14 Aprile 2024
Fumetto d'Autore Jacovitti

1929/1945: La percezione del mito americano e del mito sovietico in due grandi autori del fumetto. Seconda parte: Jacovitti e la “Satira Geopolitica”, Nei dintorni della seconda guerra mondiale

Dopo esserci occupati nella prima parte di questo intervento (https://www.ereticamente.net/2014/05/19291945-la-percezione-del-mito.html)del maestro della Linea Chiara, il belga Hergé – cercando di capire come avesse inquadrato nelle sue opere del periodo prebellico (con l’arte della parodia e dello sberleffo) quelle che sarebbero diventate nei decenni a venire le due “superpotenze”, i due “gendarmi” del Mondo – andiamo adesso a scoprire (attraverso l’analisi di una selezione significativa, anche se per forza di cose non esaustiva, di storie e vignette) un altro immenso autore europeo, un autore che avrebbe segnato con la sua sessantennale carriera il fumetto, l’arte popolare e l’immaginario stesso italiano.
1. GLI ANNI DELLA GUERRA: “IL BRIVIDO” E “IL VITTORIOSO”
Primi passi

Benito Jacovitti nasce a Termoli, in Molise, il 9 marzo 1923; sette anni dopo la sua famiglia si trasferisce nelle Marche, a Macerata. In seguito a un periodo di “apprendistato autodidatta”, durante il quale disegna ogni dove, su ogni supporto materiale disponibile, ogni volta che può e al contempo divora e imita le strisce avventurose d’Oltreoceano e soprattutto le grandi firme del fumetto umoristico internazionale – dal Segar di Braccio di Ferro al nostro Walter Faccini – il giovanissimo Benito, dopo una sorta di prova con una barzelletta illustrata la settimana precedente, pubblica il 19 novembre 1939 quella che viene all’unanimità considerata la sua prima grande gag visiva sulle pagine del n. 47 di un settimanale umoristico fiorentino, “Il Brivido”. Si trattava di un piccolo e agile periodico, fondato dal disegnatore Alberto Manetti nel 1925, una smilza rivista che sarebbe andata avanti fino al 1952 e che oggi è estremamente rara da reperire sul mercato del collezionismo. Il titolo dell’opera del termolese è lunghissimo e in rima: In ogni stanza d’ogni casamento / la Radio è il gran discorso del momento! Il tratto è ancora acerbo ma dobbiamo sottolineare che l’artista, con questo suo “debutto ufficiale” sulla carta stampata, ha appena 16 anni! In un condominio – che appare “spaccato” come una di quelle case di bambole che si aprono su cerniera per rivelare i loro arredamenti in miniatura – gli inquilini, che parlano con accenti di vernacolo locale, discutono, si eccitano e litigano per un “referendum dell’E.I.A.R.”. Si trattava del Grande Referendum a Premi che fu indetto in quel mese dall’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche di Torino, un concorso al quale potevano partecipare tutti gli abbonati in regola; l’estrazione sarebbe avvenuta nel luglio dell’anno seguente, con ricchi compensi in Buoni del Tesoro (fino a 100.000 lire dell’epoca, corrispondenti a circa 170.000 euro del 2014). Se nei fumetti al posto di “radio” mettiamo “tivù” o “Internet”, saltiamo d’un colpo 75 anni senza quasi nessun cambiamento! Satira di costume, dunque, e non ancora “satira politica”…

