10 Aprile 2024
Storia

Anabasi di Senofonte – Gianluca Padovan

«Anabasi» di Senofonte è la narrazione dei fatti che portarono diecimila opliti greci a solcare la terra anatolica e del loro ritorno in patria.

Senofonte (430-354 a.), ateniese, benestante e oplita, nel 401 a. partecipa alla spedizione di diecimila mercenari greci, molti dei quali spartani, pagati da Ciro il Giovane, fratello del re di Persia Artaserse II. Ufficialmente Ciro comunica all’esercito che si tratta di reprimere una rivolta di popolazioni montane nella sua satrapia. In realtà l’obiettivo di Ciro è di condurre le forze in campo aperto contro il fratello, ovvero il re legittimo, e impossessarsi del trono.

Giunti in Anatolia, i diecimila opliti greci comandati da Clearco procedono verso l’interno assieme all’esercito persiano di Ciro. Giungono fino a un centinaio di chilometri da Babilonia e sulla piana di Cunassa, situata tra il Tigri e l’Eufrate, si schierano. Si decidono così le sorti degli eserciti e la fama imperitura dell’epica impresa compiuta dai diecimila opliti greci.

«È ormai mezzogiorno e il nemico non si fa ancora vedere; verso il tardo pomeriggio appare un polverone, come una nuvola bianca, e subito dopo una massa scura nella pianura per un gran tratto. Quando è più vicina ecco improvvisamente un barbaglio metallico: sono le lance e poi le schiere che ormai si distinguono. Ecco i cavalieri dalle corazze bianche che avanzano all’ala destra del nemico (pare li comandi Tissaferne), ecco la fanteria leggera con gli scudi di vimini e poi di seguito i fanti di pesante armatura con gli scudi di legno che li coprono fino ai piedi. Sono egiziani, pare; e ancora cavalieri e arcieri. Tutti, nazione per nazione, in falangi quadrate a schieramento pieno, avanzano preceduti dai cosiddetti carri falcati dislocati a brevi intervalli gli uni dagli altri. Si chiamano falcati perché hanno delle falci che sporgono obliquamente fuori dai mozzi e altre sotto al cassone protese verso terra per tagliare a pezzi chiunque incontrino. Il loro obiettivo sono i battaglioni greci che devono travolgere e fare a pezzi. Ciro aveva convocato i Greci in precedenza per raccomandare loro di non aver paura delle urla dei barbari: ebbene, si sbagliava: quelli avanzano senza gridare, in silenzio a passo lento e cadenzato» (Senofonte, Anabasi, I 8,8-11).

Gli eserciti si fronteggiano, cambiando il colore alla piana di Cunassa. La superiorità numerica a favore del re di Persia è schiacciante, tanto che questi dà inizio a un’ampia manovra per l’accerchiamento dell’esercito avversario comandato dal fratello Ciro. Nell’intento di prevenire la pericolosa mossa, Ciro stesso, con la sua guardia personale, si lancia alla carica per sfondare il centro avversario e cercare d’uccidere di suo pugno il fratello.

D’altro canto nemmeno i Greci attendono l’impatto. Sono una manciata d’uomini, a confronto dell’esercito sterminato che hanno davanti. Ma questo non li fa certo vacillare, anzi, imprime loro un moto guerresco senza pari. Senza tale impulso i Greci non avrebbero potuto sbarrare il passo e ricacciare tutte quelle schiere che in passato avevano tentato d’invadre il loro suolo superando i Dardanelli.

Intonano il canto di guerra, il peana, e sferrano l’attacco sbaragliando completamente un’ala dell’esercito di Artaserse II.

«Ormai non ci sono più di tre o quattro stadi tra i due schieramenti quando i Greci intonano il peana e cominciano ad avanzare contro i nemici. Mentre avanzano però una parte della falange comincia ad ondeggiare per cui le linee posteriori affrettano il passo e tutti insieme gridano come quando lanciano il grido di guerra, e insieme corrono in avanti. Pare che alcuni anche battano le lance contro gli scudi per terrorizzare i cavalli. Non sono ancora a un tiro d’arco che i barbari ripiegano e si danno alla fuga. I Greci li inseguono a tutta forza gridando gli uni agli altri di non lasciarsi prendere dalla foga ma di mantenere lo schieramento. Dei carri, alcuni finiscono addirittura, privi di guida, tra le file dei nemici; altri anche tra i Geci, ma questi, vedendoli arrivare, si aprono per farli passare. C’è anche chi ci rimane sotto, ma, d’altra parte, succede anche all’ippodromo» (Ibidem, I 8,17-20).

