10 Maggio 2024
Preistoria

Il molteplice Uno – Rita Remagnino

Madre Natura non fece sconti al genere umano durante l’ultimo massimo glaciale, quando la temperatura media era di sette gradi inferiore all’attuale e i disastri geologici si susseguivano a catena. Diretta verso un orizzonte adombrato da rosee sfumature di speranza la specie Homo teneva duro, ma la semplice affermazione dell’Io non le sarebbe bastata a fondare una nuova civiltà.
Per rimanere nella Storia l’uomo aveva bisogno di un sostegno che lo aiutasse a vederci chiaro. Fu allora, probabilmente, che cominciò a diffondersi tra i gruppi umani la visione religiosa come alternativa all’antica credenza secondo cui l’Unità poteva dispiegarsi nella molteplicità senza per questo cessare di essere se stessa.
Fino a quel momento tutto era stato sacro, divinizzato, esaltato e posto in rilievo da Enti che mantenevano un rapporto continuo e vitale con l’intero Cosmo, di cui erano parte integrante. La libertà era stata totale e incondizionata. Adesso però servivano regole, e nella sfera religiosa tutto appariva spietatamente conforme a una Legge fatta di parole precise che potevano esistere a prescindere dalla bellezza variegata di alberi, fiumi, ruscelli e animali in costante comunicazione con l’uomo.
Più tardi la lingua latina coglierà il senso del passaggio tra il «prima» e il «dopo» assegnando un significato differente ai termini sacrum e religiosum. Qualcosa si sarebbe perso per strada, era inevitabile, ma in compenso l’astrazione che andava sotto il nome «religione» avrebbe dato ai vari gruppi sociali la possibilità di condividere tra loro principi e valori, facendoli sentire più uniti.
Sbrigativamente il mondo moderno ha articolato questa trasformazione in due fasi successive e interdipendenti: dapprincipio ci fu il monoteismo primordiale di matrice polare, o Urmonotheismus, in seguito s’impose il politeismo classico a vocazione solare.
Il processo troverebbe riscontri anche in letteratura, ne è un esempio il dodicesimo libro del Mahabharata che citando il Centro polare primordiale situato su un’isola poi inghiottita da un enorme cratere usa queste parole: “Sulle sponde settentrionali dell’Oceano di Latte vi è un’isola di grande splendore chiamata l’Isola Bianca. Gli uomini che abitano quell’isola hanno carnagioni bianche come i raggi della Luna e sono adoratori di Narayana, il primo di tutti gli Esseri, gli sono devoti con tutta la loro anima (…). Gli abitanti dell’Isola Bianca credono in un solo dio e adorano solo Lui. Andate là, asceti, perché lì mi sono rivelato! Tutti noi ascoltando queste parole incorporee, ci dirigemmo per la via indicata verso quella terra.” (Shanti Parva, cap. 337).

 

Diario di viaggio

In effetti le «carnagioni bianche come i raggi della Luna» poco si addicono all’antenato polare di natura androginica, cioè alla «stirpe rossa» delle Origini. Esse potrebbero tuttavia trovare una collocazione nel Terzo Grande Anno dell’attuale Manvantara (da 39.000 a 26.000 anni fa circa), cioè nel periodo in cui comparve il primo Homo religiosus, il quale iniziò la sua ascesa sociale praticando una sorta di paganesimo olistico al cui interno si distinguono alcune tappe salienti:

  • circa 35-30.000 anni fa tra la Siberia occidentale e la Russia orientale si manifestò lo sciamanesimo;
  • circa 22-20.000 anni fa il doppio spostamento dalle due sedi secondarie della fascia sub-artica di un ceppo unitario dedito al culto solare diede vita al «ciclo ariano»;
  • circa 13-12.000 anni fa tra la Turchia e il Levante (Siria, Libano, Palestina, Giordania) emersero nuove forme di paganesimo;
  • circa 5.000 anni fa in Egitto si costituì la prima religione organizzata;
  • circa 4.000 anni fa l’Era dei Patriarchi introdusse nel mondo ebraico l’idea dell’Uno sotto forma di vegliardo barbuto dallo sguardo di fuoco.

