8 Ottobre 2024
Cultura

La seconda morte. L’enigma dei pagani nella Divina Commedia – Gianfranco Strazzanti

Un discepolo gli chiese: “In quale giorno i morti troveranno pace
e in quale giorno verrà il nuovo mondo?”
Lui rispose: “Ciò che voi cercate è già venuto,
ma voi non lo sapete”.
Vangelo di Tommaso
, Log. 51.

I discepoli dissero a Gesù: “Dicci quale sarà la nostra fine!”
Gesù rispose: “Avete conosciuto il principio
che vi preoccupate della morte?
Infatti dove è il principio là è la fine.
Felice colui che vive sempre nel principio:
egli saprà cos’è la fine e non assaggerà la morte”.
Vangelo di Tommaso
, Log. 18.

 

 

L’immaginario legato agli inferi, in Occidente, non si è nutrito di prospettive avvilenti e atroci a partire dall’avvento della tradizione cristiana; già nella cultura antica, esso non veniva certo raffigurato come uno spazio ricolmo di luminosità e pienezza interiore. Si pensi, ad esempio, alle parole che Achille rivolge a Ulisse nell’XI dell’Odissea:

«Non consolarmi riguardo alla morte, glorioso Ulisse.

Vorrei essere un lavorante di campi e dipendere da un altro,

da un diseredato che non abbia molti beni per vivere

piuttosto che il re di tutti i morti defunti».[1]

Quale abisso di sconforto, in queste parole; abisso che appare ancora più profondo visto che a pronunciarle è l’indomito Achille.

Le anime dei pagani – termine, per quanto improprio, da secoli riservato alle genti precristiane – non furono però abbandonate al proprio destino dal Medioevo cristiano. I nati prima dell’avvento di Cristo furono anzi al centro di una continua riflessione; riflessione che emerge in tutta la sua complessità nel IV canto dell’Inferno dantesco, dove la presenza degli «antichi spiriti», nel Limbo, pone a Dante uno degli enigmi più ardui dell’intera Commedia.

Ecco le parole che Virgilio rivolge al poeta fiorentino in merito ai non battezzati:

«“Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,

ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,

non basta, perché non ebber battesmo,

ch’è porta de la fede che tu credi,

e se furon dinanzi al cristianesmo,

non adorar debitamente a Dio:

e di questo cotai son io medesmo.

Per tai difetti, non per altro rio,

semo perduti, e sol di tanto offesi,

che sanza speme vivemo in disìo”.

Gran duol mi prese al cor quando lo ‘ntesi,

però che gente di molto valore

conobbi che ‘n quel limbo eran sospesi».[2]

Quest’ultimo termine – sospesi – si rivelerà indispensabile per comprendere la condizione dei pagani nel Limbo. Esso peraltro era già stato utilizzato, da Virgilio, nei primi momenti del suo incontro con Dante.[3]

Una volta compresa l’irrevocabile condizione dei non battezzati dell’antichità, i quali «sanza speme» vivono «in disìo», Dante viene colto da «un gran duol al cor». Egli intuisce infatti l’incomprensibilità di un decreto che nega la redenzione alle anime di uomini pii, elevati e valorosi quali certo molti pagani furono.

Come spiegare la loro presenza all’interno delle porte infernali, dunque?

Come poterono loro varcare la soglia del «lasciate ogni speranza voi ch’intrate», se non conobbero mai l’unica speranza che avrebbe potuto salvarli?

Di fronte ad un tale enigma, Dante non si dà pace.

Egli pone dunque a Virgilio la domanda, accorata nel tono:

«”Dimmi, maestro mio, dimmi segnore”,

comincia’ io per volere esser certo

di quella fede che vince ogni errore:

“uscicci mai alcuno, o per suo merto

o per altrui, che fosse poi beato?”»[4].

In risposta, Virgilio rievoca l’intervento di Cristo che, proprio dal Limbo, liberò i progenitori e i patriarchi biblici. Tale intervento, a tutta prima, sembra riguardare solo i Profeti e le maggiori figure delle storie bibliche. Non a caso, la maggior parte dei commentatori ha recisamente escluso la possibilità che Dante, con quel «sospesi», voglia alludere ad una qualche possibilità di salvezza finale per le anime dei pagani[5].

In effetti, una lettura strettamente letterale della Commedia non lascia spazio a interpretazioni che si pongano a favore di una tale possibilità.