Una consistente parte dell’esercito avversario è quindi in rotta e pertanto le sorti parrebbero decise. Ma nello scontro Ciro muore e i suoi ufficiali persiani, fattisi lestamente “i conti in tasca”, chinano il capo facendo atto di sottomissione al legittimo re Artaserse II: quindi passano con le loro schiere nelle fila avversarie. Nemmeno si preoccupano degli alleati greci su cui tanto facevano affidamento per vincere la battaglia.

I Diecimila si ritrovano da soli.

Le contrapposte schiere persiane sono nuovamente compatte e guardano l’invitto esercito oplita sul campo di battaglia. Poi si decidono e mandano un’ambasciata intimando ai Greci la resa. Ma il rifiuto è categorico.

Falino, consigliere greco al soldo persiano, dichiara che il Re ha vinto perché ha ucciso Ciro. Non solo: i Greci sono nel territorio del re dei persiani e quindi gli appartengono; costui, se lo vorrà, potrà schiacciarli con il suo enorme esercito.

«Risponde per primo il più anziano, Cleanore di Arcadia, dicendo: “Piuttosto che consegnare le armi preferiamo morire”. Parla poi Prosseno di Tebe: “Vorrei sapere, Falino, se il Re vuole le nostre armi perché ha vinto o se vuole che gli facciamo un regalo: se pensa di aver vinto, che bisogno ha di chiedere; che venga a prendersele!”» (Ibidem, II 1,10).

Infine, così replica Teopompo di Atene: «Lo vedi anche tu, Falino, non ci restano che le nostre armi e il nostro valore. Se teniamo le armi abbiamo la possibilità anche di mostrare il nostro valore, ma se le consegniamo, perderemo anche la vita. Non aspettarti, dunque, che vi consegniamo le uniche risorse che ci restano; piuttosto combatteremo per privare voi delle vostre» (Ibidem, II 1,12).

Le così dette arti diplomatiche si fanno strada evitando che si ricorra immediatamente allo scontro. Si tratta così una tregua e i comandanti greci, assieme agli ufficiali subalterni, vengono invitati a un banchetto fatto appositamente imbandire dal comandante persiano Tissaferne, ma verosimilmente dietro l’ordine di re Artaserse II. La cena si rivela essere per quello che la più parte dei Greci sospettava: tutti gli ufficiali greci vengono presi a tradimento e uccisi. I persiani credono così di avere ridotto all’impotenza gli opliti greci, privandoli dei loro capi.

Sbagliando.

Così Senofonte arringa gli uomini: «Voglio anche ricordarvi i tremendi pericoli che i nostri antenati dovettero affrontare, perché vi rendiate conto che dovete essere degni di loro e che, con l’aiuto degli dei, i valorosi si possono sempre salvare anche dalle situazioni più disperate» (Ibidem, III 2,11).

Gli opliti non si perdono d’animo ed eleggono nuovi comandanti, tra cui Senofonte stesso. Essendo un contingente di sola fanteria pesante devono rapidamente tramutarsi in un esercito completo a tutti gli effetti, dotandosi anche di cavalleria, arceria e reparti di frombolieri.

«Mi risulta che nel nostro esercito abbiamo dei Rodii e mi dicono che quasi tutti sanno usare la fionda in modo che i loro proiettili hanno una gittata anche doppia di quelli lanciati dalle fionde persiane» (Ibidem, III 3,16).

I nuovi comandanti decidono di non percorrere l’itinerario dell’andata, perchè sanno che l’avversario si aspetta che seguano proprio la strada già nota. Pertanto procedono innanzi, come arieti, lungo una nuova via. Per fare ritorno in patria marciano per più di duemila chilometri in territorio a loro assolutamente sconosciuto, costeggiano un lungo tratto del fiume Eufrate, superano alcune catene montuose e sconfiggono l’esercito persiano ogni qual volta si presenta a sbarrare loro la strada.

Inesorabilmente mandano in pezzi gli schieramenti avversari di gran lunga più numerosi e riportando perdite irrisorie.

Nella lunga marcia incontrano genti e usanze a loro sconosciute, che Senofonte narra nell’epopea dei Diecimila.

Il loro ritorno in patria non sarà così scontato, perché ora che sono diventati una sorta di leggenda sono temuti da ogni poleis.

Anabasi è un libro che va letto, che va dato ai nostri figli se a scuola non se ne fa cenno. È la consapevolezza di chi noi siamo e chi noi siamo stati. Tale consapevolezza abbiamo il dovere di trasmetterla, a nostra volta, alle generazioni future. Questo innanzitutto perché «anabasi» vuol dire salita, ma anche e soprattutto intesa nel senso di vittoria!

 

Foto Copertina

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *