13 Aprile 2024
Saggio

Vincente

Di Fabio Calabrese
     Il linguaggio non è soltanto il mezzo attraverso il quale comunichiamo il nostro pensiero, è anche lo strumento mediante cui il nostro pensiero si forma. Parlare in maniera rudimentale, come avviene con il linguaggio da SMS delle generazioni più giovani, gli psicologi lo hanno messo in rilievo, significa alla lunga pensare in maniera rudimentale, ma allo stesso modo parlare in maniera distorta significa pensare in maniera distorta. Gli abusi del linguaggio servono a far passare delle vere e proprie mistificazioni concettuali.

Vi sono dei termini che a solo udirli mi provocano un senso di nausea che mi porterebbe a manifestazioni d’irritazione alquanto vivaci se non avessi un innato senso di autocontrollo e di “aplomb” che non è affatto una prerogativa esclusivamente britannica.

Una di queste espressioni; se ricordate, ve ne avevo già parlato in precedenza, è “processo di pace”. Fateci caso: questa locuzione si applica solo riguardo al medio Oriente, alla questione palestinese, alla politica di Israele, e naturalmente nasconde una mistificante ipocrisia. In qualsiasi altro luogo al mondo si dà per scontato che la pace non sia un processo ma una condizione, c’è o non c’è. “Processo di pace” in pratica significa che lo stato ebraico si riserva il diritto di interrompere in qualsiasi momento a suo totale arbitrio la finzione della ricerca di una convivenza accettabile con i Palestinesi per colpirli con la più atroce ed ingiustificabile delle rappresaglie, se così ritiene che gli convenga in quel momento.

Di questo, però, abbiamo già parlato altre volte. Espressioni che contengono un’ipocrisia forse non altrettanto sfacciata ma ancor più diffusa, sono i due termini “vincente” e “perdente”.

Questi termini che sono due italianizzazioni degli inglesi – americani “winner” e “loser”, non sono sinonimi delle due parole italiane “vincitore” e “sconfitto” ma hanno un significato molto diverso.

Noi pensiamo per l’ordinario che nella vita delle persone e delle comunità, uscire vincitori o sconfitti da un confronto di qualunque tipo dipenda dalle capacità e dai mezzi, ma anche dalle circostanze, dalla forza dell’avversario, da un quid di fortuna imponderabile.

“Vincente” e “perdente” non significa questo, quanto piuttosto essere predestinati alla vittoria o alla sconfitta indipendentemente dalle circostanze esterne; è la dottrina calvinista della predestinazione che fa capolino dietro questi termini.

Il calvinismo non è una religione come le altre, se ne differenzia soprattutto dal punto di vista etico: poiché il fedele nella sadica fede di Calvino deve scoprire in sé e nella sua vita i segni della grazia divina attraverso il successo materiale, ecco che la rapacità, l’arroganza, la prepotenza, la violenza, tutti comportamenti che perlopiù una fede di qualsiasi tipo biasima, qui sono apertamente approvati, diventano segni dell’appartenenza alla schiera degli eletti.

Un effetto non secondario di questo modo di pensare, è quello di sterilizzare ogni sensibilità verso le ingiustizie sociali. Come si può parlare di ingiustizia quando ogni privilegio è voluto da Dio?

Sarà per questo che gli Stati Uniti non hanno una sanità pubblica né una protezione civile (si pensi a quanto la sua mancanza si sia rivelata disastrosa per i cittadini di New Orleans dopo l’uragano Kat
hrina) né ammortizzatori sociali degni di questo nome. Vogliamo scherzare? Calvinisticamente parlando, la povertà è sempre una colpa.

C’è poi una fondamentale ambiguità rispetto all’idea di successo: “successo” non dovrebbe significare tanto salire in alto nella piramide sociale e/o aver accumulato un consistente conto in banca ma, una volta risolti i problemi connessi con un’esistenza dignitosa, aver raggiunto un equilibrio armonico con se stessi e gli altri, creatività e competenza a livello professionale, soddisfazione nel lavoro, stima e rispetto.

Il concetto di successo che sta dietro la filosofia del “vincente” calvinista è piuttosto quello del boss di una gang criminale che quello di chi si sente parte di una società civile.

Vorrei consigliarvi la lettura del bel saggio di John Kleeves Capitalisti con la pistola pubblicato dalla rivista “Identità” che dovrebbe essere ancora reperibile in internet: il gangster è il modello di base cui s’ispira l’americano tipo.

L’americano sembra davvero aver ripercorso all’indietro la strada che va dalla barbarie all’incivilimento, e a una velocità sorprendente. Riporto alcune considerazioni che si trovano in un recente articolo di Maurizio Blondet:

“Regolarmente i Marines in Iraq ammazzano dall’inizio dell’occupazione: sparano sui passanti ai posti di blocco, assassinano donne incinte e bambini per rabbia, per paura, per disprezzo, per divertimento.

