10 Aprile 2024
Gabriele D'Annunzio

Cento anni fa, a Fiume, la Costituzione più bella del mondo – Nicola Bizzi

La Costituzione della Repubblica Italiana, per quanto sia stata inevitabilmente frutto di innumerevoli compromessi fra le forze politiche scaturite dall’esito della Seconda Guerra Mondiale e dalla Resistenza, rappresenta indubbiamente agli occhi di tutto il mondo un vero e proprio gioiello giuridico che, dalla sua entrata in vigore il 1° Gennaio del 1948, ha garantito a generazioni di Italiani diritti, giustizia sociale e democrazia. Oggi, mentre l’Italia si trova oppressa da un Governo tecnocratico, dispotico e dittatoriale, completamente eterodiretto da forze e poteri sovranazionali – un Governo che si regge sullo stato d’emergenza e sul terrorismo psicologico e che, con il pretesto di una falsa “pandemia”, si arroga il diritto di reprimere ogni dissenso – stiamo assistendo a un evidente paradosso: chi scende in piazza per difendere la libertà e quegli inalienabili diritti politici e sociali sanciti dalla Costituzione, viene inesorabilmente tacciato di essere un “complottista”, un “negazionista” o addirittura un “fascista”. E, mai come oggi, la nostra Carta Costituzionale è stata così ignobilmente violata, calpestata e vilipesa proprio da coloro che su di essa hanno prestato solenne giuramento, in primis lo stesso Capo dello Stato, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Tutta questa indecorosa situazione dovrebbe spingerci a una profonda riflessione, non solo sul significato e sui limiti della democrazia (cosa che mi sono proposto di fare in un mio precedente articolo su Database Italia: https://www.databaseitalia.it/nicola-bizzi-riflessioni-sui-limiti-della-democrazia/), ma anche su importanti pagine della nostra Storia. Soprattutto se si tratta di pagine estremamente gloriose e ingiustamente dimenticate. E di una di queste pagine oggi, 8 Settembre 2020, ricorre il centenario. Cento anni fa, infatti, l’8 Settembre 1920, veniva promulgata a Fiume la Carta del Carnaro, definita «la più bella Costituzione del mondo», come ha osservato Marcello Veneziani in un articolo sul suo sito, ma anche la carta costituzionale più rivoluzionaria ed avanzata della Storia. Una carta costituzionale frutto dell’intenso e dinamico lavoro intellettuale di quegli uomini straordinari che si resero protagonisti, al fianco di Gabriele D’Annunzio, dell’Impresa di Fiume e della breve ma intensa stagione della Reggenza del Carnaro, un’esperienza rivoluzionaria che, come sappiamo, ebbe breve vita e che finì soffocata nel sangue per volontà dei Savoia e con le armi del Regio Esercito Italiano. Una carta costituzionale che fu fortemente ideata e voluta non solo da Gabriele D’Annunzio, ma anche da un altro grande libero muratore, il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris.

Alcuni anni fa ho avuto l’onore di pubblicare, in qualità di editore, un ottimo saggio dell’amico Giovanni Luigi Manco, Gabriele D’Annunzio e la Reggenza del Carnaro (Edizioni Aurora Boreale), un’opera che è stata definita dalla critica «una delle migliori e più complete fino ad oggi mai scritte sulla storia dell’Impresa di Fiume e della Reggenza del Carnaro». Sarò sempre grato all’autore, un fine intellettuale ed un caro amico, per aver contribuito a fare finalmente luce, sia su vicende storiche che hanno segnato in maniera indelebile la Storia del ‘900 e che dovrebbero ancora oggi rappresentare un faro luminoso per chi difende la libertà e la democrazia, sia sulla figura e la personalità di D’Annunzio. Una straordinaria figura, quella di Gabriele D’Annunzio. Non solo uno dei più grandi maestri e interpreti della nostra letteratura, tanto da essere stato incoronato con l’epiteto di “Vate”, ma anche un eroe di guerra, un fine filosofo e intellettuale, un rivoluzionario e un grande iniziato (fu 33° grado del Rito Scozzese Antico e Accettato e Superiore Incognito del Martinismo). Una figura oggi ritenuta “scomoda” e “ingombrante”, tanto da essere inconcepibilmente esclusa dai programmi scolastici; una figura odiata e temuta da una certa “sinistra” e mai realmente compresa (semmai solo strumentalizzata) da una certa “destra”. Come osservai nella mia prefazione a tale saggio, l’interpretazione della Reggenza di D’Annunzio a Fiume è stata fino ad oggi politica, solo volgarmente politica.

Giovanni Luigi Manco, attraverso una minuziosa analisi dei fatti, che dal quadro prettamente storico spazia anche su quello sociologico e filosofico, ci offre una visione del tutto inedita della figura di Gabriele D’Annunzio, un autentico rivoluzionario fuori dagli schemi, un uomo che, per sua stessa ammissione, non è mai stato “di destra” nel senso che diamo oggi a questa mera etichetta politica. Portato nel 1897 a Montecitorio dai liberali, il Vate così scrisse a un amico: «ho visto che qualche giornale mi presenta come candidato ministeriale di destra ma sai bene, meglio di un altro, che sarà stupenda la singolarità delle mie attitudini sui banchi di Montecitorio, io farò parte di me stesso». Infatti, appena due anni dopo, in pieno dissenso con la politica governativa di Pelloux, D’Annunzio abbandona i banchi del partito liberale per portarsi su quelli dell’estrema sinistra, affermando: «Scelgo la vita. Vado incontro alla vita!». Un’espressione che esprime tutta la sua ripulsa per il vecchio mondo, tutta la sua tensione per un vivere radicalmente nuovo. D’Annunzio a quel tempo frequenta i salotti e circoli dell’alta società non per piacere personale, ma per cavalcare astutamente l’universale mercificazione borghese, perfino della letteratura e della stessa immagine del letterato, senza farsene travolgere. Sfrutta a suo vantaggio i gusti della borghesia e le nuove possibilità offerte dalla logica di mercato. Apparentemente si lascia mercificare e asseconda la nuova moda dell’uomo oggetto, eternamente in vetrina, ma lo fa solo per ritagliarsi spazi di visibilità dai quali denunciare i guasti sociali. È nel potere ma non con il potere, è sempre in trincea, pronto a combattere e a colpire a morte il grigiore borghese. È D’Annunzio a denunciare per primo a Roma, nelle Cronache bizantine e nelle Vergini delle rocce, gli innumerevoli scempi naturalistici orditi dalla follia del lucro, armata di piccone e cazzuola. In un’intervista rilasciata diversi anni dopo a Randolfo Vella, pubblicata su un quotidiano degli anarchici, egli affermò: «sono per il comunismo senza dittatura (…). Nessuna meraviglia, poiché tutta la mia cultura è anarchica, e poiché in me è radicata la convinzione che, dopo quest’ultima guerra, la storia scioglierà un novello volo verso un audacissimo progresso. È mia intenzione fare di questa città un’isola spirituale dalla quale possa irradiare un’azione, eminentemente comunista, verso tutte le nazioni oppresse» (Umanità Nova, 9 Giugno 1920).

D’Annunzio ama l’anarchia nel senso etimologico dell’espressione: assenza di potere sovraordinato. Per anarchia intende, al pari di Proudhon, l’ordine al massimo livello creato e garantito dai lavoratori. Nucleo fondante della Carta del Carnaro fu infatti, come vedremo, la democrazia diretta, l’effettiva partecipazione dei lavoratori alla cosa pubblica. D’Annunzio, inoltre, apprezza ed elogia la carica anticonformista di Nietzsche, che è da lui magnificamente resa in un dittico rapido e intenso, La bestia elettiva, pubblicato dal Mattino il 25 e 26 Settembre 1892. Denunciando come il suffragio universale non si risolva che nella scelta pilotata, una volta ogni cinque o più anni, verso rappresentanti o faccendieri della borghesia che siederanno in Parlamento per opprimere il popolo (cioè i suoi elettori) e che la democrazia sia solo la maschera e l’inganno del potere di una sola classe, contribuisce notevolmente alla penetrazione delle idee e della filosofia di Nietzsche in Italia, allo stesso modo di Andrè Gide in Francia. Come osserva Manco, al padrone celeste e ai padroni terreni, ai falsi dogmi e pregiudizi, alla fuorviante morale, subentra l’Uber-mensch, l’oltre uomo che non cerca di affermarsi nella storia contingente (eternamente segnata dal ciclo temporale dell’eterno ritorno) ma nel contatto profondo con la natura che nella sensualità tipica della poesia dannunziana diviene aspirazione alla fusione totale dell’io con il cosmo, ebbrezza dell’immersione totale nella natura, secondo il principio del panismo. La storia, per D’Annunzio, implica un aprirsi, una completa disponibilità a sperimentare in prima persona, comprendere il nuovo con gli occhi di uno spirito libero. Coglie, dirà Sergio Solmi «dall’indeterminatezza ed evasività del mito nietzschiano del superuomo, un’aura, uno slancio».

