12 Aprile 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, trentaquattresima parte − Fabio Calabrese

Riprendiamo il nostro appuntamento con lo studio dell’eredità degli antenati. Io credo nella serie di articoli che compongono questa rubrica, di aver delineato un quadro sufficientemente chiaro del nostro passato ancestrale, sfatando le false idee di una democrazia basata sui dogmi aprioristici dell’uguaglianza degli uomini, della non rilevanza della base biologica e genetica di ciascuno di noi, della non importanza della nostra eredità in quanto uomini europei, indoeuropei, caucasici, dell’origine africana, dell’origine mediorientale della civiltà, e via dicendo.

Adesso si tratta di proseguire con un lavoro di aggiornamento, rendendo conto di quel che man mano emerge, anche se si può dire che letteralmente tutte le novità sullo studio del nostro remoto passato SMENTISCONO in maniera sempre più chiara quei pregiudizi che la tirannide ipocrita che si suole chiamare democrazia cerca di imporre come idee sull’essere umano.

Anche stavolta dovremo muoverci su piani e su fasce temporali diverse: le origini remote della nostra specie, la genetica degli Italiani e ciò che essa suggerisce intorno al nostro passato, e i presunti apporti orientali che starebbero alla base della civiltà europea che invece, come abbiamo visto, si è sviluppata crescendo sulle proprie basi e in autonomia rispetto al mondo asiatico e/o mediorientale.

Cominciamo con una notizia che viene dalla Russia:

“L’equipe del paleontologo Vladimir V. Pitulko, dell’Accademia russa delle scienze di San Pietroburgo, avrebbe trovato prove di presenza umana a 72° Nord all’interno del Circolo polare artico, risalenti a ben 45.000 anni fa: si tratta di una carcassa di mammut, che reca molti segni di ferite d’arma da punta e da taglio inflitte sia prima che dopo la morte, ad indicare che, dopo la caccia, furono compiuti interventi di macellazione e asportazione di carne, grasso e di parte delle zanne. Sono stati rinvenuti anche resti di un lupo cacciato e ucciso, posto in una posizione separata.

Entrambi i ritrovamenti potrebbero quindi provare che esseri umani  capaci di cacciare e sezionare una preda, abili nella costruzione di strumenti, nel fabbricare abiti caldi e rifugi (…) potevano essersi ampiamente diffusi in tutta la Siberia artica molto prima di quanto si pensasse. Per lungo tempo si era ritenuto infatti che l’uomo avesse raggiunto le regioni artiche intorno a 15-12 mila anni fa”.

Questa scoperta di cui parla un articolo riportato sul sito www.rigenerazionevola è importante per vari motivi. Prima di tutto, costituisce l’ennesima confutazione della favola dell’Out of Africa. Se, come sostiene questa leggenda mediatica che è troppo generoso chiamare teoria, noi tutti discenderemmo da un pugno di africani superstiti da una catastrofe planetaria avvenuta attorno a 50.000 anni fa, i tempi diventano troppo stretti per pensare che poco dopo la nostra specie si sia spinta fino alla Siberia settentrionale, all’Artico come invece questi ritrovamenti provano.

Secondariamente, contrariamente a quello che spesso si pensa, i mammut erano animali che certamente vivevano in climi più freddi di quelli attualmente abitati dagli elefanti africani o asiatici, come dimostra il loro manto peloso, ma contrariamente a quel che spesso si pensa, non avrebbero potuto sopravvivere in un ambiente come quello attuale delle regioni artiche; sicuramente non avevano necessità metaboliche inferiori a quelle degli elefanti odierni, che necessitano di qualcosa come un quintale di vegetali al giorno, una quantità impossibile da reperire con i licheni, i muschi, la vegetazione nana che sopravvive oggi nella tundra artica. La loro presenza in queste regioni è la prova che esse decine di migliaia di anni fa godevano di un clima molto più mite di quello attuale, esattamente come afferma l’ipotesi iperborea.

Rimaniamo un attimo su questo argomento per una segnalazione che mi sembra doverosa: il nostro amico Michele Ruzzai ha recentemente costituito un nuovo gruppo facebook che promette di essere uno strumento di estremo interesse per affrontare queste tematiche: “MANvantara, Antropologia, Ethnos, Tradizione”.

Tra le prime cose che su questo gruppo il nostro valente amico ha riproposto, non si può fare a meno di menzionare un interessante articolo del linguista Mario Alinei, La teoria della continuità. Si tratta, ve lo dico subito, di un pezzo di lettura non facilissima in quanto piuttosto tecnico, ma dato l’interesse dell’argomento, ne vale senz’altro lo sforzo.