In linea di massima, è andata così. Tuttavia l’essere umano presenta caratteristiche e tipicità difficilmente comprimibili in una griglia di word, o di excel, e il tentativo di imprigionarle può generare categorie che male si conciliano con il caleidoscopico comportamento dell’uomo, il quale, al di là di tutto, ha sempre perseguito la visione unitaria.
Detto altrimenti: il Cro-magnon che 30mila anni fa si calava nelle caverne del sottosuolo per incontrare vari Enti divini in nome e per conto del bene comune, non si rivolgeva in realtà a «cose diverse» bensì a differenti aspetti dello stesso basilare principio di unità. Idem dicasi per le culture venute in seguito, la cui visione religiosa si protrasse per millenni ma sempre ruotando attorno a un solo progetto: la ricerca dell’Unità.

 

Niente è come sembra

Verosimilmente l’uomo è stato capace fin da subito di esprimere la sua natura metafisica, lungo il cammino ha solo dato abiti diversi ai propri pensieri, adeguando il linguaggio al mutare delle circostanze esterne. Sempre, però, avendo ben presente l’Uno. Un punto di riferimento che è possibile ritrovare persino nel caotico culto egiziano degli déi antropo-animaleschi, una devozione che i Greci non riuscirono mai a capire fino in fondo.
Diodoro lo definì «eccessivo», non spiegandosi per quale motivo le liturgie dedicate dai sacerdoti agli animali o agli dèi avessero uguale importanza. Stesso zelo, stessa attenzione verso i rituali, stesse premure. Nel dubbio, comunque, gli ellenici cercarono di imitarlo popolando il loro mondo di una fauna ibrida e variegata che andava dal conosciutissimo Minotauro ai gaudenti uomini-capra, sempre in cerca di giovani vergini da possedere, passando per i selvaggi centauri che si divertivano a darsele di santa ragione.
Dopo una spedizione nelle terre bagnate dal Nilo il logografo greco Ecateo riferì di aver visto trecentoquarantacinque altissime statue di legno che rappresentavano altrettante divinità, ma i sacerdoti gli avevano spiegato che si trattava di simboli creati appositamente per portare la coscienza oltre le apparenze. Aggiungendo, a scanso di equivoci, che «in 11.340 anni non vi era stato in Egitto alcun dio in forma umana», essendo dio l’unità inafferrabile e inesprimibile.
Persino i sette Netjeru, o Neter, che in principio avevano civilizzato la terra vergine destinata ad assumere il nome di «Egitto», andavano considerati come altrettante «forze direttrici» attraverso cui l’invisibile agiva sul visibile. Sopra queste Sette Funzioni primarie poggiava l’Intelligenza Unica, inconoscibile e invisibile. Esplicitando il sincretismo religioso tipico dell’epoca il famoso Inno ad Amon-Ra, scritto su un papiro dell’età di Amenofi II, ora al Museo del Cairo (Papiro di Bulaq n. 17), parla chiaramente di: “Uno Unico che è senza secondo”.
Caratteristiche simili sono riscontrabili nel cosiddetto politeismo mesopotamico, impegnato in un continuo rimando a quell’infinito mistero costituito dalla natura dell’Essere espressa nella molteplicità degli enti divini, il quale appare perennemente proteso verso l’unità principiale: Anu.
Analogamente nell’Iliade compare un numero imprecisato di dèi e di dee quasi sempre in lotta fra loro, essendo taluni schierati a fianco degli Achei ed altri dalla parte dei Troiani, i quali però si rendono protagonisti di episodi capaci di affermare una visione religiosa unica in cui la molteplicità delle figure divine viene ricondotta ad un principio unitario superiore e trascendente.
Ne consegue che a prescindere dalle apparenze e dai falsi miti creati dal modernismo per sovrastimare se stesso, la molteplicità di figure divine della Preistoria è sempre e comunque riconducibile ad un Superiore, cioè al trascendente «Principio Uno». All’Essere necessario che basta a se stesso nella Sua assoluta pienezza e dal quale dipendono interamente l’esistenza e la sussistenza di tutte le cose, le quali, senza di esso, nulla sarebbero.
A tale proposito la narrazione più significativa, quella che fuga ogni dubbio, è contenuta nella mitologia nordica dove gli dèi appaiono chiaramente superdotati ma non immortali; infatti, finiranno spazzati via come gli esseri umani dall’immane catastrofe geologica e spirituale del Ragnarǫk.