Nell’elaborazione di D’Annunzio la figura del superuomo può essere interpretata anche come una risposta, il tentativo di reagire all’omologazione della società capitalistica, al prevalere dei meri interessi economici, fattori che sembrano destinati a far scomparire l’originalità dei singoli, a relegare l’intellettuale e la sua opera al ruolo di semplici “merci”. A un grande poeta, un mito vivente, giunge quindi, all’indomani della Grande Guerra, l’appello dei “giurati di Ronchi”, peraltro tutti Liberi Muratori. D’Annunzio comprende perfettamente i rischi e i pericoli a cui si espone abbracciando la causa dell’irredentismo fiumano, ma la sua indole non gli consente di tergiversare, si sentirebbe un vigliacco a tirarsi indietro. Non si lascia pregare, ed è lui, a bordo di una motocicletta, nascondendo il viso con un casco per non farsi riconoscere, a raggiungere Ronchi e prendere accordi con il maggiore Reina, giovane ufficiale pluridecorato, comandante del secondo Battaglione. Quando, il 5 Settembre del 1919, fiduciari di D’Annunzio comunicano il progetto di spedizione ai soldati di quella unità, l’entusiasmo è grande e pochissime sono le defezioni. Dal 5 al 10 giungono a Ronchi parecchi altri ufficiali, che si aggregano con entusiasmo al progetto di un’impresa destinata a restare nella storia. L’otto Settembre D’Annunzio ha un ultimo incontro preparatorio con Reina. Il dado ormai è tratto: non si torna indietro. Ha la febbre quando nel primo pomeriggio del 10 Settembre 1919 si imbarca, in divisa da Tenente Colonnello dei Lancieri di Novara, su un piroscafo e poi su un’auto, insieme al Tenente Guido Keller, asso della squadriglia aerea di Baracca. Alle tre del mattino del giorno giunge in caserma: le trombe suonano l’allarme e il secondo Battaglione si inquadra silenziosamente. Si impartisce l’ordine di portare appresso solo il tascapane con le cartucce, la coperta e la mantellina. Gli ufficiali invece di fare l’appello gridano: «chi non vuole partire resti!». Nessuno si tira indietro. Il Capitano comandante l’autoparco di Palmanova che, in base agli accordi pattuiti, doveva fornire 40 camion, non ha il coraggio di mantenere la promessa. Reina rimedia con un atto di forza. Fa salire sull’automobile di D’Annunzio una pattuglia di Arditi reggimentali ordinando di raggiungere Palmanova e farsi consegnare gli autocarri, minacciando, in caso di resistenza, morte. Ritornano poco dopo con 27 autocarri.

Il Maggiore Reina grida alle truppe: «Granatieri di Sardegna! Sotto l’ordine di Gabriele D’Annunzio il nostro eroico battaglione parte per una impresa nobilissima. Ci siamo assunti il compito di liberare Fiume nostra e di farla diventare italiana per sempre! Chi non ha cuore ci lasci!». I camion si riempiono di soldati e una colonna lunghissima si muove al seguito dell’automobile di D’Annunzio e Reina, sotto i raggi di una luna chiarissima. I 208 uomini iniziali diventano migliaia in breve tempo migliaia: giungono interi reparti in armi, circa diecimila uomini, di ogni provenienza e fede politica; inutili i tentativi governativi di fermare la colonna: l’evento si compie quasi naturalmente. Compagnie e battaglioni, in attesa lungo la via del percorso, all’apparire della colonna balzano in piedi al grido; «Viva il Poeta! Viva Fiume italiana!» e si uniscono alla marcia. Aderisce quasi tutta la brigata Sesia e vari reparti d’assalto con automobili blindate, delle quali, due, fornite di mitragliatrici, si pongono ai lati dell’automobile di D’Annunzio.

Il poeta ricorderà l’ebbrezza dell’impresa nel suo discorso del 31 Dicembre: «Compagni, chi dirà la nostra ebbrezza dei grandi giorni e delle grandi notti? Chi mai potrà imitare l’accento delle nostre canzoni e la cadenza dei nostri passi? Quali combattenti come noi marciarono verso l’avvenire? Tutto ardeva e riardeva, anche la mia malinconia; e non so che indistinta figura subentrasse al mio viso devastato. Ero come il mio compagno di destra, ero come il mio compagno di sinistra; ero come l’alpino, ero come il cannoniere. Mi accordavo con tutti, e tutti si accordavano con me. Altre volte avevo cantato a gara coi venti e coi flutti, con le fonti e con le selve, e con tutte le creature e con tutti gli spiriti della terra; e non m’ero mai sentito un cuore così vasto e così lieve come cantando in coro con uomini pesantemente calzati. Non eravamo una moltitudine grigia; eravamo un giovane Dio che ha rotto la catena foggiata col ferro delle cose avverse e cammina incontro a sé stesso avendo l’erba e la mota appiccicate alle calcagna nude. Eravamo liberi e nuovi. La volontà di rivolta e la volontà di rinnovazione creavano in noi un sentimento di libertà non conosciuto neppure dai più grandi precursori. Non disobbedivamo a nessuno poiché obbedivamo all’amore». Giunti a Cantrida, una autoblindo spezza la barra di confine. In prossimità di Fiume, precisamente a Mattuglia, la colonna è raggiunta dai battaglioni fiumani usciti dalla città, nella quale le campane della Torre civica suonano a festa accompagnate dal suono delle sirene. Viale Diciassette Settembre rigurgita di folla, fin dal giorno precedente. Dalle finestre è un continuo: «Viva D’Annunzio! Viva il liberatore! Viva Fiume italiana!». Le caserme occupate dagli Inglesi sono protette dalla brigata Regina. Obici e cannoni vengono piazzati a difesa della città. Il Generale Pittalunga assume provvedimenti per impedire alla colonna di avanzare: incarica diversi reparti di fermarla, ma questi, una volta raggiunto D’Annunzio, disertano e si pongono al suo seguito. Pittalunga affida allora a quattro compagnie, armate di mitragliatrici, l’ordine incontrovertibile di fermare la colonna, e queste, presso Castua, sbarrano la strada, occupano i campi laterali, piazzano le mitragliatrici.

D’Annunzio è impegnato a persuadere i comandanti a liberare la strada per evitare spargimento di sangue fraterno, quando sopraggiunge lo stesso generale Pittalunga, gridando: «Così si rovina l’Italia». Così gli risponde con molta calma il poeta: «Lei rovinerà l’Italia se si opporrà che i suoi giusti destini si compiano e si farà complice di una politica infame».

«Quali le vostre intenzioni?», chiese di rimando Pittalunga.

«Nemmeno un colpo di fucile. Ho dato quest’ordine e non tireranno se avremo il passo libero», rispose D’Annunzio.

Pittalunga non si lascia convincere. Le possibili conseguenze, continua ad osservare, sarebbero gravissime e incalcolabili. D’Annunzio allora lo mette a tacere con un segno della mano e con queste parole: «Ho capito. Ella farebbe sparare anche sui miei soldati, che sono fratelli dei suoi. Ebbene lo facciano, ma faccia prima fare fuoco su di me! (così dicendo mostra il petto con il distintivo della medaglia d’oro e quello dei mutilati) Qui faccia mirare!». La commozione, tra le truppe intorno, è quasi palpabile. Il Generale non osa più ribattere e gli stringe la mano: «Non io farò spargere sangue italiano, né sarò causa di lutto fratricida. Sono ben lieto ed onorato di questo mio incontro con voi, grande Poeta ed intrepido combattente. Vi auguro che il vostro sogno sia compiuto e con voi grido Viva Fiume italiana!». Gli sbarramenti e gli ostacoli vengono così rimossi e la colonna riparte. Alle undici e quarantacinque il popolo fiumano accoglie i 10.000 liberatori. L’entusiasmo popolare è incontenibile: un tripudio di bandiere sulle strade e sui balconi; applausi, canti, grida di esultanza, in una pioggia di fiori e petali di rose. D’Annunzio si fa largo tra la folla tra baci e strette di mano. Anche le autoblindo sono state coperte di fiori e hanno l’aspetto di carri trionfali. D’Annunzio raggiunge infine il palazzo del Comando. Dalla balconata il Presidente del Consiglio Nazionale, Grossich, ringrazia i soldati che hanno compiuto quello che i passati e presenti governi italiani non hanno saputo fare e il Sindaco Vio e il Colonnello Ripetto promettono la più ferma resistenza contro chi si metterà di traverso alla volontà dei fiumani. All’apparire del Poeta sul balcone del palazzo, si leva dal basso un enorme coro: «Viva il nostro liberatore! Viva Fiume!». Nessuno si accorge del suo pallore dovuto a una forte febbre. Il Vate così si rivolge alla folla: «Chiedo a voi, fiumani: confermate il vostro voto del 30 Ottobre?”». «SI!» è la corale risposta collettiva. D’Annunzio allora pronuncia queste parole: «Io, io combattente mutilato, rivolgendomi alla Francia di Victor Hugo, all’Inghilterra di Milton e all’America di Lincoln, proclamo l’annessione di Fiume all’Italia». Segue un’ovazione di applausi, di grida, lanci di fiori. La città è in festa nonostante il profilarsi di navi da guerra all’orizzonte.