Jacovitti davanti alla porta della sua
casa di Forte dei Marmi nel 1992
(Foto: Manetti)
Il quadro è firmato “Jacov”, una delle sue prime sigle (insieme a “Jacovi”, “JB”, etc.). La storia della firma di Jacovitti è davvero aneddotica. In gioventù l’artista termolese, vista la sua notevole altezza e magrezza, era stato ribattezzato dagli amici Lisca di Pesce. E, ricordando il buffo soprannome, iniziò ben presto a firmarsi con una lisca di pesce stilizzata abbinata al cognome troncato in “Jac” e all’anno di realizzazione delle tavole. Nel dopoguerra la sua corporatura si irrobustì e – come ci raccontò a Roma – decise dunque di far “ingrassare” anche la sua firma, tanto che la lisca, da fine che era, divenne quella bella gommosa e soffice che tutti ben conosciamo!
In quello stesso periodo, sempre all’ombra del Marzocco, già l’illustre Giove Toppi disegnava per il “420”, detto il Mortaio Satirico Italiano – un ebdomadario di caricatura politico-sociale edito da Nerbini fin dal 1914 – divertenti “diorami illustrati” destinati ad apparire in prima pagina, a mo’ di copertina; ben noto, il cartellone Ferragosto al mare del 1938, dove i bagnanti – ovviamente in Versilia – vivono le loro vacanze, protagonisti e vittime di tic che rimarranno tali in eterno, tanto che quell’immagine potrebbe essere benissimo datata 1950, 1970… o 2000 e oltre!
Jacovitti si abbevera sicuramente a questa e ad altre fonti, ma porterà tale idea alle estreme conseguenze, e la rivoluzionerà, generando un vero e proprio nuovo linguaggio. Se quella sua prima incursione a battute multiple pubblicata nel ’39 può essere considerata solo come un prodromo a una delle più celebri “tecniche” jacovittesche di visualizzazione simultanea di molteplici gag in un unico “vignettone”, ecco che l’anno seguente arriva il capostipite certo della lunghissima serie di quei celebri e giganteschi quadri zeppi di folli personaggi e situazioni buffe, la vera madre di quelle indimenticabili e spassose “panoramiche” (come lui stesso le definiva) che caratterizzeranno la sua arte fino alla morte. Per “Il Brivido” Jacovitti avrebbe realizzato circa 250 lavori, fino al 1942.
Jacovitti e gli Inglesi: sul “Brivido”…
Arriviamo dunque al 31 marzo del 1940, quando esce in edicola il n. 13 del “Brivido”, quella medesima testata stampata a Firenze, il capoluogo toscano dove in quell’epoca il fumettista vive. Il conflitto è ancora distante per l’Italia, ma è tuttavia ben presente nella mente e nei sensi di tutti. Come ha visto la guerra un ragazzo sul fronte occidentale – Le linee: Maginot / Sigfrido: ecco il lunghissimo titolo (con la doverosa precisazione in sottotitolo: l’autore di questa composizione ha diciassette anni) che introduce la prima “panoramica ufficiale” di Lisca di Pesce.
La stampa francese coniò l’espressione celeberrima di drôle de guerre, la “strana guerra”, per identificare il periodo compreso fra la fine della campagna di Polonia (settembre 1939) e l’inizio delle operazioni nei Paesi Bassi (maggio 1940). L’adolescente Jacovitti – informatissimo della situazione mette in scena ben 200 personaggi in arme, soprattutto francesi del RIF (Régiments d’Infanterie de Forteresse), del RAP (Régiments d’Artillerie de Position) e del RAMF (Régiments d’Artillerie Mobile de Forteresse); con tanto di elementi senegalesi addetti alle salmerie, tratteggiati secondo il gustoso stereotipo classico fumettistico (anche negli Stati Uniti di allora!) per la raffigurazione del “negro”, con le evidenti e sproporzionate labbra bianche (che deriva a sua volta dal cabaret americano, il vaudeville). Il fatto che ci siano gli artiglieri francesi insieme agli Inglesi del BEF (British Expeditionary Force) di Lord Gort, fa supporre che la scena sia ambientata in un settore fortificato lungo il confine franco-belga, magari proprio il VI, quello di Montmédy. I Senegalesi potrebbero appartenere dunque alla 3e Division d’Infanterie Coloniale di rinforzo al 155° RIF. Siccome gli Inglesi sono stati disegnati da Jac quasi tutti in gonnellino a scacchi, fa pensare che si tratti di militari della 51st Highland Division (e forse sono in particolare gli Scozzesi del reggimento di fanteria Queen’s Own Cameron Highlanders). 

