22 Aprile 2024
Preistoria

Creature strabilianti – Rita Remagnino

Perché già una volta io fui fanciullo e fanciulla
e arbusto e uccello e pesce muto che guizza fuori dal mare
Empedocle

 

Ricapitolando: 1) all’inizio del Ciclo presente in posizione polare una civiltà altamente evoluta e spirituale popolava l’Isola Bianca; 2) gli eventi geologico-climatici del Primo Pleniglaciale wurmiano (55-50.000 anni fa) causarono il primo esodo; 3) parte della saggezza dell’Origine fu messa al sicuro in due Centri Sacrali secondari (uno nella Siberia orientale, l’altro oltre il 62° parallelo nord tra Groenlandia, Islanda, Fær Øer e Scandinavia); l’ulteriore avanzata del ghiaccio distrusse anche le sedi della fascia sub-artica, incoraggiando la fondazione di punti periferici.
Il Brahma Purana ne cita sette, che chiama dvīpa, o isole, o montagne, specificando che tutte erano bagnate da un liquido che a seconda dei casi poteva essere acqua salata, succo di canna da zucchero, vino, burro chiarificato, latte cagliato e latte allungato [immagine 1].
Geograficamente una terra lambita dall’acqua è uno spazio privilegiato che offre agli occhi ogni genere di ricchezze nascoste e regala alla mente il mistero di abissi tenebrosi. In questo scrigno di significati la Tradizione ha collocato un tema eterno: l’«isola dei serpenti» abitata da esseri longevi dalla lunga barba bianca che custodiscono inimmaginabili tesori di sapienza.
Tralasciando il discorso sulle sembianze «serpentine» dei soggetti coinvolti, che ci porterebbe troppo lontano, è interessante notare la frequenza con cui l’argomento si ripropone. In modo trasversale gli uomini superiori dotati di requisiti etici, morali, culturali e perfino fisici fuori dall’ordinario appartengono a tutte le culture, infatti sono entrati a far parte del repertorio delle rappresentazioni allegoriche e simboliche, cioè nelle icone cesellate dal Tempo e dalla Storia.
Almeno per sentito dire tutti sanno che i Serpenti custodivano, i Leoni regnavano, gli Uccelli depredavano, gli Orsi dominavano le foreste, i Pesci venivano dal mare per civilizzare gli incolti, e via dicendo. Cosa significa? Fino a che punto siamo in grado di recepire i ragionamenti indissolubilmente legati al Sacro dei nostri predecessori?
Incapaci di comprendere la raffinatezza dei linguaggi simbolici dei Navaho, gli intellettuali europei dell’Ottocento bollarono questi popoli come «selvaggi moderatamente creativi», salvo poi riabilitarli quando ormai le tribù erano state sterminate quasi tutte e non c’era più niente da interpretare. Troppo tardi si capì che le loro rappresentazioni, i gesti e le cerimonie, erano capaci di competere per allegorie, simbolismi e complessità, con quelle di qualsiasi altro popolo evoluto della Terra e che il pantheon dei Pellerossa non aveva nulla da invidiare al più famoso Olimpo greco, essendo a questo di gran lunga precedente.
Fino all’ultimo l’inestimabile patrimonio dei nativi ha costituito una coscienza viva ancora in grado di guardare, toccare, annusare, gustare, ascoltare, scoprire. Poi qualcuno ha pensato bene di sbarazzarsi di quanti erano ancora in grado di gettare uno sguardo «religioso» sulla realtà circostante, e perfino di meravigliarsene. Tutto è andato così di male in peggio, come Chesterton aveva argutamente previsto: “Il mondo non degraderà mai per mancanza di meraviglie, ma soltanto quando l’uomo cesserà di meravigliarsi.” Dopo la morte delle arti e delle idee, lo studio dell’antropogeografia della preistoria rappresenta l’ultimo stimolo capace di mantenere il ricercatore in un costante stato di meraviglia. Ma andiamo avanti.