Da una cassetta un Tenente degli Arditi estrae una bandiera e il Poeta la spiega al vento. Quindi si ritira dal balcone nell’atrio interno dove il generale Pittalunga gli rassegna il comando della città. Alle 12,30 si ammainano le bandiere delle truppe alleate che presidiavano la città e si innalza il tricolore. Nitti, presidente del Consiglio, condanna duramente in Parlamento l’impresa, minaccia provvedimenti e ordina ai militari che lo hanno seguito di rientrare immediatamente nei rispettivi reparti. «Cosa fatta capo ha», la risposta secca, lapidaria di D’Annunzio. Uno scontro frontale appare subito rischioso e pericoloso. Al generale Di Robilant, disposto a sventare l’occupazione, Nitti sostituisce come commissario straordinario per la Venezia Giulia, Badoglio, il quale, fin dai primi giorni dell’incarico, confessa di riuscire a stento a trattenere le truppe dal prendere parte all’impresa. D’Annunzio, scrive, «è per tutti l’idolo, il nuovo Garibaldi». Il Vate è amato, ammirato, quasi venerato ma egli non vuole affatto esserlo; finalmente opera per la causa, combatte il “sistema” direttamente, in prima linea, non vuol più brillare in vetrina “merce tra merci”. Non vuole e non lo consente: «L’altro giorno uno di loro voleva baciarmi la mano e come mi difendevo egli cadde in ginocchio, allora anch’io mi misi in ginocchio davanti e rimasi così un poco a faccia a faccia, come quei donatori nelle vecchie tavole d’altare, io ero da meno e perciò non volli rialzarmi se non dopo di lui, così oggi chiedo perdono ai poveri di Fiume. Non offro denaro che è scarso e vile, offro il mio amore che si inginocchia». Questo era D’Annunzio.

Il Governo italiano sanziona l’impresa con il blocco per mare e per terra. La sopravvivenza comunitaria è subito difficile ma si rimedia con “l’economia pirata”, inaugurata il 10 Ottobre 1919. Quattro “fiduciari” si imbarcano clandestinamente sul piroscafo Persia del Lloyd di Trieste, carico di munizioni e viveri e convincono l’equipaggio a sbarcare “volontariamente” a Fiume. Organizza l’azione il Capitano di Lungo Corso Giuseppe Giulietti, tra i primi ad aderire all’impresa fiumana nella convinzione che l’iniziativa sia il miglior esperimento rivoluzionario dopo l’insurrezione bolscevica del ’17. La nave trasportava un carico di armi destinate alle truppe antibolsceviche della Russia “bianca”. L’azione venne così rivendicata: «In difesa del proletariato russo abbiamo fatto del nostro meglio per impedire tale trasporto (…) I mezzi che dovevano servire a combattere la libertà e la redenzione del popolo russo serviranno per la libertà e la redenzione del popolo fiumano». Nel comunicato che il Capitano Giulietti fa stampare per far luce sull’episodio e smentire le faziose versioni della stampa ufficiale, si legge: «in difesa del proletariato russo abbiamo fatto del nostro meglio per impedire tale trasporto. I mezzi che dovevano servire a combattere la redenzione del popolo russo serviranno per la libertà e per la redenzione del popolo fiumano».

Bellissime le considerazioni di D’Annunzio in una lettera che scrisse a Giulietti il 15 Ottobre 1919: «La bandiera dei lavoratori del mare issata sull’albero di maestra, quando la nave Persia stava per entrare nel porto di Fiume con il suo carico sospetto, confermò non soltanto la santità ma l’universalità della nostra causa. La federazione dopo averci arditamente mostrato il suo consenso e dato il suo aiuto, ci fornisce armi per la giustizia, armi per la libertà, togliendole a reazioni oscure contro un altro popolo, non confessate. Teniamo le armi e teniamo la nave. Adopereremo le armi, senza esitazione e senza misura contro chiunque venga a minacciare la città che abbiamo per sempre liberata. D’accordo con te e con i tuoi compagni, consideriamo la nave come un pegno contro la malafede che di indugio in indugio tenta di sottrarsi alle promesse e ai patti. E confidiamo che la Federazione ci sostenga con tutta la sua potenza a impedire che il governo antinazionale distrugga a profitto di stranieri l’ordine commercial fiumano e continui a rovinare il traffico del porto e ad affamare i lavoratori. Ringrazio te che all’improvviso ci hai portato il tuo ardore allegro, il tuo vigore costitutivo, la tua fede guerreggiante. E nuovamente ringrazio i quattro tuoi arditi che mutarono la rotta della nave dolosa con un colpo maestro, rapido, preciso, irresistibile, nello stile dei Ronchi. Dalla carbonaia nera, come dal nostro cimitero carsico, balzò lo spirito. La causa di Fiume non è la causa del suolo: è la causa dell’anima, è la causa dell’immortalità. Questo gli sciocchi e i vigliacchi ignorano o disconoscono o falsano. Tutti i miei soldati lo sanno, lo hanno compreso e divinato. È bello che lo sappiano e l’abbiano compreso. (…) Dall’indomabile Sinn Fein d’Irlanda alla bandiera rossa che in Egitto unisce la Mezzaluna e la Croce, tutte le insurrezioni dello spirito contro i divoratori di carne cruda sono per riaccendersi alle nostre faville che volano lontano. Il mio compito di lavoratore del Carnaro, caro compagno, consiste nel far prevalere e risplendere la bellezza ignuda e forte della conquista da me presentita. Arrivederci, capitano Giulietti. Certo, il buon sale marino preserva la federazione da ogni corrompimento. Siamo tranquilli. E, se tener duro è bene, assaltare è meglio».

L’impresa di Fiume svela fin dai primissimi giorni un sorprendente ed autentico spirito rivoluzionario. Ai primi di Ottobre Enrico Corradini si reca a Fiume, a raccontarlo è Giuriati, «per invitare D’Annunzio a uscire dalla città, a estendere la sua azione prima alla Venezia Giulia, poi alle altre province, successivamente a Roma». Già c’erano stati contatti e incontri segreti con repubblicani che intravedevano nel movimento dannunziano l’inizio della decadenza monarchica e il sorgere dell’era repubblicana. E D’Annunzio pensa sinceramente alla possibilità di trasformare l’impresa in un grande “atto di vita”, dagli orizzonti ben più ampi dei limiti della città. Lo lascia intendere chiaramente nel suo discorso del 24 Ottobre 1919: «(…) L’impero vorace che s’è impadronito della Persia, della Mesopotamia, della nuova Arabia, di gran parte dell’Africa, e non è mai sazio, può mandare su noi quegli stessi carnefici aerei che in Egitto non si vergognarono di fare stragi d’insorti non armati se non di rami d’albero. L’impero ingordo che guata Costantinopoli, che dissimula il possesso di almeno un terzo della vastità cinese, che acquista tutte le isole del Pacifico sotto l’equatore con le enormi ricchezze, e non è mai sazio, può adoperare contro di noi gli stessi “mezzi di esecuzione” adoperati contro il popolo smunto del Pundjab e denunziati dal poeta Rabindranath Tagore “tali da non aver paragone in tutta la storia dei governi civili”. Noi saremo pur sempre vittoriosi. Tutti gli insorti di tutte le stirpi si raccoglieranno sotto il nostro segno. E gli inermi saranno armati. E la forza sarà opposta alla forza. È la nuova crociata di tutte le nazioni povere e impoverite, la nuova crociata di tutti gli uomini poveri e liberi, contro le nazioni usurpatrici e accumulatrici d’ogni ricchezza, contro le razze da preda e contro la casta degli usurai che sfruttarono ieri la guerra per sfruttare oggi la pace, la crociata novissima ristabilirà quella giustizia vera da un maniaco gelido crocifissa con quattordici chiodi spuntati e con un martello preso in prestito al Cancelliere tedesco del “pezzo di carta”.

Fiumani, Italiani, il 18 Maggio 1919, quando gridaste in faccia al Consiglio Supremo che la storia scritta col più generoso sangue italiano non poteva fermarsi a Parigi e che voi attendevate di piè fermo la violenza da qualunque parte essa venisse, voi annunziaste il crollo del vecchio mondo. Per ciò la vostra causa è la più grande e la più bella che sia oggi opposta alla demenza e alla viltà di quel mondo. Essa si inarca dall’Irlanda all’Egitto, dalla Russia agli Stati Uniti, dalla Romania all’India. Essa raccoglie le stirpi bianche e le stirpi di colore, concilia il Vangelo e il Corano, il Cristianesimo e l’Islam; salda in una sola volontà di rivolta quanti uomini posseggano nelle ossa e nelle arterie sale e ferro bastevoli ad alimentare la loro azione plastica. Ogni insurrezione è uno sforzo d’espressione, uno sforzo di creazione. Non importa che sia interrotta nel sangue, purché i superstiti trasmettano all’avvenire, con lo spirito di libertà e di novità, l’istinto profondo dei rapporti indistruttibili che li collegano alla loro origine e al loro suolo. Oppugnare in me, oppugnare in voi la speranza nel giorno prossimo è tentativo stupido e vano. Per tutti i combattenti, portatori di croce che hanno salito il loro calvario di quattr’anni, è tempo di precipitarsi sopra l’avvenire. Cittadini di Fiume, il vòto che vi è chiesto non vi è chiesto perché si pensi di poter oggi foggiare gli strumenti della vostra novella vita civica. Non è questa l’ora delle lotte singolari, non dei dissidii, non dei sospetti, non dei rancori. E i nomi non valgono. Nessun nome vale fuorché quello della Città Olocausta. Non v’è chiesto un vòto: v’è chiesto un fuoco più forte d’ogni altro vostro fuoco, v’è chiesta una fiamma più alta di ogni altra vostra fiamma. V’è chiesta la fusione magnanima della concordia, per la nostra causa, per la causa che trascende il nostro numero e il nostro potere. Abbiamo ascoltato la campana di Arbe in attesa e in tristezza. Abbiamo ascoltato la Granda: bel nome per una voce che debba essere udita da lontano. Quando Battista il fonditore, fervido all’opera nella passione della città sua, si accorse che non bastava il metallo, turbato si rivolse ai cittadini: gittò grido a tutto il suo popolo. E i cittadini, uomini e donne, accorsero; e gittarono a gara tutti gli ori e tutti gli argenti nella fornace che ruggiva. E la Granda ebbe “un’anima d’oro”, d’argento e d’amore”; la Granda ebbe una voce inimitabile, che tocca nel profondo quanti la odono e anche oggi si distingue fra tutte nel Carnaro della Terza rima. Popolo di Fiume, non t’è chiesto il vòto della scelta, il vòto pel tuo ordine civico di domani. T’è chiesto un atto d’amore e di fervore, un atto di umanità solenne, una parola che sia degna di tutte le altre tue parole eroiche, una voce che s’oda per tutto il tuo mare e giunga all’altra sponda e passi su Roma sorda e vada più oltre, e si propaghi in tutto quel Mediterraneo che portò i misteri umani e divini del Caucasi e del Calvario, e trascorra ancor più oltre, e superi il termine dell’Ulisse dantesco, e valichi l’Oceano, e penetri nel cuore balzante di tutti gli uomini liberi. Vi sono molte aurore che ancòra non nacquero. Gloria alla Terra!».

A Novembre giunge a Fiume il poeta e musicista belga Léon Kochnitzky, per un’intervista al Comandante sull’Indipendence Belge, ma decide di restare e il 12 Gennaio 1920 assume l’incarico di capo dell’Ufficio relazioni esteriori al fianco di due altri letterati, Ludovico Toeplitz e Giovanni Comisso, e dello statunitense Henry Furst. Il 2 Febbraio D’Annunzio torna sullo stesso tema con maggiore intransigenza: «Liberiamoci dall’Occidente che non ci ama e non ci vuole. Volgiamo le spalle al’Occidente che ogni giorno più si sterilisce e s’infetta e disonora in ostinate ingiustizie e in ostinate servitù. Separiamoci dall’Occidente degenere che, dimentico d’aver contenuto nel suo nome lo splendore dello spirito senza tramonto, è divento una immensa banca in servizio della spietata plutocrazia transatlantica». Con questo spirito promuove una anti-Società delle Nazioni, una lega dei popoli oppressi, colonizzati e sfruttati, contro le grandi potenze imperialistiche. Attraverso la Lega si propone di creare un collegamento con tutte quelle forze che nei paesi poveri sono in lotta o in contrasto con la politica della Società delle Nazioni e in particolare con Francia e dell’Inghilterra, le due potenze che, insieme agli Stati Uniti, si oppongono alla causa di Fiume, al riscatto dei popoli oppressi e un nuovo ordine di giustizia sociale. Ideata per trasferire sul piano internazionale la lotta del fiumanesimo contro le grandi potenze imperialistiche e i governi ad esse legati direttamente o indirettamente, la Lega fa già comprendere quanto sia grande lo spirito rivoluzionario dell’impresa.

La costituenda Lega di Fiume, aperta ai rappresentanti dei popoli oppressi, dei paesi lesi ingiustamente dalla conferenza di Versailles e dei partiti e gruppi solidali con un programma di rivoluzione sociale, è affidata a Leone Kochnitzky. Questi, con il consenso di D’Annunzio, si propone, attraverso la Lega, di «raggruppare in un fascio compatto le forze di tutti gli oppressi della terra, popoli, nazioni, razze, etc., e di poter con questo mezzo combattere e vincere gli organismi sopraffattori ed imperialisti i quali (come l’Impero britannico per esempio) mirano ad assoggettare alla loro onnipotenza finanziaria i più sacri sentimenti degli uomini: fede, amor patrio, dignità individuale e sociale». Per realizzare questo scopo, essa sarebbe dovuta essere «completamente indipendente tanto dal Comando militare di Fiume quanto dal Potere civile della Città e posta sotto la direzione personale del Comandante Gabriele D’Annunzio».

Simpatizzante della Russia dei Soviet, Kochnitzky chiama a collaborare con lui nella Lega Henry Furst, statunitense di estrema sinistra, e Nikola Sisa, ex commissario del popolo nel governo dei Consigli nell’Ungheria di Bela Kun, quindi esiliato dall’ammiraglio Horty. E alla Lega invita ad aderire: «I rappresentanti dei popoli oppressi: Fiume d’Italia, Isole, Dalmazia, Albania, Austria tedesca, Montenegro, Croazia, Irredenti tedeschi ora soggetti della Polonia, della Ceco-Slovachia, della Francia, dell’Italia (con riserve: autonomia) e della pseudo Lega delle Nazioni, Catalani, Maltesi, Gibilterra, Irlanda, Fiamminghi, Islam, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Palestina, Mesopotamia, India, Persia, Afghanistan». In concreto cerca di stabilire una fattiva collaborazione con i Croati, i contadini socialdemocratici, i separatisti albanesi e montenegrini, i comunisti ungheresi in fuga dall’Ungheria bianca. Fiume vuole, deve essere «l’isola di prodigio che avrebbe dovuto muoversi attraverso gli oceani, portando la sua luce incandescente ai continenti affogati nel buio dell’affarismo brutale». La guerra ha fatto cadere le aquile in Austria, Germania, Russia. L’occupazione di Fiume è ora per D’Annunzio l’occasione per far cadere le aquile anche in Italia e nel mondo. L’impresa e le parole di D’Annunzio piacciono ai futuristi, ansiosi di dare uno sbocco politico alla loro esperienza estetica. Il Futurismo, l’arte nuova, antesignana di tutte le avanguardie (arte ufficiale, per un certo periodo, della rivoluzione nell’Unione Sovietica) è, vuol essere, la “protesta contro la tradizione, insofferenza verso la burocrazia, lotta contro i Musei, contro il classicismo. Il futurismo celebra la velocità, è l’arte del verso libero, della frase libera, della parola in libertà anzi dell’abolizione delle parole e dell’arte, del tatto e dei rumori». Filippo Tommaso Marinetti è il primo grande esponente della cultura a raggiungere Fiume.

