mare” dei teresh, mentre altre ipotesi li ricollegano ai sherdana e, in misura minore, agli shekelesh), con la quale avrebbe condiviso la rotta migratoria verso occidente ed il retroterra linguistico indoeuropeo. Ma, tra le diverse ipotesi proposte in merito alle origini della civiltà proto-sarda, Evola segnala anche l’influsso di una migrazione atlantidea passante per le isole Baleari, i cui talaiot ricordano in modo impressionante i nuraghes della Sardegna (cfr. J. Evola, op. cit., p. 238).

[4] Per approfondire il tema della tradizione romana, cfr. G. Dumézil, La religione romana arcaica, Rizzoli 2001; e: R. del Ponte, La religione dei romani, Rusconi 1992.

[5] È a lui che si deve la celebrazione del 25 dicembre come giorno della rinascita del dio-Sole (dopo la sua “morte” nel solstizio d’inverno), che sarebbe poi stato traslato nel Natale cristiano. Secondo un’altra ipotesi, la sovrapposizione delle due date avrebbe seguito il corso inverso, ma resta ad ogni modo indubbio che le attuali celebrazioni della nascita del Cristo risentano fortemente di elementi tratti da  festività pagane, come i saturnalia latini o lo yule germanico. Tutto ciò non è che un’ulteriore conferma dell’universalità del simbolismo, e dell’unità trascendente delle forme tradizionali.

[7] Cfr. Tertulliano, Difesa del Cristianesimo (Apologeticum), Edizioni Studio Domenicano 2008, p. 139.

[8] Cfr. R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi 1989, p. 69. Evola la ricollega invece alla da lui asserita negazione cristiana della sovranità tradizionale, e all’opposto universalismo anti-romano che ad essa si accompagnava (Cfr. J. Evola, op. cit., p. 328).

[9] Purchè questa rimanesse confinata all’ethnos a cui fosse storicamente legata. Il proselitismo era assai mal visto dalla società romana, ed era considerato un tradimento ed una corruzione del mos maiorum e dei costumi dei patres.

[10] Cfr. A.M. Rabello, La situazione giuridica degli ebrei nell’Impero romano, in: A. Lewin (a cura di), Gli ebrei nell’Impero romano, Giuntina 2001, pp. 125-142.

[11] In realtà, l’anti-militarismo superficialmente attribuito alla tradizione evangelica potè trovare spazio solo in alcune frange minoritarie (e spesso ereticali) del Cristianesimo, mentre la Chiesa considerò sempre il potere temporale come il fondamento e il pilastro della pace predicata dall’autorità spirituale, il cui ottenimento poteva anche passare per le asperità dell’esercizio delle armi. Da qui l’ideale della Crociata, vista non solo come difesa o reconquista delle terre cristiane, ma anche quale dilatatio christianitas, di cui sono esempio le guerre di Carlo Magno contro i sassoni pagani, o l’epopea baltica dei cavalieri teutonici. Bisogna pertanto riconoscere che l’assorbimento cristiano dell’idea imperiale romana fu una realtà radicata sin dagli albori delle espressioni ortodosse della Cristianità, che (conformemente all’evangelico “dare a Cesare quel che è di Cesare”) mai mise in dubbio la funzione e la legittimità della funzione imperiale, per la quale i suoi sacerdoti pregavano, e i suoi soldati combattevano. Del resto, il Cristianesimo era assai diffuso tra i soldati, e la tradizione apostolica riferisce che il primo convertito etno-cristiano fu niente meno che un centurione di stanza in Palestina. Per approfondire la questone del rapporto tra prime comunità cristiane e imperium, cfr. M. Sordi, I cristiani e l’Impero romano, Editoriale Jaca Book 2011; e: A. Barzanò, Il Cristianesimo nell’Impero romano da Tiberio a Costantino, Lindau 2013.

[12] Cfr. M. de Jaeghere, Gli ultimi giorni dell’Impero romano, LEG edizioni 2018.