La “panoramica” di Jacovitti del 1940,
sulla Maginot/Sigfrido
E’ proprio il kilttradizionale scozzese a dare la stura a tutta una serie di battute salaci! Così come i Senegalesi erano estremamente caratterizzati, molti fanti britannici inalberano inglesissime orecchie a sventola – alla Principe Carlo, per intenderci. C’è poi il suddito della Corona, appassionato di moda, che dismette il tartan e sfoggia con movenze femminili una sottanina a fiori, mentre i suoi commilitoni, devastati dalla paura, indossano i rimedi antigas, suscitando l’ironia del graduato: “Ma cosa fate? Aspettate che Billy abbia mangiato i fagiuoli, prima di mettervi la maschera”, dice indicando un pingue individuo che spolvera avido un tegame di legumi! Ecco, le maschere, per l’appunto: equivocando fra maschere antigas, cammuffamenti mimetici e carnevalate varie, i simpatici “alleati” vagano per le casematte della Maginot vestiti da Pierrot e Pulcinella e addobbano i cannoni come fossero i carri di Viareggio! L’elmetto a bacinella, viene usato come… bacinella per radersi la barba! E un “colpo di mano” troppo audace, non oltre il filo spinato ma… sul sedere di una crocerossina provoca la sdegnata reazione di lei.
Intanto, oltre la zona neutra, e ben protetti dai cavalli di frisia del Westwall, i Germanici attendono anche loro il maggio 1940…
…e sul “Vittorioso”
Quelli del “Brivido” furono però solo i primi fuochi d’artificio per Benito Jacovitti sul fronte della parodia geopolitica.
Negli anni Trenta e fino al 1941, nonostante la vulgata dell’era “democratica” inaugurata con il 1945, il clima editoriale delle riviste rivolte ai giovani era vivacissimo e soggetto a scarsi controlli; il fumetto italiano (se escludiamo il periodo bellico, con tutta la sua comprensibile e inevitabile eccezionalità sul piano sociale e normativo), e soprattutto il fumetto avventuroso e giallo, dovette maggiormente e sistematicamente patire censure e autocensure, ostracismi, sequestri, riprovazione morale e ogni altro genere di ostacoli nel dopoguerra – in particolar modo negli anni Cinquanta e Sessanta! Tornando all’anteguerra, della battaglia senza esclusioni di colpi combattuta nelle edicole sul fronte del giornalismo per ragazzi le testate, le vincenti furono soprattutto quelle milanesi e fiorentine: “Il Corriere dei Piccoli” (detto “Corrierino”, il primo “giornalino” del Belpaese, risalente al 1908, ovvero a una decina di anni dopo la nascita stessa delle “strisce comiche” moderne), “Topolino” e “L’Avventuroso” sono solo alcuni dei nomi che richiamano alla mente il primo periodo d’oro del fumetto nostrano. Grande formato e periodicità settimanale (a partire dalla fine dell’800 lo standard per questo genere di pubblicazioni destinate a un bacino giovanile, ma gradite anche agli adulti, era infatti in tutto il globo quello dei supplementi domenicali a colori inseriti all’interno dei quotidiani statunitensi), tavole oltremodo ricche, tecnica di stampa in quadricromia raffinatissima (ma con gradevoli esempi anche di tricromia e bicromia), illustratori stranieri (in traduzione) e italiani che – per l’impegno profuso – potevano essere considerati veri e propri pittori…
In questo fervente panorama culturale “Il Vittorioso” fu la risposta degli ambienti ecclesiastici all’editoria “laica”, anche se non si trattò – come si legge da più parti negli interventi critici – di volere imporre una pubblicazione “confessionale”, ma semplicemente della necessità vaticana (anche e soprattutto economica!) di inserirsi in un mercato in costante espansione. “Il Vittorioso”, dunque, fu tutto fuorché un foglio “parrocchiale” o “beghino” (anche se si cercava di presentare al pubblico storie dai contenuti il più possibile “edificanti”: per esempio, una battuta con un tono simile a quella della crocerossina “palpata” sul “Vittorioso” non sarebbe mai apparsa) e lasciò il segno, ancor più di altre testate, nella storia della produzione fumettistica autoctona italiana. Il primo numero del nuovo periodico fu lanciato nel 1937, puntando su numerose firme, tra cui il grande “pupazzettista” Sebastiano Craveri. Immortale, nei primi tempi, l’avventura a puntate di Romano il legionario, realizzata da Kurt Caesar e ambientata con corpo e spirito nei luoghi, nelle azioni e nei periodi del sostegno italiano a Franco, volto al respingere le manovre internazionali di sovietizzazione della Spagna: con tutta probabilità ritorneremo su Romano e sul suo autore in un prossimo intervento, su queste colonne.