Non si può però neanche trascurare la presenza di pagani in Purgatorio e persino nel Paradiso: Traiano e Rifeo, nel XX della Terza cantica, costituiscono in tal senso gli esempi più significativi. In tale canto, dominato dalla presenza dell’Aquila, la questione dei nati prima di Cristo viene peraltro sottolineata da Dante con uno di quegli indizi sui quali sembra reggersi il sostrato misterico della Commedia: proprio nel corso del sublime dialogo con l’Aquila, il poeta fiorentino utilizza infatti, nuovamente, il participio sospeso; stavolta però per descrivere se stesso nonché la sua sorpresa di fronte alla presenza delle anime di personalità dell’Antichità lì, nel cielo di Giove.

Tale presenza lo lascia infatti «in ammirar sospeso», ed è proprio per sottrarlo a tale ammirata sospensione che l’Aquila decide di dissolvere i suoi dubbi.[6]

La filosofia scolastica, che per il tempo di Dante aveva già espresso le sue vette, esplora diffusamente la questione delle anime precristiane e del loro destino ultraterreno. Diverse e autorevoli sono infatti le voci che, non solo non escludono a priori una possibilità di salvezza per le anime delle genti antiche, ma giungono persino a rinvenire linee di continuità tra la cultura precristiana e la rivelazione evangelica.

San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae, ad esempio, affronta proprio la questione relativa alla salvezza dell’anima dell’imperatore Traiano che sarebbe poi stata ripresa da Dante nel XX del Paradiso. Nel caso dell’imperatore romano, la redenzione sarebbe però stata possibile solo tramite l’intervento taumaturgico di San Gregorio Magno, il quale avrebbe pregato perché l’imperatore tornasse in vita il tempo sufficiente a fargli abbracciare la fede cristiana.[7]

L’Aquinate precisa anche che «secondo alcuni, l’anima di Traiano non fu liberata dalla pena eterna definitivamente, ma solo per un certo tempo, cioè fino al giorno del giudizio» e che, in generale, «non bisogna credere che i suffragi producano normalmente tale effetto: poiché, oltre alle cose che avvengono per legge generale, ve ne sono altre che sono concesse soltanto ad alcuni in via eccezionale: infatti, come dice Sant’Agostino, “altri sono i limiti delle forze naturali, altri i prodigi della potenza divina”»[8].

Quindi, volendo giungere ad una prima conclusione, per quanto parziale, si può dire che non è vero che la teologia medievale escluda sempre e comunque i precristiani da qualsiasi possibilità di redenzione. L’Aquinate riconosce infatti casi «eccezionali» nei quali, o per un’intercessione o per un particolare intervento della grazia divina, anche l’anima di uno spirito antico può trovare perdono e beatitudine. Tale possibilità diverrà poi parte integrante del disegno divino rivelato dalla Divina Commedia, come dimostra la presenza, non marginale, dei credenti nel Cristo venturo del Paradiso[9].

Le fonti medievali fanno dunque molte concessioni sulle possibilità di salvezza delle anime degli antichi. Già prima di San Tommaso, Sant’Agostino si era peraltro dimostrato ancora più aperto rispetto a tali concessioni. Nella sua Epistola CII, l’Ipponese dedica infatti un’intera sezione alla questione dei Predestinati asserendo che «fin dall’inizio del genere umano, ora in un modo più occulto, ora in un modo più evidente, a seconda che la divina Provvidenza ritenne opportuno alle varie epoche, da Adamo a Mosè non mancarono né le profezie né quelli che credettero in Cristo: non solo tra lo stesso popolo d’Israele (nel quale, per una speciale disposizione del piano salvifico di Dio, ci fu una stirpe di Profeti), ma pure tra altri popoli ancor prima dell’Incarnazione».[10]

C’è però un’altra fonte, più antica e ancora più autorevole degli Scolastici, la quale può dirci molto su come la questione delle anime precristiane veniva intesa se non da tutta l’epoca bassomedievale, sicuramente da Dante Alighieri. Nell’Apocalisse di San Giovanni, infatti, sembra celarsi una soluzione se non definitiva quantomeno promettente rispetto all’enigma della paganità per come esso viene affrontato nella Commedia.

Proprio nel testo che si pone a sigillo del Nuovo Testamento, si legge infatti:

«Vidi i morti, grandi e piccoli, in piedi davanti al trono. Furono aperti dei libri; e un altro libro fu aperto, quello della vita. I morti vennero giudicati in base a ciò che era scritto in quei libri, ciascuno secondo le sue opere. Il mare restituì i morti che esso custodiva e la morte e l’Ade resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la morte e l’Ade furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco. E chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco»[11].

E qualche capitolo prima, sempre a proposito del Libro della vita, l’Apocalisse dice:

«La bestia che hai visto era e non è e sta per salire dall’abisso e in perdizione va, e si meraviglieranno gli abitanti sulla terra, dei quali non è scritto il nome sul libro della vita fin dalla fondazione del mondo»[12].

È forse legittimo riconoscere un legame tra questi passi dell’Apocalisse e quanto letto poc’anzi sui pagani «sospesi» di Dante? Bisogna infatti chiedersi: dal momento che tale Libro della vita risale «alla fondazione del mondo», perché mai esso non dovrebbe contenere anche i nomi delle anime dei nati prima di Cristo?

L’accostamento tra Paradiso e Apocalisse si fa poi ancora più giustificato se si pensa che la simbologia dell’Aquila, su cui è imperniato il XX della Terza cantica, deve necessariamente rimandare a San Giovanni Evangelista: la consuetudine di raffigurare quest’ultimo con il simbolo dell’aquila risale infatti ai primi secoli cristiani; e, d’altronde, la natura escatologica e apocalittica delle rivelazioni che l’Aquila fa a Dante non può essere messa in discussione.[13]

Una riprova in tal senso viene offerta dall’emergere, nell’Apocalisse, di una formula che troverà grande rilievo anche nel poema dantesco: quella relativa alla seconda morte.

La miracolosa salvezza di Traiano, pur giustificata tramite l’intercessione di Gregorio Magno, sembra infatti alludere alla possibilità, per le anime del Limbo, di salvarsi dalla seconda morte apocalittica dello stagno di fuoco. La questione è naturalmente difficile da assimilare per lo stesso Dante che, già nel I canto dell’Inferno, aveva presentato tale seconda morte con le tinte più fosche, prefigurando «li antichi spiriti dolenti, ch’a la seconda morte ciascun grida».[14]

Da un lato, siamo dunque certi, anche sulla scorta di un’interpretazione letterale della Commedia, che la salvezza per le anime dei pagani è una possibilità riconosciuta anche dalle figure filosofiche a cui Dante fa riferimento. La stessa Aquila è peraltro lì a confermarlo:

(…) «A questo regno

non salì mai chi non credette ‘n Cristo,

né pria né poi ch’el si chiavasse al legno»[15];

dall’altro lato, risulta invece piuttosto difficile comprendere se e come si possa scampare allo stagno di fuoco della seconda morte e se, da essa, possano essere salvate le anime, come quella di Virgilio, “relegate” nel Limbo.

Nella prospettiva del vaglio escatologico, la stessa Apocalisse afferma che, al momento del Giudizio finale, non vengono chiamate solo le anime dei nati dopo Cristo, ma anche quelle di tutti coloro il cui nome è scritto sul Libro della vita «fin dalla fondazione del mondo». Ciò potrebbe, in teoria, aprire ad una possibilità di redenzione anche per le anime del Limbo; ma la lettera della Commedia sembra condannare una tale evenienza all’impossibilità.

D’altronde sarebbe pura tracotanza voler pronunciare sentenze definitive a tal riguardo, soprattutto dal momento che la stessa Aquila del Paradiso ammonisce

«E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,

non conosciamo ancor tutti li eletti»[16].

L’enigma dei pagani del Limbo rappresenta dunque non solo una questione complessa, ma si pone per sua stessa natura al di là di ogni giudizio meramente umano.

Anche per questa ragione, appare tutt’oggi notevole la determinazione con cui Giovanni Pascoli sottolineò l’estrema pregnanza della sospensione degli spiriti magni nel Limbo, affermando convintamente che le possibilità di redenzione rimangono intatte tanto per loro quanto per le anime dei bambini non battezzati. Queste, secondo il poeta romagnolo, sono infatti destinate ad abitare, dopo il Giudizio finale, il Paradiso terrestre, ovvero la cima del Purgatorio.[17] Intessendo un fine discorso ermeneutico sulla simbologia legata ai fiumi Acheronte e Stige, Pascoli sostenne inoltre che, al momento dell’Éskatos, le anime del Limbo «moriranno alla morte, ma non della morte»; avvalorando tale convinzione con il canto dell’angelo del XXVII del Purgatorio, «Venite, benedicti Patris mei», il quale sarebbe rivolto ipso facto anche a Virgilio[18].

La critica di matrice universitaria e accademica, da un secolo a questa parte, ha fatto a gara per smentire e respingere le convinzioni di Pascoli. Queste però, va riconosciuto, si distinguono per una capacità tutta loro di andare oltre il primo involucro letterale della Commedia e un’estrema coerenza nel «seguire l’ombra di Dante per le plaghe del mistero»[19].

Pur volendo ammettere, sulla scorta di Sotto il velame, che i pagani del Limbo possano venire graziati al momento del Giudizio finale, rimane comunque l’impossibilità di leggere i decreti divini secondo dinamiche e percezioni umane, secondo meriti e demeriti che rispondono a parametri sociali e psicologici sempre mutevoli. Ciò che infatti gli uomini vedono in una prospettiva futura, e spesso in maniera distorta, è già perfettamente chiaro e indubitabile dal punto di vista dell’Assoluto. Non a caso, nei Vangeli canonici come in quelli gnostici, i fatti relativi all’escatologia vengono, almeno apparentemente, presentati come futuri per gli uomini; ma, chi legge con un minimo di attenzione, si accorgerà presto che essi sono dati come già compiuti dal punto di vista divino[20].

Dello sterminato oceano delle conoscenze contenute nei libri e nei vari supporti mediatici, è dunque indispensabile ricordare come, in parte della filosofia medievale e nella stessa Divina Commedia, la salvezza delle anime dei precristiani sia ritenuta non una vaga possibilità, ma un motivo di riflessione dei più degni. Tale motivo rimanda infatti ad una prospettiva che va oltre il tempo lineare suddiviso in epoca pre- e postcristiana, per avvicinare il mistero di un processo redentivo che coinvolge ogni tempo e ogni luogo, in un orizzonte concentrico nel quale la razionalità meramente umana viene a perdere ogni potere.[21]

Per il resto, sarebbe vano procedere per speculazioni ed estenuazioni interpretative.

Chi “si tiene stretto a giudicar”, potrà sempre approfondire e avvalorare le ricerche lasciate in sospeso.

 

NOTE

 

[1] Odissea, XI, 488-491, traduzione V. Di Benedetto, P. Fabrini.

[2] Inf. 4, 33-45.

[3] Ibidem, 2, 52-54: «Io era tra coloro che son sospesi, / e donna mi chiamò beata e bella,/ tal che di comandare io la richiesi».

[4] Inf. 4, 40-45.

[5] Commento di Natalino Sapegno a Inf. 4, 45: «Sospesi – spiegano le chiose anonime edite dal Selmi – sono coloro che non hanno d’alcuna cosa perfezione e stanno fra il sì e il no, incerti d’ognuno; come sono quegli del limbo, che non hanno pene né allegrezze, e non sono del tutto disperati e non hanno speranza d’andare in Paradiso». E bene avverte il Buti: «benché questo volgare sospeso s’intende a tempo comunemente, propriamente qui si dee intendere per sempre». Sulla stessa linea anche Siro Chimenz, nel suo commento a Inf. 2, 52-53: «che il termine sospesi indichi una sospensione del giudizio di Dio, nel senso che queste anime possano, nel giudizio universale, esse liberate dall’Inferno è da escludersi in modo assoluto. Dante ribadisce innumerevoli volte l’eternità delle pene di tutto l’inferno». Tutti i principali commenti alla Commedia possono essere consultati su dante.dartmouth.edu.

[6] Par. 20, 85-90: «Poi appresso con l’occhio più acceso,/ lo benedetto segno mi rispuose/ per non tenermi in ammirar sospeso: “Io veggio che tu credi queste cose/ perch’io le dico, ma non vedi come:/ sì che, se son credute sono ascose”». Cfr. l’intero passo vv. 73-129.  

[7] Ibidem, 20, 112-117. Sulla filosofia medievale e la possibilità di salvezza per i pagani, cfr. M. Segato, Dante e la salvezza degli antichi, in «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», n. 1, 2012, pp. 49-80.