[13] Da un punto di vista “sovraformale”, potremmo conciliare le due opinioni affermando che tale caduta fu dovuta all’abbandono della prima pax, a cui non fece seguito una sufficiente adesione alla seconda. Secondo la prospettiva dell’unità trascendente delle forme tradizionali, del resto, esse non sono che due aspetti di una medesima realtà.

[14] Questo “Sacro Romano Impero” può essere visto come un provvidenziale adattamento ciclico della funzione imperiale per il Cristianesimo latino, che durò ininterrottamente sino al 1804, con la dismissione del titolo sotto la spinta delle guerre napoleoniche. In Oriente, invece, l’imperium seguirà da un lato le sorti del sultanato ottomano e, dall’altro, verrà reclamato in eredità dagli czar moscoviti in seno alla Chiesa orientale. A tal proposito, è interessante notare che, secondo la tradizione cristiana, la fine dell’Impero romano sarebbe coincisa con la distruzione della potestà che frena il dilagare dell’Anticristo (katechon), ed effettivamente la fine delle tre eredità imperiali “romane” (austriaca, ottomana, e russa) coincise con gli esiti della prima guerra mondiale, generalmente considerata come l’evento fondativo della (palesemente anticristica) “età contemporanea”.

[15] Anche Evola connette il successo della dottrina cristiana all’effetto combinato dell’indebolimento della tradizione romana con la diffusione dei culti asiatici e mediterranei della decadenza, il legame con la cui spiritualità equivoca ne avrebbe facilitato l’espansione. Coerentemente con la sua prospettiva, egli però non vide in tutto ciò nient’altro che la già citata “sincope della tradizione occidentale”.

[16] Cfr. R. Guénon, Sull’esoterismo cristiano, Luni 1995, parte I, cap. 2.

[17] Cfr. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee 2007, p. 325, nota 2

[18] Cfr. R. Guénon, op. cit., p. 22.

[19] Cfr. J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Edizioni Mediterranee 1990, p. 126-127. Questi vanno intesi innanzitutto come una “plebe dello spirito” che, a causa della mescolanza delle razze e delle caste, poteva manifestarsi in qualunque livello della gerarchia sociale. Sulla ricezione del primo Cristianesimo all’interno della società romana, cfr. R. Stark, Ascesa e affermazione del Cristianesimo, Lindau  2007, pp. 49-74.

[20] Cfr. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, op. cit., pp. 331-345.

[21] Cfr. R. Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi 1997, capp. 3-4.

[22] Cfr. J. Evola, Imperialismo pagano, Edizioni Mediterranee 2004, p. 147.

[23] Cfr. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, op. cit., pp. 331-332. Sulla civiltà di Bisanzio, cfr. G. Ostrogorsky, Storia dell’Impero bizantino, Einaudi 1984.

[24] Cfr. J. Evola, op. cit., p. 283.

[25] Cfr. supra, nota 22; R. Guénon, Sull’esoterismo cristiano, op. cit., parte II cap. 6.; e: Precisazioni necessarie, Edizioni di Ar 1998, cap. 3. Come si vede, i due maestri del pensiero tradizionale concordano sulla presenza di un retroterra “pagano” della Cristianità medioevale.

[26] Sembra che, a tal riguardo, un ruolo importante venne svolto dai monaci irlandesi, scoti, e anglosassoni esponenti del cosiddetto “Cristianesimo celtico”, in merito al quale cfr. N. d’Anna, Il Cristianesimo celtico. I pellegrini della Luce, Edizioni dell’Orso 2010.

[27] Questa aveva a sua volta sintetizzato in sè le forme tradizionali delle antiche civiltà conquistate dai romani, modus operandi che la tradizione occidentale già pagana continuerà a svolgere coi popoli e le civiltà inglobati nella sua nuova declinazione cristiana. A tal proposito, si tenga presente che l’esposizione teorica dei principi del Perennialismo non guarda affatto alle diverse giurisdizioni tradizionali come a delle realtà statiche e immutabili; al contrario, la stessa affermazione del Cristianesimo nel mondo romano dimostra che esse possono variare con le mutate condizioni cicliche dei diversi popoli (tra i quali non consideriamo le civilizzazioni “bianche” d’oltreoceano, che sono semplici prolungamenti della civiltà europea), sia attraverso l’azione di personaggi direttamente missionati per tale scopo, sia per le circostanze storiche guidate della provvidenza divina.