La copertina dell’albo che nel 1942
raccolse “Pippo e gli Inglesi” (1940)
in una ristampa anastatica del 1972
Jacovitti iniziò a collaborare al “Vittorioso” alla fine del 1940, con una storia lunga a puntate, Pippo e gli Inglesi – la prima della sua carriera, distante ben 57 anni dall’ultima, quel Cocco Bill Diquaedilà uscito nel maggio 1997 per i tipi della Sergio Bonelli Editore (serie “I Grandi Comici del Fumetto” n. 1), pochi mesi prima della morte dell’artista (avvenuta a Roma il 3 dicembre dello stesso anno). L’avventura in questione si dipanò per 11 tavole, una alla settimana, dal n. 40 (5 ottobre 1940) al n. 50 (14 dicembre 1940). Nella ristampa in volume del 1942 la storia fu modificata graficamente, in ottemperanza alle nuove leggi, e i “fumetti” (nel senso letterale del termine, ovvero le “nuvolette di fumo” tramite le quali i personaggi “parlano”) vennero eliminati per essere sostituiti da didascalie.
I protagonisti erano tre ragazzi, i primi eroi ricorrenti della saga jacovittiana. Pippo, Pertica e Palla sono tre Italiani che – par d’intendere – vivono a Londra da tempo. Dopo la dichiarazione di guerra del 10 giugno vengono arrestati con l’accusa di appartenere alla fantomatica “quinta colonna” e spediti in un campo di concentramento. Da qui riescono a evadere e a sgominare, grazie anche a un cacciatorpediniere dell’alleato germanico, un traffico marittimo messo in atto da contrabbandieri inglesi che si mascheravano sotto la bandiera svedese.
Satira antibritannica graffiante dietro a ogni angolo – una satira come la può immaginare un ragazzo di 17 anni, certo, senza ancora tante pretese di profonda analisi geopolitica come base di una parodia più “seria”, come sarebbe stata, e come vedremo, quella che avrebbe colpito in certe storie di Lisca di Pesce gli Americani e i Sovietici. Qui abbiamo Inglesi gottosi con la serva trattata male. Paranoia continua. Il presunto “nemico” scovato sotto ogni sasso – persino in un giovincello sfaccendato appoggiato alla… “quinta colonna” da sinistra di un edificio pubblico! Le urla di una matrona scambiate per l’allarme antiaereo e un bidone della spazzatura scelto come provvisorio rifugio contro le bombe degli Stukas fantasma…
I sudditi di Buckingham Palace vengono sbeffeggiati anche nelle due storie successive con i 3P, ambedue pubblicate sul “Vittorioso” nel corso del 1941: si tratta di Pippo e il mistero dei “Lupino” (dal 19 aprile al 19 luglio) e di Pippo e la boa (dal 2 agosto all’8 novembre). L’antagonista del trio di ragazzi in questa coppia di avventure è una spia inglese, il furioso Bob Smith, amante dei travestimenti e sempre a caccia di piani segreti; se il primo di questi due episodi è ambientato fra la Gran Bretagna e la Svizzera, il secondo è scherzosamente collocato da Jacovitti “a Poggibonsi, un tranquillo paesetto sulla costa tirrenica” (si tratta invece di un popoloso comune nell’entroterra toscano, in provincia di Siena). I loschi propositi dell’Inglese – che non lesina di arrivare fino al tentato omicidio – vengono prontamente sventati da Pippo, Pertica e Palla.
Jacovitti e gli Americani
Durante il periodo bellico Lisca di Pesce affinò il suo stile, ripulendo il disegno dalle acerbità giovanili e affilando nel contempo la lama della satira e della parodia. A “farne le spese” furono soprattutto gli Americani, identificati fin da subito come esagerati, invadenti, pacchiani, superbi, grossolani, spacconi – beceri, insomma… tanto per usare un vocabolo caro all’ambiente fiorentino in cui gravitava Jac in quell’epoca. E questo soprattutto in tre avventure, che andiamo a osservare da vicino.