Antonio Gramsci è sinceramente interessato all’azione di D’Annunzio e tenta di ottenere, attraverso, il tenente comunista della Legione di Fiume, Marco Giordano, un colloquio con lui. Al contempo, solidarizza e riconosce che «la rivolta dannunziana contro il vassallaggio imposto dall’Inghilterra e dalla Francia all’Italia è anche una nostra rivolta». Il Club Dada berlinese, dalle pagine del Corriere della Sera, celebra l’occupazione fiumana come «grandiosa impresa dadaista»; nel contempo provvede ad aggiornare l’atlante mondiale dei dadaisti, DADAKO (editore Kurt Woff, Lipsia), riconoscendo Fiume città italiana. L’appoggio del Club Dada all’impresa fiumana è inoltre sostenuto e firmato proprio dai tre maggiori artisti impegnati nella sinistra radicale tedesca: Huelsenbeck, Baader e Grosz. Errico Malatesta, uno dei maggiori rivoluzionari del ‘900, immancabilmente presente sulla scena mondiale e ai principali moti insurrezionali italiani, protagonista delle radiose giornate della Comune di

Parigi come della Settimana Rossa di Ancona, corona il proprio impegno democratico proprio partecipando alla temperie rivoluzionaria sulle sponde orientali dell’adriatico. Esperienza concomitante alla personale fondazione e direzione del quotidiano anarchico Umanità Nova. Giunge a Fiume a bordo di un piroscafo, accolto trionfalmente da una marea umana, in prima fila Marinetti, che tanto ha fatto per liberarlo dalle patrie galere. Malatesta non cerca e non vuole posti di comando, gli basta che il giornale della reggenza, La testa di ferro, sia aperto agli anarchici e di poter offrire il suo contributo. Il potere personale lo disgusta, non è questo che vuole.

Francesco Saverio Nitti, molto allarmato, scrive a Vittorio Emanuele III°: «I movimenti per Fiume sono in gran parte movimenti per la costituente. Da carte sequestrate e da corrispondenza intercettata risulta che è sopra tutto il partito repubblicano che eccita movimenti di combattenti e spesso in molte province i movimenti hanno carattere repubblicano aperto o larvato per la costituente». I Savoia cominciavano a tremare e non dormivano in quei giorni sonni tranquilli. L’occupazione di Fiume si presenta in effetti come l’occasione per far cadere le aquile anche in Italia. D’Annunzio ne è consapevole. Scrive a Giuseppe Giulietti, segretario della Federazione dei Lavoratori del Mare: «Oggi, qualunque sforzo di liberazione non può partire se non da Fiume. Per una più vasta impresa sociale, io debbo partire da qui. (…) La nuova parola parte da qui. Qui le nuove forme di vita non soltanto si disegnano ma si compiono. (…) In nessun luogo della terra si respira la libertà come in questo. Quarnaro che è simile a un “mare futuro”. (…) Io sono rientrato nel popolo che mi generò. Sono mescolato alla sua sostanza. Vivo coi soldati semplici, semplice soldato. Divido il rancio con loro. Cammino al loro fianco. Canto le loro canzoni. Parlo il loro linguaggio. Divento il loro interprete rude. Se tu assistessi a certi spettacoli umani, qui, comprenderesti che la vera “novità” di vita non è là dove la dottrina di Lenin si smarrisce nel sangue. Il cardo bolscevico si muta qui in rosa italiana: in rosa d’amore. (…) Nessuno è più pronto di me per la grande azione. Tutte le strutture che ci ingombrano io le ho già rovesciate. E io sono interamente fuori dal cerchio delle istituzioni sterili e delle leggi esauste».

Intento, volontà, che comunica anche ai legionari, al popolo: «Compagni, lassù, laggiù, a settentrione, a oriente, lo spirito della vita nuova si travaglia nell’orrore. Qui si scrolla nell’ardore, si placa nell’amore. La novità di vita non è Odessa, è a Fiume; non è sul Mar Nero, è sul Carnaro. Non v’è luogo della terra dove l’anima umana sia più libera e più nuova che su questa riva. Compagni, alla fine dell’anno mirabile, celebriamo questa creazione e preserviamo questo privilegio. Dissi già una volta che, creata dall’amore, una volontà divina conduce le forze adunate in questa riva angusta per opporsi alla perversione e alla demenza del mondo. Nei nostri corpi miseri, nelle nostre anime umili, abitano e operano le forze eterne. E non siamo noi gli artefici della grandezza, ma una grandezza ideale trascende i nostri pensieri e i nostri atti, sovrasta a noi e al mondo. E tutto si compie secondo un’armonia imperiosa, per cui anche la sciagura e la colpa assumono una bellezza necessaria cioè creatrice».

I legami tra fiumanesimo e movimento operaio internazionale sono frequenti, e quelli tra la Reggenza di Fiume e il potere Sovietico sono rafforzati da una consistente ala filosovietica all’interno della Legione di Fiume. Grazie alla Russia la città di Fiume ottiene grano e materie prime ad un costo adeguato alla perdita di valore della moneta fiumana. Il “bolscevismo” di D’Annunzio è un duro colpo per la società borghese. La sua impresa suscita entusiasmo, patriottismo, spirito rivoluzionario, e, inevitabilmente, preoccupazione e sgomento negli ambienti reazionari. D’Annunzio ama l’anarchia nel senso etimologico dell’espressione: assenza di potere sovraordinato. Per anarchia non intende il caos, ma l’ordine al massimo livello che nasce dalla base, creato e garantito dai lavoratori. È, a suo modo, un socialista ma, sulla scia dello stesso Marx che, nel 18 Brumaio, scrive: «Per prendere coscienza del proprio contenuto, la rivoluzione del secolo deve lasciare che i morti seppelliscano i loro morti, prima la frase sopraffaceva il contenuto; ora il contenuto trionfa sulla frase», considera pregiudizievole alla causa ogni approccio fondamentalistico, è persuaso che ogni teoria politica debba essere doverosamente ripensata ed eventualmente diversificata con l’evolversi delle situazioni.

Intanto, il 16 Novembre le nuove elezioni per il Parlamento italiano portano alla Camera 158 deputati socialisti e 100 popolari. Esito molto preoccupante per le forze della conservazione. In questo clima, in questo agitarsi di forze emergenti, Fiume assurge a simbolo. Obtorto collo si apre una trattativa tra il Governo italiano e la Reggenza di Fiume. Un accordo sembra andare in porto alla fine dell’anno: la costituzione di Fiume in città libera, presidiata da truppe italiane. D’Annunzio dovrebbe ritenersi soddisfatto e lo sarebbe senz’altro se la sua impresa fosse stata dettata esclusivamente da un intento nazionale, ma non è così. Prima pone la condizione di sottoporre l’accordo a plebiscito, ma poi ci ripensa e chiude la porta a ogni trattativa. La decisione del Vate crea sconcerto. Sono in molti in Italia e nella stessa Fiume a non capire. Il capo del Gabinetto del Comando fiumano, Giurati, si dimette. Il 5 Gennaio Giuseppe Giulietti scrive a D’Annunzio: «Carissimo Comandante, sono, resterò sempre della stessa idea nei riguardi di Fiume quale simbolo di libertà nazionale e internazionale. Contro il ricatto sistematico che il capitalismo franco-anglo-americano esercita in danno di questa libertà, bisogna insorgere, abbattere specialmente coloro che a scopi di conservatorismo istituzionale o capitalistico tale ricatto intendono subire. Il capitalismo non può risolvere il problema di Fiume secondo giustizia perché teme la inevitabile rappresaglia del capitalismo franco-anglo-americano. Il problema può quindi essere risolto solo da un colpo di mano rivoluzionario compiuto di comune accordo tra i legionari da te comandati e i lavoratori organizzati e guidati da libertari

come Malatesta ed altri capi dello stesso stampo. Perché simile accordo sia possibile è necessario stabilire che la rivoluzione così compiuta deve condurre alla liberazione di Fiume non solo ma alla redenzione economica di tutti i lavoratori nel senso di sostituire alle attuali istituzioni una società in cui ogni lavoratore goda integralmente il frutto del proprio lavoro: in altri termini deve condurre alla repubblica sociale. Tu e Malatesta siete due libertari pronti a dare la vita per l’ideale da cui siete infiammati. Avete battuto strade diverse, apparentemente opposte, ma in realtà conducenti allo stesso fine, perché entrambi – tu e lui – capaci, disposti, vivamente disposti, di gettare la vita nella voragine della sorte o del destino, per una Fede di Giustizia e di Amore. Gli uomini che agiscono per denaro o per altre vane ambizioni vi odiano e vi temono. Io vi ammiro e vi riconosco entrambi miei fratelli di fede e di azione. Bisogna demolire ogni forma di società capace di provocare altre guerre. Fiume sia la scintilla che provocherà l’incendio capace di bruciare sull’Europa e sul mondo il brutale regime del dio dell’oro». La rivoluzione in Italia è infatti un’effettiva possibilità. Il malcontento è grande quanto il Governo è debole. Il Presidente del Consiglio prende in seria considerazione la minaccia dei legionari di acclamare D’Annunzio “capo dell’organizzazione bolscevica”, di una “repubblica comunista sovviettista” da estendere prima nella Venezia Giulia e poi in tutta Italia.

Ad aggravare le paure si aggiungono i ferrovieri di Pisa e Livorno in sciopero, con la loro risoluzione di non collaborare con il Governo nazionale, di non trasportare soldati, guardie, Carabinieri, nell’eventualità di uno scontro con la Repubblica fiumana. Si inserisce in questo contesto il tentativo di putsch che i vertici fiumani studiano di realizzare approfittando dello sciopero dei postelegrafonici e ferrovieri, indetto per la seconda metà del Gennaio 1920. Una insurrezione con sbarchi di uomini e carri provenienti da Fiume, sulla costa adriatica, destinata a concludersi con una marcia su Roma. Un colpo di Stato in piena regola che avrebbe dovuto però contare sull’attivo sostegno degli stati maggiori del movimento operaio. Si allacciano inoltre contatti e incontri segreti con i mazziniani che vedono nel movimento nel movimento dannunziano «l’inizio della decadenza monarchica e il sorgere dell’era repubblicana».

De Ambris, succeduto a Giurati nel Comando di Fiume, e Giulietti prendono contatti con Malatesta che non mostra nessuna incertezza nello sfruttare la situazione determinata dall’impresa fiumana per compiere un tentativo insurrezionale in stile anarchico. L’intento è quello di colpire al cuore il sistema capitalistico che mercifica il lavoro umano e divide il lavoratore dalla sua produzione, confinandolo ai margini della vita sociale. Giulietti incontra a Firenze il socialista Serrati, i sindacalisti della C.G.I.L., il comunista Bombacci. Quest’ultimo, fondatore del Partito Comunista e intimo con Lenin, mostra disponibilità. Naturalmente il definitivo assenso ha bisogno di tempo per maturare. Intanto, l’otto Settembre Fiume è ufficialmente una repubblica indipendente e viene promulgata la Carta del Carnaro, che sarebbe entrata in vigore a partire dal 22 Settembre. Lo stesso giorno giunge a Fiume, a bordo del bianco yacht Elettra, Guglielmo Marconi. Il grande scienziato celebra con il grande poeta l’evento. D‘Annunzio, dal balcone del Palazzo del Governo, si inchina al «mago degli spazi, al dominatore delle energie cosmiche» che, nella sua umiltà, inizia a collaborare con gli operai per installare a Fiume la stazione radio. Tenterò qui di seguito di riassumere le tappe che portarono alla stesura di quella straordinaria carta costituzionale passata alla Storia come la Carta del Carnaro. Abbiamo visto che il 3 Gennaio del 1920 il comandante D’Annunzio fece succedere a Giovanni Giurati, a Capo di Gabinetto di Comando di Fiume, proprio il fidato libero muratore Alceste De Ambris. Due mesi dopo, il 18 Marzo, questi comincia a lavorare alla stesura di una Costituzione chiaramente ispirata al programma stilato alla fine della Settimana rossa, come pure alle Ideès sur l’organisation sociale di Guillame; in pratica una superba, magnifica combinazione dell’associazionismo mazziniano con il federalismo bakuniniano. Due obiettivi che si integrano e giustificano a vicenda: sul piano interno per fare della Repubblica di Fiume, «con la sua costituzione corporativa, una prima cellula modello, un nucleo di cristallizzazione intorno al quale si sarebbe dovuta organizzare l’Italia tutta»; sul piano esterno per collegare il movimento fiumano con le sinistre italiane e con le forze sovversive, in vista di una proiezione rivoluzionaria in Italia, e più in genere, con tutte quelle forze che nei vari paesi oppressi erano in lotta o in contrasto con la politica della Società delle Nazioni e in particolare con quella della Francia e dell’Inghilterra che, insieme agli Stati Uniti, si oppongono alla causa di Fiume e sostengono la Jugoslavia.

De Ambris invia poi la bozza della Costituzione a D’Annunzio insieme a questa lettera: «(…) soltanto la strania prepotenza, che non ci è dato di debellare per la nostra pochezza numerica e per la viltà di chi regge lo Stato italiano ci costringe a ricercare l’estrema difesa del Diritto di Fiume in un suo ordinamento politico indipendente. Dopo aver constatato l’impossibilità attuale di smuovere l’ottusa ostinazione che i governanti dell’Italia hanno messo con tanto zelo al servizio della rapacità capitalistica internazionale, ci siamo dovuti convincere che i termini del problema fiumano non sono più quelli di sei mesi or sono. Oggi l’invocata annessione di Fiume allo Stato italiano appare impossibile, ed è per questo, unicamente per questo, che riconosciamo la necessità di costituire fiume in Repubblica come unico mezzo che ancora ci resta per salvaguardare i diritti che si vogliono calpestare ed i beni che ci vogliono usurpare, per opera di quel trust mondiale degli stati ricchi che ha assunto per irrisione il nome di Società delle Nazioni.

È opportuno che non si lasci sorgere equivoco a questo proposito. Noi siamo ancora e sempre per l’annessione di Fiume allo Stato italiano, e la sua costituzione in Repubblica non è che l’estrema difesa opposta alla rapacità ed alla tirannia di coloro che, dopo aver vinto, tradiscono nella maniera più aperta ed oscena i principi proclamati durante la guerra. Questa difesa ci viene imposta non da una nostra preferenza, ma dal rinnegamento che l’Italia ufficiale ha fatto di Fiume. Se domani l’annessione si ravvisasse nuovamente possibile, noi torneremmo a propugnarla con la stessa fede di ieri, nella sicurezza ch’essa sia la garanzia più valida per il diritto di Fiume. Oggi, però, dobbiamo riconoscere che non è più possibile prolungare uno stato di provvisorietà che finirebbe coll’esaurire lentamente tutte le riserve della resistenza fiumana, mettendoci nell’impossibilità di vivere senza industrie, senza commerci, senza moneta avente capacità d’acquisto, senza nessuno degli elementi indispensabili all’esistenza di un popolo civile. Non abbiamo da scegliere. La costituzione di Fiume in Repubblica è il solo mezzo per non perire in una forma d’immobilità suicida. Ma Tu bene illustravi questo concetto che io vorrei poter ripetere con le Tue stesse parole piene di vigore: Poiché la prepotenza e la viltà che dominano il Mondo ci costringono a tanto, diamo al Mondo l’esempio di una Costituzione che in sé accolga tutte le libertà e tutte le audacie del pensiero moderno, facendo rivivere le più nobili e gloriose tradizioni della nostra stirpe. Una costituzione veramente latina, che fucini e tempri nell’antica civiltà del nostro popolo quanto di più vero gli altri popoli ci offrono come norma di vita collettiva. Così Fiume perpetuerà la sua missione e rimarrà, quale Tu l’hai voluta e fatta, un faro lucente nel tenebrore in cui brancolano le genti in cerca di una via. Impresa superba ed ardua, tale da incutere spavento ad ognuno che non respiri quest’aria. Ma chi vive a Fiume – Tu ce lo hai insegnato – non può spaventarsi di nulla, e noi ci siamo accinti all’opera immensa senza tremare. Con la stessa serenità presentiamo oggi l’opera conclusa al giudizio del popolo (…) non c’illudiamo d’aver fatto cosa perfetta, e perciò il disegno di Costituzione offre la possibilità di una revisione non appena l’esperienza ne abbia dimostrato le manchevolezze. A coloro poi che troveranno questo disegno troppo audace rispondiamo fin d’ora che una sana audacia può evitare il tormento di lunghe convulsioni violente, da poi che le novità che sono accolte nella Costituzione rappresentano il minimo delle aspirazioni che agitano il mondo in quest’ora di crisi dolorosa e feconda.