 

Genio animale

Ogni generazione si ritrova schiava della propria esperienza e perciò il Demens stenta a credere all’esistenza delle mitiche «isole dei serpenti», o a quella di una «scienza diversa» dalla sua, e magari più efficace. A partire dalle sette «isole di civiltà» potrebbero tuttavia essersi costituiti i mondi successivi, tutti basati sulla visione sciamanica e sul genio animale presente nell’uomo.
In origine gli umani non si attribuivano un’anima diversa da quella degli animali. Ancora non era stato violato il mitico Albero (cioè, inclinato l’asse terrestre?) che si ergeva immenso dal centro di una delle isole citate dal Brahma Purana, e precisamente nella Jambudvīpa, localizzata nel cuore dell’Eurasia.
C’erano ovviamente le «bestie selvagge», cioè i predatori, ma non esisteva la predazione. Con estrema naturalezza l’«uomo-animale» veniva raccontato pertanto con varie sfumature dai Nommo africani fino ai leggendari Anasazi maestri degli indiani Navajo, il primo popolo americano culturalmente avanzato.

Significa che la «visione sciamanica» era diventata predominante all’interno della società? Dopo avere riempito di teriantropi le vite parallele degli sciamani, la diffusione su larga scala delle nuove tecniche si era incistata nell’immaginario collettivo? Oppure lo pseudoconcetto di «ibridazione» era una scusa per scansare la fatica del confronto, e scrollarsi di dosso la responsabilità del vero concetto?
Per gli stessi motivi negli ultimi tempi qualcuno ha proposto la «tesi aliena»: le cronache dell’arrivo di personaggi serpentiformi o pisciformi sarebbero resoconti di altrettanti atterraggi, o ammaraggi, di capsule spaziali contenenti invasori galattici.
È comprensibile che nella desolante solitudine della sua gabbia urbana il Demens cerchi di pensare ad altro: “Siamo i soli viventi? E se esistono altre intelligenze, sanno della nostra esistenza? E se siamo stati visitati, gli esploratori planetari si sono mischiati a noi?” Il buon senso suggerirebbe: ce ne saremmo accorti. Anche se, non è detto. La prima regola dell’etologia è di non disturbare gli animali che vengono osservati, un principio che potrebbe valere anche per gli extraterrestri.
In un certo senso è un bene che gli studi sulle nostre radici viaggino a rilento, non suscitando alcun interesse di ordine economico. Sarebbe drammatico scoprire all’improvviso che l’antenato preistorico non era un povero selvaggio con l’anello al naso perché i veri «primitivi» dell’attuale Ciclo siamo noi, quelli della Fine, mentre gli altri, quelli dell’Inizio, erano esseri «primordiali».

 

Animalario

Ancora per un po’ verrà mantenuto lo status quo; ma prima o poi avrà inizio lo spettacolo pirotecnico e saranno svelate anche le reali identità dei Serpenti piumati, delle Aquile e dei Corvi, o del cinese Feng-huang con il becco di un gallo, il volto di una rondine, la fronte cornuta di un cervo, il collo di un serpente, il petto di un’oca, il dorso di una tartaruga e la coda di un pesce.
Erano uomini o animali? Rappresentazioni o simboli? Icone o caricature di persone reali? Per i Persiani, ad esempio, “i cani, gli uccelli e i porcospini di terra stavano dalla parte del dio benevolo” (Plutarco, De Iside et Osiride, XLVI), mentre erano oggetto di venerazione l’Aquila e il Gallo (Strabone, Geographia xv,3,17). Si presume che gli autori greci abbiano attinto queste informazioni dal Bundahišn, dove i corrispondenti uomini-animali contribuivano al mantenimento dell’ordine grazie al Sole che illuminava le loro azioni.
Nel XIV secolo John Mandeville descrisse una tribù con la testa di cane che viveva sull’isola di Macumeran, in una località oggi irrintracciabile sulla nostra carta geografica. Anche Marco Polo parlò di gente-canina che viveva di un prospero commercio con l’India e abitava le isole Andamane, nel mare che circondava le coste di Burma. E sebbene girasse voce che talvolta questi individui divoravano i mortali, pare che si cibassero in prevalenza di riso, mele, latte e nocciole.
Avevano invece la testa di capra i Fomori, o Fomoriani, un popolo di semidei della mitologia irlandese frutto d’incroci tra esseri umani e bestie; ma com’è noto la maldicenza è un venticello sempre presente tra gli avversari politici, non bisogna per forza seguirlo.
A sua volta Cristoforo Colombo raccontò delle amazzoni, Vespucci non esitò a parlare dei giganti e il cosmografo Pietro Martire riferì che a cento leghe da Panama, in un mare tutto nero, esistevano pesci simili a delfini che, al pari delle sirene, cantavano meravigliosamente facendo sprofondare nel sonno i marinai di passaggio [immagine 2].
In Giappone si narrava dei tengu, una razza di gnomi alati temuti e rispettati per la loro maestria nelle arti marziali e nell’arte della guerra. In India spadroneggiavano gli uomini-scimmia, creature venute dal Regno del Caos e descritte come esseri dotati di orribili poteri.
Un capitolo a parte merita lo zoo divino dell’Egitto.
Lo stesso Osiride, supremo signore della creazione e dell’ordine, poteva assumere mille forme. Suo fratello Seth, malvagio signore del disordine, aveva il volto della iena, simbolo di morte. La maga Iside ostentava ali di falco mentre suo figlio Horus del falco portava la testa, che però sulle spalle di Anubi diventava uno sciacallo.
Va detto comunque che gli animali per gli Egizi non furono mai qualità, né metafore, bensì animali in quanto tali. Negli ultimi decenni gli archeologi hanno riesumato centinaia di mummie vecchie di cinquemila anni di gatti, gazzelle, cani, falchi, sciacalli, coccodrilli, tori, capri, eccetera. In essi le persone avrebbero visto e venerato la sapienza inarticolata, la certezza dell’azione, il modo di agire senza esitare, ma, soprattutto, la loro statica realtà.
Dopo un’attenta osservazione l’antenato preistorico giunse probabilmente alla conclusione che l’animale era adatto in quanto adattato, il suo adattamento s’interfacciava sin da subito alla propria specie rendendolo un organismo sociale, collettivo e dinamico, l’elemento fondante di una società. Mentre l’uomo era adatto in quanto adattabile, il suo adattamento costava fatica e nel migliore dei casi andava a colmare la preliminare distanza intercorrente tra sé ed il proprio correlato ambitale.