La copertina dell’albo
del Vittorioso che nel 1948
raccolse “Chicchirichì” (1943)
Cucù fu pubblicata dal consueto “Vittorioso” a cavallo di due anni, dal 19 settembre 1942 al 20 febbraio 1943. Come si intuisce dalle date fu quello un periodo cruciale per l’Italia. Tanto era “delicata” la situazione che Jacovitti decise di spostare l’ambientazione dall’Europa a un immaginario percorso per cielo e per terra che avrebbe portato i protagonisti (un ragazzo e suo zio inventore) fino in America. L’occasione è ghiotta per l’artista per mettere alla berlina i miti popolari della cultura d’Oltreoceano. Infatti, un mondo “nuovo” com’è quello delle megalopoli e delle praterie statunitensi, non ha una gran storia da raccontare e tutto “fa brodo”: il cinema con Tom Mix, gli accadimenti della Frontiera con Buffalo Bill, i gangster, gli eroi della “letteratura di genere” con Tarzan, e così via. Ecco dunque su Cucù apparire il poliziotto di New York con i denti in fuori (all’anglosassone) e il manganello roteante; un toro seduto che è veramente il capo pellerossa Toro Seduto, Al Capone (che ha – ovviamente! – un capone grande come un’americanissima zucca di Halloween), etc.
Pete lo sceriffo (pubblicato sull’Albo Roma n. 28 del 1943 dalla stessa casa editrice del “Vittorioso”, la AVE) è invece una gustosissima parodia dell’epopea del Far West – l’inizio di una sorta di “marchio di fabbrica” di Jacovitti che nel 1957 avrebbe creato con il cow-boy e pistolero Cocco Bill il suo personaggio più celebre e duraturo. Il paese di Tripper Buk è la classica “città corrotta” del West – e il capo dei dediti al malaffare è addirittura il sindaco. Le attività commerciali del luogo sfoggiano cartelli del tutto assurdi, come “Bove”, “Gallina”, “Olé”, “Poco”, “Come”, “Ma sì” e “Insomma Filippo, la vuoi smettere?”. Stella di latta, pipa in bocca, gilet di pelle, cappellaccio, revolver al cinturone: tutto l’armamentario western è presente. Ma in che epoca siamo? Alla fine dell’800 o negli anni Quaranta? Sì, perché il tutore della legge Pete tutela la legge non a cavallo, ma in motorino!
Infine Chicchirichì(apparsa sul “Vittorioso” dal 30 luglio al 17 dicembre del 1944 con il sottotitolo ironico di Roba dell’altro mondo di Jacovitti), ancora una volta di tenore “poliziesco”, con un giornalista di New York (che si chiama per l’appunto come il verso della gallina e lavora per il quotidiano “Il Mappamondo”) eroe della situazione. L’America ci appare dominata dalla pubblicità (anche se siamo in una sorta di immaginari, gangsteristici anni della Depressione), fatta però di slogan senza senso, dove l’inglese ha solo la sonorità dell’inglese, essendo invece una sorta di buffa neolingua del tutto inventata: “Papir the Rosbiffe e und cic up” (forse “Pappare il Roast Beef e un cicchetto”) sul cartello di un uomo-sandwich; “Bak, Tabak e Krak”, in cima a un paletto (“Bacco, tabacco e Venere”, anche perché il “crac”, inteso come droga, sarebbe stato un po’ ucronistico nel ’44); “Out pu tipet cu papir” e “Out boby eg strulzum bobbo to ug mitter gros cream vove” su un paio di poster; oppure, su un cartello, “Tago eo odi up jou buba dog love du es bog tove”; poi “Bek ukt opt”, “Upa call up”, “A-okei purcel”, “Plic du poster fabur!” e via vaneggiando. I negozi, parimenti, fanno morire dal ridere: Op-op, Barrr, Oil bub, Eclot, To roomy, Urrr, Eutong, Ubbad, Pippy, Epp, Upp, Om, Bobbi, Bobboo, Utah, Paper, Cubo, etc. E infine la redazione del quotidiano, sulle pareti della quale campeggiano surreali avvisi come: “Vietato introdurr bovi!”, “Verbo avere”, “Vietat fumer!”, “Pell au burr” e così via.
La neolingua dà proprio al lettore l’idea di una gigantesca Torre di Babele, una società che è cresciuta come una metastasi senza nemmeno più una parvenza di ordine. Criminali che spadroneggiano, poliziotti incapaci, stampa imbavagliata e ricattata, il piombo non è quello dell’impaginazione ma quello dei mitra Tommy-gun, file di gente per il lavoro e per il pane, traffico impazzito, filobus stracolmi. E in una delle sue indimenticabili panoramiche c’è tutta la società metropolitana statunitense come la poteva vedere un giovane italiano degli anni Quaranta. Innanzitutto il “calderone di fusione” delle razze: “negri” che suonano il banjo e cantano sui marciapiedi (intrattenendo ballerini dilettanti di tip-tap), oppure appoggiati nullafacenti alle cantonate, o anche inetti “sciuscià”. E poi ancora la frenesia urbana. Si vede persino un tizio che pare trainato dalla catenella della sua cipolla: è una delle celeberrime metafore visualizzate di Jacovitti, in questo caso “un orologio che va avanti”! Il crimine (banditi e scassinatori in ogni dove, persino uno che tenta di scalzare la saracinesca di un banca con un piede di porco… ancora attaccato a un vero maiale), la polizia, la galera.
The American Nightmare!
2. JACOVITTI, LA “LIBERAZIONE”, I “LIBERATORI” E I “VINCITORI”
Il 1945 di “Intervallo” e oltre
Fra il 1945 re il 1946 Benito Jacovitti collaborò a uno smilzo foglio dell’Azione Cattolica, il periodico “Intervallo”. E’ qui che troviamo alcune delle sue storie più “politiche” – da lui stesso definite “reazionarie”, perché se da una parte sembrano celebrare il “ritorno alla democrazia” facendosi beffe dei passati regimi, dall’altra sono soprattutto un’occasione ghiottissima per sottolineare il caos totale della nuova Europa “liberata” dagli Alleati – un’Europa che faceva gola non solo al capitalismo atlantico ma pure al bolscevismo asiatico.

La confusione che segue
la “liberazione” della Flittonia
in “Pippo e il dittatore” (1945)
La confusione è ben illustrata sotto forma di satira pungente dal nostro autore nella storia Pippo e il dittatore, apparsa su “Intervallo” dal n. 2 del 12 maggio 1945 al n. 12 del 28 luglio 1945. Caduto il “flittismo” (una specie di nazionalsocialismo nel paese pseudo-germanico di Flittonia – ma potrebbe benissimo essere Italonia), con tanto di “macelleria messicana” dei gerarchi appesi per i piedi dai “rivoluzionari”, si instaura un nuovo genere di Stato, partorito dalla mente di uno squinternato filosofo ex-detenuto! Ma il filosofo stesso e i suoi compagni, scambiati per aderenti al “regime flittonico”, vengono ben presto rispediti nel campo di concentramento, di nuovo pieno. Così, per le strade del paese “liberato”, sfilano insieme fascisti, comunisti, anarchici, monarchici, proletari, capitalisti, marxisti, stalinisti, pensionati, poppanti e persino… vacche in ordinata mandria per reclamare tutti e ognuno un partito per ognuno e tutti! Con il carboncino, intanto, un cittadino “liberato” declina scrivendola sul muro la parola democrazia: democrazio, democranonno, democracugino, democramamma, democrafratello…
In quello stesso 1945 Jacovitti conobbe a Firenze il cantante Frank Sinatra, che si era parecchio divertito a vedere alcune sue vignette che prendevano in giro gli Anglo-americani. La Voce incoraggiò dunque Lisca di Pesce ad andare a far vedere quelle immagini presso la redazione di un giornale fiorentino che stampava materiale per gli Americani “liberatori”. Non lo avesse mai fatto: per poco non viene gettato fuori dagli uffici a calci nel sedere da un infuriato colonnello a stelle-e-strisce per quelle che considerò “blasfeme irrisioni”. Quei disegni furono allora stampati in proprio da Jac in una serie di oggi rare cartoline, intitolata Alleati in Italia: il fatto divertente è che le battute di corredo agli sberleffi sono… in inglese!
In una delle cartoline vediamo così un soldato scozzese degli Highlander con il classico kiltabbracciato a una soldatessa americana in pantaloni (“Qual’è l’uomo e qual’è la donna?”, si chiede Jac nella didascalia); in un’altra osserviamo due militari che si sono ubriacati con un fiasco di Chianti trascinati via dalla MP.