 

Madre Sole

In Origine tutto era dunque Coscienza, o per meglio dire faceva parte di un’Unica Coscienza onnipresente e onnisciente. Bisognerà arrivare al Quarto Grande Anno dell’attuale Manvantara (dal 26.000 al 10.500 a.C. circa) per parlare di politeismo, ma sempre con beneficio d’inventario poiché il cambiamento non testimonia una vera e propria inversione di marcia ma soltanto il temporaneo inciampo dell’uomo decaduto.
In un contesto fattosi forte e debole, instabile e mutevole, era inevitabile che il maschio matrizzato nato sotto il segno della Luna e cresciuto alla luce del Sole avesse difficoltà a concettualizzare l’Uno e vedesse doppio, cioè Cielo e Terra, anima e corpo, spirito e materia, uomo e natura, bianco e nero. Come dirà Eraclito molto tempo dopo: la visione d’insieme si dilegua ogniqualvolta gli opposti cercano di mettersi d’accordo.
Percepito come un principio creatore esterno al mondo terrestre lo stesso Divino venne immaginato «residente altrove», forse in cielo; di conseguenza i rapporti tra il mondo soprannaturale e materiale potevano essere mantenuti solo attraverso un intermediario, il quale, in piena Età della Madre, non poteva essere altri che il femminile in Natura.
L’idea attecchì talmente bene che un bel momento furono attribuite caratteristiche «lunari», cioè variabili e mutevoli, persino a una forza unitaria e potente come quella del Sole, il cui alto tasso di fertilità indusse i popoli pre-mesopotamici ad assegnargli un genere femminile, cosa che lo legò ancora di più al culto e al rito. Ad esempio, a Ugarit la dea solare Sapshu era un potente psicopompo. Tra gli Hurriti questa figura si chiamava Simegi, mentre presso gli Hittiti era Arinna.
In memoria dell’antica parentela genetico-culturale con l’Eurasia anche gli aborigeni australiani raccontavano che Donna-Sole si svegliava ogni giorno nel suo accampamento a est e poi accendeva il fuoco, che, scaldando il cielo, avrebbe stimolato la crescita delle piante. Prima di uscire dalla sua dimora ed esporsi alla luce Donna-Sole si decorava con ocra rossa, una polvere molto fine che disperdendosi sulle nuvole le tingeva di rosso, (l’alba). Una volta raggiunto l’ovest, rinnovava il trucco, colorando di giallo e rosso l’orizzonte (il tramonto). Infine si preparava per il lungo viaggio sotterraneo che l’avrebbe riportata nuovamente nel suo campo ad est.
Attualmente la dea-sole più nota è la nipponica Amaterasu, la quale stanca delle violente scorrerie del fratello e marito Susanoo (la Tempesta) si nascose in una profonda caverna precipitando il mondo nell’oscurità. A causa del «pregiudizio classico» denunciato da Guénon nel suo Oriente e Occidente il mito viene solitamente interpretato come un’allegoria del solstizio d’inverno: siccome al centro dei misteri cosiddetti matriarcali vi è la Grande Madre Luce che genera il Sole al solstizio invernale, significa che la narrazione allude al momento in cui l’astro si trova al nadir mentre ad est sorge la costellazione della Vergine, detta «il granaio dello Zodiaco» per via della sua stella più brillante, Spica, o Spiga.
Nessun mito, tuttavia, è mai stato inventato di sana pianta per qualsivoglia motivo. Al di là della natura innata di certe figure presenti nell’immaginario collettivo, va sempre considerata la volontà degli antenati di tramandare ai posteri la memoria di fatti ed eventi realmente accaduti, di fenomeni naturali di portata planetaria, di epocali esperienze vissute, ovvero di tutto ciò che meritava di attraversare il tempo e lo spazio.
Figurarsi se una cultura fortemente tradizionale come quella nipponica, di gran lunga più «antica» dell’occidentale, poteva ignorare simili presupposti. In nessun altro corpo narrativo si ritrovano, mutatis mutandis, i temi comuni all’intera cintura sub-artica, ivi comprese certe zone settentrionali del Nordamerica abitate da popoli di indubbia provenienza eurasiatica e vecchi di 30-20.000 anni.
Può darsi dunque che il «mondo precipitato nell’oscurità» a causa dei capricci della dea solare Amaterasu, che va a «nascondersi in una caverna» mentre tutti (gli astri) la pregano di uscire, sia l’allegoria di uno dei tre periodi di oscuramento corrispondenti ad altrettanti episodi di temporaneo raffreddamento, detti Dryas: il primo antichissimo (18-15mila anni fa), il secondo antico (14-13.700 anni fa), il terzo recente (12.900-11.500 anni fa).