[28] Si, pensi, ad esempio, alla riformulazione della dottrina cristiana secondo il linguaggio della filosofia greca e dei misteri antichi (prova tangibile dell’unità trascendente del Cristianesimo con le tradizioni pre-cristiane), l’adozione del diritto romano come base di quello canonico, la cristianizzazione di feste, usanze, e luoghi sacri dell’antica religione, o la stessa traslazione del culto degli dèi e degli eroi pagani in quello dei santi cristiani. Per tale motivo, padri spirituali del calibro di Giustino, Clemente d’Alessandria, Origene, e Agostino recupereranno, all’interno dell’economia della rivelazione cristiana, le sapienza dei poeti, filosofi, e oracoli ad essa precedenti, considerata come la rivelazione di “semi del Verbo” (logoi spermatikoi, semina verba) di poco inferiore al messaggio veicolato dai patriarchi e dai profeti dell’Antico Testamento, e facendo cosí del Cristianesimo il compimento non solo dell’Ebraismo mosaico, ma delle stesse tradizioni dei popoli e delle civiltà circoscritte dal Limes dell’idea imperiale occidentale (cfr. M. Polia, Propaideia Christou. Il Cristo e le religioni, in: “Quaderni di Avallon” n. 4, Il Cerchio 1983/1984, pp. ; e, Il mistero imperiale del Graal, Il Cerchio 2007). La continuità essenziale della tradizione romana pagana nella tradizione romana cristiana è rinvenibile anche nel pensiero di Guido de Giorgio, in merito al quale cfr. G. de Giorgio, La tradizione romana, Flamen 1973.

[29] Cfr. E. Benamozegh, Il Noachismo, Marietti 2006; e: E. Toaff, La Torah universale dei Bené Noach, in: La Rassegna Mensile di Israel, terza serie, vol. 59, no. 1/2 (Gennaio-Agosto 1993), pp. 137-140.

[30] Cfr. H.H. Wilson, The Vishnu Purana, London 1840, pp. 338-341; e: W. Doniger, The origins of evil in hindu mythology, Motilal Banarsidass 1988, pp. 174-211 (trad. it.: Le origini del male nella mitologia indù, Adelphi 2002).

[31] Il va sans dire che l’attribuzione di una simile funzione può essere valida solo se riferita alle  formulazioni eterodosse della tradizione buddhista (oggetto delle ben note critiche del Guénon, alle quali aveva inizialmente circoscritto l’insegnamento originario del suo eponimo) e non al Buddhismo tradizionale, nel cui caso avrebbe senso solo all’interno di una prospettiva esclusivista. Sulla dottrina del Buddha, cfr. J. Evola, La dottrina del risveglio, Edizioni Mediterranee 1995; R. Guénon, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, Adelphi 1989, parte III, cap. 4; e: A.K. Coomaraswami, Induismo e Buddismo, Rusconi 1994.

[32] Cfr. T., L’Archéomètre (suite), in: La Gnose, anno II, numero 2 (Febbraio 1911), pp. 47-49. L’attribuzione di questo testo a Guénon è in realtà dibattuta, ma un eco delle affermazioni di nostro interesse ivi contenute è presente anche nel suo studio su “Ermete”, ora contenuto in: Forme tradizionali e cicli cosmici, op. cit., parte IV, cap. 3. Secondo l’autore de “L’Archéomètre”, la funzione del nono avatāra consiste nel dare una guida tradizionale ai popoli barbari (mleccha), ma ciò non contraddice la nostra interpretazione che, al contrario, concilia quest’ultima funzione con l’altra generalmente ascrittagli.

[33] Cit. in.: Porfirio, Filosofia rivelata dagli oracoli, Bompiani 2011, p. 155. Anche la prima sura del Corano qualifica i cristiani dell’appellativo di “sviati”, mentre descrive gli ebrei come coloro che sono “incorsi nell’ira”di Allah. Guénon commenta tale esegesi del libro sacro dell’Islam come superficiale e contestabile anche solo dal punto di vista essoterico, ma niente affatto (come credono alcuni lettori poco attenti) sbagliata, basandosi del resto su un’esplicito detto attribuito al Profeta Muhammad.

[35] Cit. in: R. Guénon, Il re del mondo, Adelphi 2002, p. 43.

[36] Cfr. J. Evola, Un maesto dei tempi moderni: René Guénon, Fondazione Julis Evola 1984.

[36] E se è vero che “portae inferi non praevalebunt“, è d’obbligo ricordare che queste parole sono riferite, in ultima analisi, ad una ekklesia da intendersi in senso innanzitutto iniziatico.

1 Comment

  • Stefano 25 Gennaio 2020

    Raramente mi è capitato di leggere una analisi della posizione di Evola sul cristianesimo così ben fatta ed aderente allo spirito tradizionale,devo dire che concordo totalmente con le considerazioni di Bianchi nelle tre parti e trovo quest’ultima parte forse la più importante… Perfetta la descrizione del ruolo “provvidenziale” che il cristianesimo ha dovuto necessariamente ricoprire per rettificare l’occidente in sostituzione della decadente “paganitas” greco-romana a fine ciclo, con tutte però le conseguenze collaterali del passaggio da “tariqa” iniziatica a religione essoterica… complimenti anche per aver inquadrato in maniera limpida e corretta la posizione del Guenon che non può che essere la “bussola infallibile” se si parla a livello dottrinario e di aderenza ai principi tradizionali, anch’io penso che nonostante le divergenze con alcune posizioni evoliane i due vadano studiati come fossero complementari, in quanto Evola integra perfettamente alcune mancanze del francese pur facendo a volte qualche passo falso che però non pregiudica assolutamente il suo apporto… Ci sarebbe molto altro da dire sulle ottime intuizioni dell’articolo, per esempio quella in cui si afferma che “..se gli occidentali divennero “spiritualmente semiti”, ciò non fu causato dal loro esser stati cristianizzati; al contrario, essi diventarono cristiani proprio perchè “spiritualmente semitizzati” e, lungi dall’essere dovuta ad una riemersione delle “vere” radici cristiane, la deriva del mondo moderno riprese in tutto il suo vigore proprio quando la civiltà occidentale si distaccò da esse”, un affermazione forte ma assolutamente incontestabile dal punto di vista tradizionale, che mette un punto definitivo a questa eterna disputa fra tradizionalisti cristiani e “neo-pagani”(mi scuso uso il termine solo per comodità)…Questo è solo un esempio ma tanti altri spunti ci sono nel pezzo che in commento sono impossibili da sottolineare in maniera adeguata. Concludo con il concordare totalmente anche sulle conclusioni finali, seppur qui escluderei totalmente (salvo che per ristrettissimi gruppi) la prima ipotesi sulle possibilità del ritorno di una Tradizione in occidente di tipo “pagano”, credo invece che siano entrambe possibili la seconda e la terza ipotesi che anche a livello escatologico vanno a braccetto in questo senso(Gesù e Madhi come restauratori nella loro seconda venuta) e che proprio nelle convergenze fra la dottrina ortodossa e quella sciita(non a caso quest due, ma ora non mi soffermo sul perchè) potrebbero trovare il terreno fertile per quest’azione parallela e complementare nella fine dell’attuale ciclo… In questo caso trovo fondamentale la lettura del testo “La funzione di René Guénon e il destino dell’Occidente” di Michel Vâlsan in cui si parla delle varie possibilità dell’occidente in maniera corretta con valutazioni importanti sull’una e l’altra ipotesi, osservazioni che possiamo valutare oggi in base allo stato attuale delle cose e farci un idea ancora più precisa della direzione verso la quale ci dirigiamo… Cordiali saluti.

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