Una cartolina della serie
“Alleati in Italia” (1945)
Un’altra ancora di questa serie di illustrazioni da spedire è maggiormente significativa, perché credo riassuma efficacemente tutta l’amarezza dell’epoca. Vi è ritratto un immenso graduato “negro” della Quinta Armata che vuol farsi lucidare i giganteschi stivali da un piccolo lustrascarpe bianco inginocchiato che chiede aiuto (“aiuto” perché c’è troppo lavoro da fare, ma forse “aiuto” contro l’occupante). Il “negro”, raffigurato nello standard classico della parodia grafica – con le enormi labbra – sfoggia un vistoso orecchino, fuma un sigaro (forse un Toscano: intanto ne ha un mazzetto di scorta infilato nella spallina), al polso indossa una sveglia (come i cannibali delle barzellette, che però le portano al collo) e nella tasca posteriore ha infilata una fiaschetta di liquore.
Battista l’ingenuo fascista apparve su “Intervallo” dal n. 26 del 12 dicembre 1945 al n. 14 dell’8 giugno 1946. La storia inizia con una divertente scritta jacovittesca: “A scanso di equivoci e per facilitare alla critica il suo compito tengo a dichiarare: 1. Questo è un cineromanzo reazionario offerto dalla F.O.D.R.I.A. – 2. L’autore di questo cinereazionario è un fascista (dato che prima o poi l’accuseranno come tale è meglio che lo si dichiari subito)…” Il motivo? Una storia italiana! Battista è un cittadino qualunque che attraversa tutto il periodo fascista, insieme a tutti gli Italiani. Essenzialmente Battista è un pavido, uno che non si vuol mostrare, un tiepido, un pusillanime, uno che segue la corrente. Nei “quarantacinque giorni” (25 luglio / 8 settembre 1943) brucia la camicia nera, ma ogni tanto, salutando un conoscente per strada gli scappa ancora un saluto romano e un “camerata” – subito trasformati in pugno chiuso e “compagno”. In quel periodo vediamo ladri (con tanto di mascherina) che sculacciano i Balilla con la scusa dell’oppressione. Quando nasce la RSI Battista tinge di nero le sue camicie. “Le montagne invece cominciarono a tingersi di rosso per via di baldi giovanotti datisi alla macchia”, scrive Jacovitti, allegando figura di truce partigiano. Radio Londra, intanto, promette “dieci chili di farina e un etto di caffè” per ogni nazifascista morto e i “liberatori” (che Jac nomina mettendo sempre il termine tra virgolette) avanzano radendo tutto al suolo. Iniziano le epurazioni e la caccia al fascista.

Con la “democrazia” ritornano
anche i “democratici” esiliati!
Da “Battista l’ingenuo fascista”
(1945/1946)
E nel frattempo, “dopo venti anni di esilio e di sofferenze”, tornano i fuorusciti antifascisti, che Lisca di Pesce ci rappresenta ben pasciuti, ben vestiti e con ricchi sigari in bocca! Mentre l’opportunismo la fa da padrone, Battista stringe sempre più la cinghia. Osserva uno sciuscià pulire le scarpe a un soldato scozzese: lui, dice, non si abbasserà mai a tanto! Ma poco dopo lo vediamo lustrare gli stivali a un sergente “negro” dell’esercito americano… Lasciamo poi la parola all’autore: “Passò altro tempo! La pace tornò in Europa nella primavera del 1945 e trovò cambiate molte cose negli ultimi mesi di guerra. Successero in Italia ed altrove cose belle e delle cose brutte, bruttissime. Per rispetto non vi parlo delle cose belle e per educazione non vi parlo delle brutte. E vergognose per l’umanità! Alcuni mesi dopo in Estremo Oriente, il Sol Levante tramontava melanconicamente sul Giappone grazie ad un paio di bombe atomiche Made in U.S.A.”.
Gli Alleati continuano a “liberare” le città, finché incontrano una giovane vedova che tiene in braccio un bambino in fasce. Un Americano e un Inglese fanno capolino da dietro l’angolo di un muro e la donna: “Avanti… accomodatevi pure. I tedeschi se ne sono andati prima del vostro bombardamento”. Monte Cassino docet.

Due strisce paradigmatiche di
“Battista l’ingenuo fascista” (1945/1946).
La fame, i “liberatori”, le macerie.
Nel caos politico che segue la “liberazione”, l’ingenuo e sempre più affamato Battista prova a iscriversi a ogni nuovo partito, ottenendo sempre delusioni e calci in bocca. Alla fine della storia dissotterra la vecchia camicia nera e si presenta a marciare in strada. Finirà in galera, naturalmente…
Dello Jacovitti politico, alle prese con i disastri della “liberazione” e dell’invasore alleato, ricordiamo poi le due tavole di una storia incompleta, La rovina in commedia, pubblicate sul settimanale satirico “Belzebù” nell’aprile del 1947. L’idea era quella di mettere la Divina Commedia dantesca in chiave di satira politica e parodia sociale, rifacendosi al disastro italiano dell’immediato dopoguerra. Nella selva oscura un anonimo personaggio sperduto (l’Italiano medio) prova a imboccare il sentiero di destra, andando a finire nelle fauci della lonza americana; alla richiesta di un prestito la bestia con la tuba da Zio Sam risponde che lo farà, a patto che gli Italiani stiano fuori dal “mare vostrum”. La via di centro porta al feroce leone britannico, con il quale è impossibile persino iniziare a discutere. La strada a sinistra conduce infine verso la lupa sovietica, che allatta due singolari Romolo & Remo chiamati Tito & Palmiro; questa lupa, infida, sbrana i pantaloni dell’incauto viaggiatore. Appare dunque Dante a far da guida e mostra al protagonista la personificazione della Rovina, una sorta di orrida e laida prostituta cadente adagiata sulle macerie delle nostre città. Nella cornice illustrata che circonda la seconda e ultima tavola del dramma a fumetti si vede un piccolo personaggio che esibisce il pugno chiuso reggendo in spalla unn sacco con la scritta “Dongo”…