 

Realtà del divino

Per millenni le entità solari ebbero un carattere dicotomico, cioè femminile, sfoggiando in pubblico il proprio aspetto astrale (la luce divina) e in privato quello infernale (legato al culto dei defunti). Finché sorsero dei dubbi circa la loro reale affidabilità: cosa ne sarebbe stato del mondo terrestre se, per ipotesi, dopo essersi ritirato nel buio dell’Oltretomba durante le ore notturne il cocchio dorato non fosse riemerso dall’oscurità? Era già successo (Amaterasu docet), perciò poteva di nuovo accadere.
Avendo fatto nel frattempo una discreta carriera i nuovi sacerdoti dichiararono che le religioni sarebbero state in grado di fronteggiare qualsiasi evenienza attraverso regole e leggi ben precise, ovvero l’ineffabile pensiero duale (Bene vs Male) capace di stabilire il giusto e lo sbagliato, il vero e il falso, il bello e il brutto. In poche parole: il da farsi.
Il risultato è noto a tutti. Una buona parte di ciò che negli ultimi secoli è andato sotto il nome di «religione» conteneva in sé un atteggiamento d’inconscia ostilità verso alcuni aspetti della Vita, o quanto meno mostrava un’intransigenza di fondo capace di fare un tutt’uno delle religioni e della guerra. Acqua passata? Nient’affatto.
Se chiamiamo «religione» ciò in cui gli uomini credono di credere, non vi sono dubbi che le teorie scientifiche costituiscano attualmente una religione dotata di apparato dogmatico (le «verità scientifiche» in cui bisogna credere) e di riti correlati. Tanto era sfegatato il baciapile del passato quanto è invasato il filo-scientista del presente, il quale, partendo dall’assunto arbitrario che la scienza sia la sola forma legittima e attendibile di conoscenza, combatte gli approcci diversi definendoli «inferiori», che è l’equivalente di «anti-scientifici».
A tutti gli effetti il mondo-Demens può dirsi dunque una società a-tea piena di «fedeli» che costruiscono altari su cui venerare i nuovi dèi, ovvero i cosiddetti «scienziati», o «esperti», categorie nelle quali sono finiti il medico, il biologo, il docente e l’opinionista televisivo, persone che fino a ieri svolgevano una normale professione.
Molto simili agli antichi sacerdoti questi soggetti non dispongono tuttavia della forza necessaria a trasformare il troglodita in emancipato, come dimostra il fatto che l’umanità non si sia ancora «elevata» dallo stato bestiale a quello spirituale. Anzi: partita dai grandi saggi e dagli eroi, disposti a sacrificarsi per il proprio gruppo sociale, si ritrova oggi nelle mani di improvvisati senza qualità che hanno vinto un trono alla lotteria.
Non c’è bisogno di avventurarsi nel concetto paretiano di élite per cogliere due dati eclatanti: svincolati da ogni principio sapienziale e privi di riferimenti culturali i cosiddetti «poteri forti» sono diventati «poteri deboli» circondati dagli individui più osservanti e ligi agli ordini impartiti di sempre. Quanto rilevato c’entra con il discorso che stiamo facendo nella misura in cui l’insieme delle debolezze ha causato la morte dell’Uno, cioè del principio unitario e trascendente; e da quando dio è morto, per dirla alla Dostoevskij, tutto è diventato lecito e permesso.
In conclusione il vero politeista del Ciclo presente è l’uomo del XXI secolo, il quale ha più dèi da venerare dell’antenato paleolitico adorno di piume e sonagli. Una coscienza zavorrata come la sua riuscirà a spingersi oltre le apparenze? A un passo dalla fine il Demens si libererà del superfluo, o si accontenterà di una vita ridotta a puro «funzionamento»? Ai posteri … eccetera, eccetera.

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (ed. Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (ed. Audax Editrice). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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