Sicuri dell’impunità perché coperti e giustificati dai loro comandanti, che per parte loro fanno di peggio: bombardano dal cielo, città occupate, con fosforo bianco, avvelenano le fonti della vita spargendo tonnellate di uranio impoverito.

E questa non è un’eccezione, ma un’abitudine storica degli armati americani. Nella seconda guerra mondiale ammazzavano i soldati tedeschi che si arrendevano con le mani in alto: avevano combattuto troppo bene, gli avevano fatto paura.

Questa sistematica violenza del forte super-armato sul debole indifeso è il segno più chiaro e tragico che l’Occidente è caduto nella mani sbagliate, le più vili e disonorate.

La mancanza di coraggio che queste atrocità rivelano, la bassa vendicatività, l’ignobile assenza di magnanimità, segnalano che è stato raggiunto il punto più basso, contro cui la civiltà occidentale ha sempre lottato: la riduzione finale del militare al teppista omicida, al delinquente comune, all’assassino per paura”.

Maurizio Blondet: Come l’estetica creò l’etica www.effedieffe.com

La violenza incontrollata, bestiale, nasce da un inconfessato senso d’ inferiorità: i marine trucidavano i soldati tedeschi che si erano arresi, sapevano bene di avere a che fare con combattenti migliori di loro che le circostanze avevano posto in una condizione d’inferiorità; l’arrogante superuomo americano cela dietro il suo imponente apparato tecnologico ciò che veramente è: un vigliacco.

“Vincenti”, ossia insopportabilmente arroganti come individui, gli yankee ritengono di esserlo ancora di più come nazione, predestinati ad assumere il dominio mondiale, èla famosa concezione del destino manifesto in ragione del quale la sedicente nazione americana si è sentita autorizzata nel corso del XIX secolo ad espandersi (come una proliferazione cancerosa) nelle terre degli Americani nativi – i cosiddetti pellirosse – e a perpetrare nei loro confronti un genocidio di dimensioni per nulla inferiori a quelle asserite al processo di Norimberga, che si pretende siano state compiute dai nazisti nei confronti degli Ebrei, anzi probabilmente superiori.

Costoro, che si pretendono dei superuomini invincibili, non ammettono di aver mai perduto una guerra, asseriscono di averla sempre avuta vinta su qualsiasi avversario. E’ veramente così? Una piccola disamina storica basta a dimostrare che si tratta di una millanteria infondata.

Una prima sconfitta gli Stati Uniti la registrarono in epoca napoleonica quando avvenne quella che sui (loro!) testi storici (e poi sui nostri per vile spirito imitativo) è chiamata seconda guerra d’indipendenza americana, ed in realtà fu un tentativo – fallito – di impadronirsi del Canada approfittando delle difficoltà che la Gran Bretagna aveva in Europa con Napoleone, ma a quanto pare a quell’epoca il leone britannico aveva ancora gli artigli. Notiamo qui il modo di agire tipico dei vigliacchi: aggredire alle spalle l’avversario quando si ritiene che si trovi in condizioni di inferiorità perché impegnato con un altro nemico, ma gli andò male, perché il Canada rimase britannico.

Nel XIX secolo gli Stati Uniti sono stati scossi dalla più sanguinosa guerra civile dell’età moderna. Quando una nazione è devastata da un conflitto di questo tipo, ne esce sconfitta a prescindere di chi sia la parte vincitrice.

La guerra di secessione, la guerra civile americana fu in sostanza una faida all’interno dell’oligarchia capitalista statunitense: il capitale industriale del nord contro il capitale agrario del sud: la liberazione degli schiavi fu semplicemente un pretesto; del resto basta pensare che i lavoratori “liberi” furono a lungo trattati peggio degli schiavi. In ogni caso, lo schiavismo era un problema che gli Stati Uniti si erano creati da s é: nessuno degli Africani che erano arrivati in America incatenati a bordo delle navi negriere, l’aveva fatto di sua volontà.

Gli Stati Uniti hanno vinto le due guerre mondiali soprattutto grazie alla tattica consistente nel fornire aiuti materiali agli “alleati” ed entrare a loro volta in campo quando le forze degli altri combattenti erano ormai sfibrate, ma facciamo attenzione: gli Italiani impararono amaramente nel 1919 a Versailles che si può vincere una guerra sul campo e perderla al tavolo della pace. Gli alleati occidentali iniziarono la seconda guerra mondiale nel 1939 per impedire alla Germania di rientrare in possesso di Danzica, che era una città tedesca, e la terminarono dovendo regalare a Stalin mezza Europa dalle foci del Reno all’Adriatico: era la più beffarda delle sconfitte, dovuta principalmente alla cecità del presidente americano Roosevelt che si rifiutò di vedere le mire espansionistiche e la malafede di Stalin nonostante molti avvertimenti, compresi quelli di Winston Churchill, che pure da parte sua si dimostrò o estremamente cieco o in totale malafede, accettando senza batter ciglio la svendita dell’impero britannico e la fine della centralità storica dell’Europa pur di non venire a patti con la Germania.