La Rovina adagiata sulle
macerie dell’Italia “liberata”.
Da “La Rovina in Commedia” (1947)
Jacovitti in Paradiso: gran finale con vista sull’URSS (1947)
Una delle storie meno conosciute di Jacovitti apparve a puntate sul periodico “Fra’ Cristoforo” tra il febbraio e il marzo 1947. Poi fu interrotta e mai più ripresa dall’artista. E non fu mai più ristampata fino addirittura al 1995, quando – in pieno revival jacovittiano, innescato nel 1992 da una mostra lucchese (che il sottoscritto curò insieme all’amico Mario Bruni) e soprattutto dal libro “Jacovitti” di Granata Press (scritto da Bellacci, Boschi, Gori e Sani, che nel 2011 lo hanno rivisto e ampliato per la NPE) – finalmente riapparve in un fascicolo amatoriale pubblicato dagli Amici del Vittorioso. Si tratta dell’episodio Il paradiso sosvastico, che presenta delle fortissime e insospettabili analogie proprio con Tintin nel Paese dei Sovieti di cui abbiamo parlato nella prima parte di questo intervento. L’ambientazione iniziale è quella dell’Italia nel caos del dopoguerra, una situazione identica a quella già illustrata in Battista l’ingenuo fascista. Stavolta il protagonista è Mario il proletario, di simpatie comuniste; stufo dei disagi patiti fra le macerie e della cronica mancanza di cibo decide di partire per l’Est, verso la patria del “socialismo reale”. Prima deve però attraversare la terribile Giogoslavia, dove imperversa un nuovo Stato nel quale i nemici del popolo vengono “democraticamente” sistemati in grotte salubri e spaziose, le foibe, e dove la specialità del posto è il tiro alla nuca. Gli Italiani sono malvisti e incarcerati o addirittura ammazzati. Del resto, come lo stesso Jacovitti aveva scritto in calce a una sua vignetta, sempre del ’47, “Tito ha sempre ragione: bisogna colpire l’Italia senza pietà, poiché essa, reazionaria e fascista, conserva ancora l’aborrita forma d’uno stivale di staraciana memoria!”. Mario giunge finalmente nel paradiso del lavoratore, dove tutto è organizzato in funzione del lavoro, con meccanizzazione e disumanizzazione totale del cittadino (un po’ come in Tempi moderni di Chaplin): città trasformate in macchine dove l’uomo vive, mangia e dorme in catena di montaggio.

Il titino illustra a Mario il proletario
le meraviglie della Giogoslavia.
Da “Il paradiso sosvastico” (1947)
La futuristica “città macchina”.
Da “Il paradiso sosvastico” (1947)

L’ultima inquadratura dell’ultima parte della storia è profetica: “All’alba la sveglia è collettiva!”

Nel futuro Jacovitti ridurrà la attitudine politica – e questo in particolar modo dopo le elezioni del 1948, alle quali partecipò attivamente con sue cartoline, poster e vignette contro il Fro.De.Pop. Solo nel 1973 e nel 1974 ci sarebbe stato un “ritorno di fiamma”, quando Jacovitti collaborava a “Linus” e per alcune sue battute contro i “barricadieri” con le quali infarciva le storie insieme ai consueti salami, ossi e rocchetti – la redazione fu tempestata di indiavolate lettere che ne chiesero – e ottennero l’epurazione.
Ma questa, come si suol dire, è un’altra storiaccia.
Francesco G. Manetti

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