 

Uomini e animali, un sodalizio ancestrale

Chiaramente non si possono accogliere le notizie di cui sopra senza farci la tara. Alcune «stranezze della natura» incontrate dai viaggiatori dell’antichità nel corso di viaggi oggi inimmaginabili potrebbero essere state inventate di proposito, cioè allo scopo di far apparire le proprie avventure ancora più straordinarie. Cedette alla tentazione persino Giulio Cesare, il quale descrisse nel De Bello Gallico l’avvistamento in Francia dell’unicorno, simbolo universale di bontà e purezza.
Ciò premesso è fuori discussione che le esagerazioni si siano mescolate nel tempo alla verità, a partire dal rapporto di parentela che legò per millenni gli uomini agli animali, nonostante spesso si siano mangiati a vicenda. Secondo alcuni paleoantropologi l’animale-uomo sarebbe stato prima un primate frugivoro, poi un ominide granivoro, infine un cacciatore; anche se partendo da certi tratti anatomici del nostro apparato masticatorio si direbbe che il consumo di carne sia iniziato fra il Pliocene e il Pleistocene, circa due milioni e mezzo di anni fa.
Comunque sia, una cosa è certa: nell’antichità nessun essere animato (uomo incluso) ne uccideva un altro per sport, essendo l’animale da cacciare un essere quasi metafisico. La necessità di sopravvivenza imponeva di macellare qualche esemplare ogni tanto, ma della vittima si continuava a rispettare l’enigmatica natura, la magica capacità di sparire alla vista o di sorprendere, il misterioso ma sapiente transumare.

C’erano inoltre delle regole da rispettare. Per esempio: uccidere femmine allattanti nel branco era considerato un sacrilegio capace di alterare l’equilibrio naturale a scapito dell’intero gruppo. Nel settentrione eurasiatico il cacciatore doveva invece astenersi dal fare sesso prima della caccia, che era essa stessa il sesso; il corteggiamento strategico, cioè l’agguato, poteva fallire se il tradimento fosse stato scoperto dall’animale femmina.
Non si pretende che oggi il Demens capisca le reali dinamiche di queste tecniche, sarebbe chiedergli troppo, né che riesca ad immaginare quanta «sapienza» ci vuole per relazionarsi con un animale selvatico, o per stabilire con esso un rapporto di complicità. Prima di uccidere il leone l’uomo preistorico doveva farsi leone, prima di uccidere l’orso doveva diventare orso, e così via. Per cacciare occorreva saper imitare il passo della pernice, della pantera, del leopardo, della gru, dello zibellino. L’imitazione introduceva all’uccisione, rendendola in un certo senso meno dolorosa.
Una totale empatia univa uomini e animali.
Si indossava un collare serpentino, si portava un mantello di piume, un accessorio fatto con le scaglie di pesce perché si voleva vedere, sentire e pensare come quell’animale. Nel XXI secolo gli occhi sono puntati sullo schermo piatto, nessuno conversa più con gli Spiriti o viaggia nell’aldilà in forma astrale, essendosi perduta quella che Nietzsche ha chiamato «l’antica umana animalità».
Consapevoli invece della sua potenza i padri di una volta insegnavano ai propri figli tutti i bramiti e gli improvvisi spaventi di un branco, o come interpretare l’arrivo del lupo, della iena, o della tigre. I padri-Demens cosa potrebbero insegnare, come ottenere alla svelta lo spid?
Tutto ciò che appartiene al passato, è passato.
Si è creato un mondo artificiale totalmente sganciato dalla Storia, se non sotto forma di ruderi e musei. Come un tempo solo ciò che nell’uomo risultava essere impersonale era sacro, ma soltanto quello, così oggi conta unicamente la «persona», una nozione astratta il cui nome nel mondo latino serviva appunto per indicare la maschera dell’attore teatrale

 

Simbiosofia

Qualcuno ricorderà l’epilogo inaspettato del violento tsunami che nel 2004 colpì le isole dell’Oceano Indiano: tutti morti, tranne gli indigeni che vivevano da 60mila anni nelle Andamane continuando a rifiutare il contatto con la cosiddetta «civiltà». Vedendo antilopi e bufali comportarsi in modo «strano», nonostante il mare fosse calmo e il cielo azzurro, costoro percepirono in anticipo la catastrofe incombente e abbandonarono in fretta e furia la costa, salvandosi la vita.
L’uomo capace di ascoltare il mondo reca in sé tutte le risposte e intuisce la perfezione singolare di ogni forma di vita biologica nel suo stile inimitabile, nel suo ritmo esistenziale ed unico. Quando la connessione cessò di esistere non è dato saperlo; ad esempio Giorgio Agamben nel libro “L’aperto. L’uomo e l’animale” accosta espressamente i tempi preistorici alla comparsa del «mistero pratico-politico» che determinò la separazione dell’uomo dall’animale.
Convenienza e opportunità avrebbero inquinato dunque lo spazio da sempre ritenuto intoccabile, quello sacro. Forse si voleva impedire all’animale-uomo di continuare ad essere un «animale autentico», cioè un essere vivente capace di pensare come una montagna e di agire come un lupo, o di fermarsi a riflettere come un arbusto di salvia rannicchiato su una collina, ad alta quota, al di sopra della vallata.
In questi attimi preziosi accade sempre qualcosa d’importante, peccato che i soli a saperlo ormai siano gli animali rimasti fedeli alla propria forma originaria, i quali appaiono ancora pregni di quel senso sempre vigile di precarietà che dovrebbe distinguere ogni vita.
Ingessato da un modello sovraordinato e uniformante il Demens ha perso invece la capacità di coltivare il suo innato spirito di adattamento, cioè di vivere con disinvolta simbiosofia, coltivando la saggezza della propria parte animale senza perdere i privilegi offerti dal proprio intelletto. Spera che la tecnologia corregga (guarisca) il difetto che lui stesso si è auto-convinto di essere; ma chi ha detto che il futuro dell’umanità voglia micro-chip anziché uomini dotati di intelligenza animale?
Presto lo sapremo. Il delirio superomistico di onnipotenza sta accelerando tutti i processi, provocando reazioni a catena. Gli eccessi sono ormai divenuti indistinguibili dalla perversione e le doti taumaturgiche del mezzo tecnologico segneranno il suo smascheramento, ovvero riveleranno il suo volto più autentico, quello basato sull’illusione e l’inganno.
Ad ogni modo il collasso dell’intero Sistema non sarà la fine del mondo; figurarsi se una specie sopravvissuta alla «morte degli dèi» non attiverà in extremis gli anticorpi necessari al superamento del «disincanto del mondo». Assieme alla visione storicistica del Tempo la specie umana ha sempre avuto dei valori a-temporali, i quali, procedendo sottotraccia a prescindere dalla visione prevalente in un dato momento, incredibilmente trovano sempre una via di uscita.

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

2 Comments

  • Gianni 14 Aprile 2024

    Brava!

  • Rita Remagnino 15 Aprile 2024

    Grazie!

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