Dopo la seconda guerra mondiale vi sono state la guerra “pareggiata” di Corea e la sconfitta del Vietnam. Tecnicamente, anche la guerra di Corea non è stata un “pareggio” bellico ma puramente e semplicemente una sconfitta, poiché alla fine di essa era sotto controllo del nord comunista una porzione di territorio sottratta al sud “occidentale” maggiore di quanta ve ne fosse prima dell’inizio delle ostilità, ma prescindiamone pure, diamo momentaneamente per buona la leggenda del pareggio e concentriamoci sull’altro conflitto dell’Asia orientale, a conclusione del quale abbiamo visto il piccolo Vietnam umiliare e costringere a battere in ritirata il colosso americano.

Se voi parlate oggi con degli americani, probabilmente vi diranno che gli Stati Uniti in Vietnam non furono sconfitti, perché erano presenti nella penisola indocinese unicamente come “consiglieri militari”, che ad essere sconfitto fu unicamente il regime sudvietnamita di Saigon; quel che non è chiaro, è se si aspettino davvero che voi gli crediate.

E’ stato un episodio di dimensioni molto più circoscritte rispetto ad un conflitto, ma fu certamente un fatto di natura militare, e lo si può annoverare fra le sconfitte americane, perché la macchina bellica della maggiore potenza mondiale diede una dimostrazione macroscopica di dilettantismo e inefficienza: il tentativo di liberazione degli ostaggi dell’ambasciata americana a Teheran. Fu un fallimento clamoroso nel quale l’apparato militare americano dimostrò di essere un grosso corpo senza cervello.

Forse si sarebbero dovuti far dare qualche lezione dai loro amici israeliani, esperti mondiali in operazioni piratesche consistenti nel violare la sovranità territoriale altrui.

Avete presente la storia di John Rambo e l’evoluzione di questo eroe immaginario da disadattato a vendicatore dell’onore americano che si attua attraverso le tre pellicole della serie? (Ma se si sente il bisogno di vendicare il proprio onore, c’è sicuramente qualcosa che non va). Che cosa c’è di autentico?

Di autentico c’è l’ostilità verso i veterani del Vietnam che costituisce il
leitmotiv della prima delle tre pellicole prima che la narrazione si pieghi ad un superomismo puramente muscolare.

Che i reduci di una guerra perduta non incontrino la stessa simpatia e lo stesso entusiasmo di chi torna vincitore, questo è ovvio, ma da dove vengono tutta l’ostilità, tutto l’odio che Rambo suscita per il solo fatto di essere un reduce, e che trova il suo riscontro in una serie di episodi assolutamente reali?

La colpa dei reduci del Vietnam è quella di essere stati testimoni e di essere la prova vivente della sconfitta degli Stati Uniti, sconfitta che deve essere rimossa in quanto essa è stata molto più di un rovescio militare, la confutazione di una religione, la religione del destino manifesto, della presunzione di avere l’occhio benevolo di Dio costantemente puntato fra Canada e Messico.

Oggi gli Stati Uniti non sono più impegnati in un Vietnam, sono impantanati in due Vietnam, l’Irak e l’Afghanistan: due guerre che non possono vincere, ma dalle quali non si possono ritirare senza perdere la faccia, senza distruggere a livello planetario il mito dell’invincibilità americana.

Alla lunga, questa situazione non potrà che determinare un’emorragia sempre più insensata di risorse e di vite umane, e mostrare al mondo la prima potenza planetaria per quello che è: un colosso dai piedi d’argilla.

Abbiamo visto che oggi gli Stati Uniti dichiarano di essersi ritirati dall’Irak dove, assieme al regime di Saddam Hussein, hanno distrutto il fragile equilibrio che esisteva fra le componenti etnico-religiose di questo stato, e che ora fingono di aver pacificato. Non si tratta che di un bluff. Se gli Americani si disimpegnassero davvero, il giorno dopo si installerebbe a Baghdad un regime fondamentalista islamico, perché durante la loro brutale occupazione, gli yankee sono riusciti soltanto a seminare odio.

Il guaio è che in tutto ciò siamo coinvolti anche noi come “alleati” cioè vassalli del gigante americano.

E voi, vi considerate dei “vincenti”? Se è così, se credete davvero di esserlo, devo disilludervi, vi siete semplicemente lasciati colonizzare da uno stereotipo culturale che ci è estraneo.

Per affrontare le difficili prove del presente e del futuro, non occorrono dei “vincenti”, occorrono uomini che sappiano tenere la posizione, rimanere in piedi anche se le speranze di vittoria sono scarse o non ci sono, semplicemente perché così comandano l’onore e il rispetto di sé stessi.

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