A coloro invece che troveranno troppo timida la nostra opera rispondiamo che abbiamo cercato di costruire sulla realtà. Nulla ci spaventa. Ma noi sappiamo che la legge non può creare le forze nuove ed i fatti che scaturiscono dalla coscienza delle masse e dalle necessità che le sospingono. La legge può soltanto codificare uno stato di fatto che diviene all’infuori di essa, nel giuoco dei contrasti economici e con la formazione di nuove capacità tecniche e morali. Abbiamo cercato di far sì che la legge fondamentale della Repubblica fosse non già una barriera, ma piuttosto una via aperta verso l’avvenire. Agli uomini di buona volontà spetta di suscitare le forze perché il cammino della nostra generazione e di quelle che verranno sia rapido e lungo. Non noi certamente avremo paura d’andar più lontano, ché il nostro posto non fu mai, in nessun campo, fra la retroguardia». D’Annunzio approva con qualche aggiunta e variazione, conferendo al testo un vibrante tono aulico.

La Carta del Carnaro, come evidenzia Giovanni Luigi Manco nel suo saggio, è la prima Costituzione al mondo a configurare un compiuto ordinamento sostanzialmente democratico, strutturato dal basso verso l’alto, attraverso la libera associazione, la federazione, che raccoglie il meglio del pensiero rinascimentale, illuminista, liberale classico, libertario, sindacal-rivoluzionario. Un sistema volto alla partecipazione e responsabilizzazione, nettamente diverso sia da quello borghese che da quello bolscevico, entrambi riducibili ad una difesa di un’autorità illegittima. Una Costituzione rivoluzionaria, sebbene non definitiva quanto preparatoria (a giudizio dei suoi estensori), che per molti versi può anche essere considerata l’attuazione della formula mazziniana “Libertà e associazione”. Un documento politico più che un atto di fondazione, il primo e unico documento a delineare una concezione dell’ordine sociale fondato sulla piena sovranità dei cittadini e dei lavoratori, chiaramente delineato fin dai suoi primi articoli:

  1. La Libera Città di Fiume, col suo porto e distretto, nel pieno possesso della propria sovranità, costituisce unitamente ai territori che dichiarano e dichiareranno di volerle essere uniti, la Repubblica del Carnaro.
  1. La Repubblica del Carnaro è una democrazia diretta che ha per base il lavoro produttivo e come criterio organico le più larghe autonomie funzionali e locali. (…).
  1. Tutti i cittadini della Repubblica senza distinzioni di sesso sono uguali davanti alla legge. (…).
  1. La Costituzione garantisce inoltre a tutti i cittadini senza distinzione di sesso l’istruzione primaria, il lavoro compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita, l’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l’uso dei beni legittimamente acquistati, l’inviolabilità del domicilio, l’habeas corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere.
  1. La Repubblica considera la proprietà come una funzione sociale, non come un assoluto diritto o privilegio individuale. Perciò il solo titolo legittimo di proprietà su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio è il lavoro, che rende la proprietà stessa fruttifera a beneficio dell’economia generale. (…).
  1. Tre elementi concorrono a formare le basi costituzionali della Repubblica: a) i Cittadini; b) le Corporazioni; c) i Comuni. (…).
  1. I cittadini che concorrono alla proprietà materiale ed allo sviluppo civile della Repubblica con un continuativo lavoro manuale ed intellettuale sono considerati cittadini produttivi e sono obbligatoriamente inscritti in una delle seguenti categorie, che costituiscono altrettante corporazioni, e cioè: 1ª. Operai salariati dell’industria, dell’agricoltura, del commercio e dei trasporti (…). 2ª. Personale tecnico ed amministrativo di aziende private industriali ed agricole, purché non si tratti di comproprietari delle aziende stesse. 4ª. Datori di lavoro dell’industria, dell’agricoltura, del commercio e dei trasporti. S’intendono datori di lavoro coloro che essendo proprietari o comproprietari di aziende, si occupano personalmente, direttamente e continuativamente della gestione delle aziende stesse. 5ª. Impiegati pubblici statali e comunali di qualsiasi ordine. (…).
  1. Le corporazioni godono di piena autonomia per quanto riguarda la loro organizzazione e funzionamento interno. Esse hanno il diritto d’imporre una tassa commisurata sul salario, stipendio, profitto d’azienda, o lucro professionale degli inscritti, per provvedere ai propri bisogni finanziari. (…) Gli inscritti a ciascuna corporazione costituiscono un corpo elettorale per l’elezione dei propri rappresentanti al Consiglio Economico.

La proprietà a Fiume smette di costituire un diritto assoluto per diventare una condizione temporanea quanto limitata nell’esercizio. Porti e ferrovie passano in proprietà allo Stato, passa altresì sotto il controllo dello Stato la Banca centrale, mentre ogni altro esercizio di credito è severamente regolato da leggi. Ai lavoratori di ogni categoria si assicura la garanzia di un salario minimo, l’assistenza in caso di malattia e disoccupazione, la pensione; a tutti l’istruzione primaria. Si riconosce la sovranità di tutti i cittadini senza divario di stirpe, di lingua (pieno riconoscimento di tutte le lingue nel territorio della Reggenza), di classe, sottolineando l’uguaglianza fra i sessi, l’affrancamento della donna dall’autorità “maritale”, introducendo la pratica del divorzio e il diritto di voto e di lavoro per la donna. Particolare importanza si riconosce alla libertà di stampa, di riunione e associazione. Nessuna discriminazione e nessuna imposizione è tollerata, soprattutto nel campo educativo. La scuola è e deve essere una finestra aperta alla libera conoscenza; emblemi religiosi e figure di parte politica alle sue pareti, agiscono in senso contrario.

D’Annunzio in più occasioni ribadisce l’incontestabile diritto di aderire per libera scelta o esperienza personale ad una confessione religiosa, di elevare templi a qualsiasi tipo di Divinità. Da onesto massone, non è animato da spirito anticlericale. Non tollera semplicemente che le associazioni religiose siano sostenute con risorse a carico dello Stato, cioè della collettività. La religione, nella sua visione, attiene alla sfera privata del singolo e qualsiasi problema attinente ad essa riguarda esclusivamente i suoi adepti. Le chiese sono associazioni private e, in quanto tali, devono essere regolate da leggi comuni. La legislazione non dovrebbe peraltro consentire ad un’associazione religiosa di accentrare enormi ricchezze e poter così influire, condizionare pesantemente la vita sociale e politica. Disposizioni, queste, che contrariano un estremista come Marinetti, persuaso del carattere diseducativo delle religioni, da sempre intenzionato a «liberare l’Italia dalle chiese, dai preti, dai frati, dalle monache, dai ceri e dalle campane». Nucleo fondante della Costituzione fiumana, suo cardine centrale, è la democrazia diretta, l’effettiva partecipazione dei lavoratori nella gestione delle unità produttiva e dello Stato. Ma la libertà personale assume un’importanza superiore ai poteri stessi dello Stato. L’intero testo costituzionale è attraversato dalla preoccupazione di assicurare un continuo rinnovamento, attraverso misure atte ad evitare il formarsi di una burocrazia rigida e monolitica. La Reggenza, precisa D’Annunzio, «abolisce o riduce la centralità soverchiante dei poteri costituiti; scompartisce le forze e gli offici, cosicché dal gioco armonico delle diversità sia fatta sempre vigorosa e più ricca la vita comune». Nella visione dannunziana la partecipazione diretta ed immediata del popolo alla cosa pubblica non può e non deve essere rimandata. Nessuno rinuncerà mai volontariamente all’investitura di un potere; le illusioni di Marx su questo aspetto sono irrimediabilmente cadute e non più proponibili. Il popolo, l’uomo, non sarà mai libero se non posto in condizione, nell’immediato, di fare da solo, di negare la prerogativa a qualsiasi soggetto di decidere della sua vita. Il proletariato non ha bisogno di guide; solo attraverso l’auto-organizzazione può rendersi consapevole della sua funzione. Nessuna delega in bianco quindi, né ai parlamentari borghesi né alla burocrazia reazionaria mascherata da comunismo.

Vengono introdotte associazioni chiamate Corporazioni, per rimarcare la similitudine tra le trasformazioni sociali che ieri fugarono l’oscuro feudalesimo e aprirono al Comune del Medio Evo, e che nel 1920 spingono al superamento del potere borghese per inaugurare quello proletariato. Con l’espressione “corporazioni” si rimarca un’analogia storica ma si stabilisce anche un collegamento ideale con i libertari e sindacalisti rivoluzionari francesi che così chiamano le categorie dei lavoratori come corpo sovrano. Per D’Annunzio è anche un escamotage per «adombrare le audacie più bolsceviche (oh terrore di questa parola così pacifica!) col ricordo di analoghe Costituzioni del passato. È insomma un indorare la pillola per gli stomachi deboli». Ai lavoratori, nelle loro associazioni o corporazioni si riconosce pienamente il diritto di assumere interamente i poteri dello Stato, a tutti i lavoratori, in qualunque campo si trovino ad operare (scientifico, artistico, tecnico, amministrativo, etc.) e non soltanto agli operai propriamente detti, esclusivamente ai lavoratori manuali, come in Russia dove l’incompetenza dei Consigli operai ha costretto al ripristino dei capitani d’industria, dei tecnici, degli amministratori e giustifica la dittatura del partito, di una classe politica su tutto e tutti.

Nella visione dannunziana i sudditi subiscono padroni, i cittadini eleggono padroni, mentre i compagni si associano. Non è più tempo dell’uomo schiavo o salariato: cosa o servizio venduto sul mercato. Il Capitale non dev’essere sottratto ai suoi creatori per essere gestito da una ristretta élite o classe nell’oppressione di sempre. I mezzi di produzione, le fabbriche, le industrie, le unità produttive, sono gestite congiuntamente dal proprietario-datore di lavoro e dagli stessi lavoratori, che sempre congiuntamente e liberamente decidono della gestione e ripartizione degli utili. «Affrancare il lavoro significa affidargli la gestione sociale», afferma Alceste De Ambris che, nel commento alla Costituzione, stabilisce che ogni cittadino, dopo un censimento, debba ricevere la tessera di una delle nove corporazioni che costituivano, insieme ai Comuni, la società integrale. «Non vogliamo essere “governati”, vogliamo Governare. Noi riconosciamo nella Reggenza del Carnaro il preludio della Rivoluzione. Mori citius quam deserere. Morire piuttosto che rinunciare» (G. D’Annunzio).

Il principio di comando, la gerarchia, deve eclissarsi in ogni ambito sociale, perfino nell’esercito, e far posto alla partecipazione diretta e immediata del popolo al potere politico. La gerarchia non serve al popolo ma ai despoti per innalzarsi sul popolo e dominarlo. Chi ubbidirebbe a un proprio pari, un uomo, se quest’uomo non costringesse la collettività a profondarsi in inchini, distribuendo privilegi e incarichi particolari a un manipolo di gerarchi, incaricati di preservare, conservare il dominio imposto, proprio come accade con i direttori e i secondini negli istituti penitenziari? Come può dirsi libero l’uomo se lo si costringe a ubbidire anche nell’attività che lo impegna quotidianamente, il lavoro, ciò che meglio conosce? Secondo i legislatori fiumani, nessuno è altrettanto competente a gestire la ricchezza quanto i suoi creatori, chi può far valere le proprie specifiche competenze, conoscenze, esperienze quotidiane. De Ambris ha cura di impedire, sulla base dell’esperienza rivoluzionaria in Russia, che la burocrazia (nello specifico i dirigenti del partito) snaturi la rivoluzione ripristinando l’antico assolutismo cinese e degli Stati asiatici in genere. Nella burocrazia riconosce lo strumento di oppressione dello stato accentratore – sia borghese che sovietico – la naturale conseguenza del mantenimento dell’apparato statale che perpetuava l’antitesi classista.

Occorreva sbarazzarsi della burocrazia e dello Stato e questo poteva riuscire con il federalismo dei comuni indipendenti – liberamente federati – nei quali i gruppi consiliari avrebbero soppiantato completamente le funzioni dell’organizzazione burocratica parassitaria. Le critiche di Bakunin e Mazzini sulla dittatura del proletariato, sul centralismo democratico, avevano dimostrato tutto il loro fondamento, mentre l’associazionismo traeva nuovo vigore dalla riforma dell’idealismo hegeliano di Gentile che, scoprendo il collettivo nelle pieghe più intime dell’uomo, nella coscienza, supera la dialettica come principio di distinzione, di comando, con la «dialettica intima dello spirito, tra me e me». L’individuo scompare per far posto alla persona sociale che è gli altri, specchio degli altri, misura della sua umanità, per cui l’uomo può essere veramente libero solo a condizione che tutti lo siano. Non più allora il comando, la subordinazione, deve improntare i rapporti sociali ma l’unione di eguali, l’associazione, appunto, la società aperta, liberata e liberante. D’Annunzio non considera affatto la Costituzione fiumana un punto di arrivo, è consapevole al contrario di essere appena agli inizi, che molto di più e di meglio si possa fare. La Costituzione, dice, è “riformabile”, la libertà deve essere costantemente “ampliata”. «Il regno dello spirito umano non è cominciato ancora. Quando la materia operante su la materia potrà tener vece delle braccia dell’uomo, allora lo spirito comincerà a intravedere l’aurora della sua libertà». La testimonianza più grande e superba sulla Carta del Carnaro il Vate la farà con il discorso del 31 Agosto 1920, “La Sagra di tutte le fiamme”, sia come «fondamento d’una città di vita, d’una città novissima», sia come interpretazione ed esplicazione del fiumanesimo e delle aspirazioni del movimento legionario: «Compagni, io non avevo mai sentito così vivamente e frescamente la grazia dei fiori come ier sera, qui, in questo luogo stesso. Il Teatro era colmo di popolo, folto di ansia popolare, troppo angusto per tanta ressa, e i miei legionari erano assenti. Erano assenti ma rappresentati da una moltitudine di fiori, da una vasta offerta di fiori, da una smisurata gloria di fiori guerrieri, che mi valevano tutte le corne murali, rostrale e castrensi.

Ogni fiore evocava la canna di un moschetto. E si pensava che ogni Legionario avesse tolto dalla canna del moschetto il suo fiore, come nelle nostre belle marce mattutine di primavera, per offrirlo. Certo, i fiori vivono. I fiori sono creature viventi come la mano che li coglie in gentilezza. E i fiori di Fiume amano l’acciaio, amano sposarsi con l’arme. Ma iersera la vita di quei vostri fiori mi pareva quasi soprannaturale. Respiravano come un giovane battaglione in sosta presso una fontana, dopo la marcia. Ne sentivo l’alito e l’anelito con una commozione affettuosa che talvolta mi rompeva la voce. Era tutta la vostra giovinezza, era tutta la vostra gentilezza intorno a me. Era tutta la vostra novità intorno alla cosa nuova che stavo per rivelare. (…) In mezzo a questo campo trincerato noi abbiamo posto le fondamenta d’una Città di vita, d’una città novissima. E abbiamo conciato le pietre e abbiamo squadrato le travi per la costruzione robusta. Qui, in questo breve libro, è il disegno della vostra architettura, è il lineamento del vostro edifizio. Voi avete posto mano a queste pagine. Queste pagine sono vostre. Umilmente io immagino che le abbia scritte il vostro spirito con una penna d’aquila, tagliata e aguzzata dal filo della vostra spada corta».

Un discorso, questo di D’Annunzio, squisitamente massonico e di un’elevatezza straordinaria, che dette impulso ad Amadeo Bordiga per porre la Carta del Carnaro fra le carte costituzionali più all’avanguardia fra i paesi cosiddetti “avanzati” in un articolo pubblicato su Prometeo il 15 Gennaio 1924. Il 30 Agosto 1020 la Carta del Carnaro venne presentata al Teatro Fenice di Fiume dall’ex Commissario del Popolo nel governo di Béla Kun, il comunista ungherese Miklos Sisa, e nove giorni dopo, l’8 Settembre – come abbiamo visto – la Carta veniva ufficialmente promulgata e Fiume proclamava – per voto diretto del popolo – la sua indipendenza. Un’indipendenza durata una manciata di settimane. Le forze della reazione, quelle che oggi chiameremmo “deep state”, inclusa la dinastia sabauda, non potevano tollerare oltre un’esperienza tanto rivoluzionaria e libertaria che avrebbe rischiato, se non fosse stata prontamente annientata, di compromettere tutti gli assetti europei stabiliti nel Trattato di Versailles. Il 23 Dicembre iniziò così l’attacco fratricida del Regio Esercito Italiano contro la libera Repubblica di Fiume. Dopo un’eroica e strenua resistenza, dopo quello che è passato alla Storia come il “Natale di sangue”, il Vate e i suoi legionari dovettero arrendersi alla superiorità delle forze avversarie. Fu la fine di una rivoluzione, ma non la fine di un sogno. Riflettano su quanto ho scritto coloro che oggi, in nome di una falsa “sicurezza” sono disposti a cedere la propria libertà e a veder calpestare e infangare la nostra Carta Costituzionale!

Nicola Bizzi

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