[8] Summa Theologiae, Suppl. III parte, 71, 5. Passo di S. Agostino in De cura pro mortuis, 16. Dante rievoca la redenzione di Traiano in Par. 20, 110-117. Lo stesso S. Agostino, poi, parla esplicitamente della possibilità di redenzione anche per le genti precristiane nella Epistola CII, 15: «fin dall’inizio del genere umano, ora in un modo più occulto, ora in un modo più evidente, a seconda che la divina Provvidenza ritenne opportuno alle varie epoche, da Adamo a Mosè non mancarono né le profezie né quelli che credettero in Cristo: non solo tra lo stesso popolo d’Israele (nel quale, per una speciale disposizione del piano salvifico di Dio, ci fu una stirpe di Profeti), ma pure tra altri popoli ancor prima dell’incarnazione»; cfr. M. Segato, Dante e la salvezza degli antichi, cit., pp. 65-66.

[9] Grande rilievo assume in questo quadro anche la inspiratio interna, di cui San Tommaso parla nel De Veritate [14, 11, 22] e, in virtù della quale, anche un selvaggio, mai venuto a contatto con nessuna forma profetica, può essere informato per volontà divina sui principi della fede.

[10] Agostino d’Ippona, Epistola CII, II, 15. Cfr. Segato, Dante e la salvezza degli antichi, cit., in particolare pp. 49-70. Nello stesso contributo si trova un approfondimento di grande interesse su Profeti e Sibille: annunciatori di Cristo? (pp. 70 sgg) che offre anche un interessante approfondimento su oracoli sibillini e profezie messianiche, con particolare riferimento sia all’Epistola CII che all’Epistola ad Romanos inchoata expositio dello stesso S. Agostino.

[11] Ap. 20, 12-15; «lo stagno di fuoco» nell’originale greco è λíµεν τoû πυρóς; esso rappresenta appunto il limine della seconda morte. Sulla sorte apocalittica dei gentili, cfr. anche Ap. 7, 9 e Par. 25, 91-96.

[12] Ibidem, 17, 8.

[13] Cfr. Ireneo di Lione, Contro le eresie, III, 11, 8; Ez. 1, 1-6; Ap. 4, 7.

[14] Inf. 1, 116-117. A rendere la redenzione di Triano ancora più miracolosa, si noti il fatto che egli sia “scampato” proprio a tale seconda morte, cfr. Par. 20, 116.

[15] Par. 20, 103-105.

[16] Ibidem, 20, 133-135.

[17] G. Pascoli, Sotto il velame, Saggio di un’interpretazione generale del poema sacro, Zanichelli, Bologna, 1912, p. 417: «Virgilio porta seco la certezza di ciò di cui non ha speranza e pure ha desio, con l’incoscienza d’allor quando portava, nella notte del paganesimo, il lume dietro sé. Ecco: quando egli dice, di quei del cimitero, che i loro sepolcri tutti saran serrati, “quando di Iosafat qui torneranno/ coi corpi che lassù hanno lasciati” [Inf. 10, 10-12], non pensa a ciò che di lui avverrà quando tornerà col corpo anch’esso. Egli, con i parvoli innocenti e con gli spiriti magni, ripasserà l’Acheronte; ma lo ripasserà da vivo e non più da morto. Or l’Acheronte per chi è vivo, è Lete; è il fiume della misericordia e non della dannazione; della rinascita e non della morte. Egli morrà alla morte e non della morte. Esso e i suoi piccoli e grandi compagni passeranno, e si troveranno nel paradiso terrestre. “Solo quelli che nasceranno un’altra volta, vedranno il regno dei cieli” [Giovanni, 3, 3]; ed essi, come tutti gli uomini, rinasceranno, e poiché non hanno di reo che un difetto, e questo sarà tolto dalla vista del supremo Giudice; così vedranno il regno dei cieli. Virgilio dice ch’egli e come gli altri nel limbo, sospeso; e non s’accorge del senso più ovvio della parola che pronunzia, e non ha coscienza di dire, che non eternalmente sarà così».

[18] Ibidem, p. 416: «Senza speranza? Eppur la voce di là delle fiamme cantava: Venite, benedicti… [Pg. 27, 58; Matteo, 25, 34]. Non c’era anche lui [Virgilio] con Dante e Stazio? Non benediceva anche lui quella voce?».

[19] Ivi.

[20] Cfr. Giovanni, 3, 16-18 e passi del Vangelo di Tommaso citati in epigrafe.

[21] Cfr. Convivio, II, 4, 17.

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