Come sappiamo, uno dei problemi nei quali ci imbattiamo cercando di capire la preistoria, è che per ricostruire le vicende dei nostri remoti antenati abbiamo a disposizione solo gli elementi di cultura materiale, e l’analisi di questi ultimi può essere fuorviante (applicando gli stessi criteri all’età moderna, si potrebbe pensare che alla transizione tra XX e XXI secolo “la cultura della celluloide e del vinile” è stata spazzata via dall’invasione del “popolo del CD laser). Un modo per uscire da questo cul de sac è il confronto fra i dati di cultura materiale e quello che ci può suggerire ciò che conosciamo della cultura immateriale in età storica e anche attuale, ad esempio confrontando i gruppi linguistici con la suddivisione in culture ottenuta basandosi sui dati archeologici.

Secondo la teoria della continuità, i confini anche attuali delle lingue e dialetti diffusi in Europa troverebbero una precisa corrispondenza nelle antiche culture materiali del nostro continente, e insieme le due cose costituirebbero una testimonianza dell’origine antichissima delle popolazioni europee, la cui fisionomia sarebbe stata ben poco alterata dalle invasioni successive.

Sembra che tra i collaboratori di “Ereticamente” ci sia una gran voglia di darsi da fare per allargare gli spazi di un discorso “nostro” approfittando delle possibilità concesse dal web. Fra questi, sarebbe impossibile non menzionare il nostro infaticabile Paolo Sizzi che ha recentemente creato un suo sito che si chiama “Il Sizzi” (ilsizzi.worldpress.com). In data 4 luglio, Paolo vi ha pubblicato un ampio articolo su La struttura genetica degli Italiani, rifacendosi agli studi di due genetisti: Fiorito, (2015) e  Di Gaetano (2012).

Di questa tematica mi ero occupato anch’io non molto tempo addietro, nella trentesima parte di questa serie di articoli, e avevamo visto che si tratta di una questione da prendere con le molle come non avverrebbe in nessun’altra parte del mondo. Avevo in quell’occasione ricordato un mio precedente articolo che, pubblicato anni prima su “Ereticamente”, era stato duramente contestato da alcuni lettori. Che persino in ambienti “nostri” vi siano persone che sgradiscano l’idea che gli Italiani esistano dal punto di vista genetico, è una stranezza che si spiega, da un lato con le suggestioni mondialiste che l’identità dell’Italia consisterebbe nel non avere un’identità dal punto di vista biologico-genetico (questa idea fasulla era ad esempio stata esposta nella trasmissione “Ulisse” su RAI 3 – il che è tutto dire – dal  lecchino del sistema, bugiardo di professione che risponde al nome di Alberto Angela), dall’altro con uno spirito identitario di bassa lega che si traduce in localismo, oltre alla nausea che ci hanno dato settant’anni di repubblica sedicente italiana democratica e antifascista.

Io vorrei aggiungere poi che una definizione della nazionalità basata sulla tradizione culturale, che secondo alcuni sarebbe l’idea “latina” contrapposta alla concezione del Sangue e del Suolo tipicamente germanica, Blut und Boden, è un’illusione particolarmente pericolosa. O la nazione esiste come COMUNITA’ DI SANGUE oppure non è nulla, non esiste.

Fa dunque piacere constatare che gli studi citati dall’amico Paolo Sizzi giungono indipendentemente da quelli citati da me alle stesse conclusioni, ossia al fatto che una certa differenza genetica che certamente esiste tra nord e sud della Penisola è stata artificiosamente dilatata per (bassi) motivi politici, e soprattutto non si riscontra quell’impronta mediorientale, da collegare agli antichi Cartaginesi o all’invasione araba della Sicilia che alcuni fantasticano e vorrebbero ingigantendo l’importanza di alcuni episodi storici marginali. E qui, come dimenticarlo, questo lavoro s’incontra con quello di un altro nostro amico, il grande Mamer e la sua campagna contro la leggenda interessata della Sicilia araba, fomentata da catto-sinistri e da chi specula e mangia sull’ “accoglienza ai migranti” e simili.

Ecco cosa ci racconta il nostro Paolo:

“Se ne sentono di ogni tipo sul nostro Mezzogiorno, a livello etnico, ma il fantomatico meticciamento con genti levantine e nordafricane non sussiste: la verità è che l’Italia tutta costituisce una realtà peculiare nel panorama europeo, tanto che appare smarcata parzialmente dal resto del Continente (…) Dico questo perché sulla Rete circolano diverse storielle, diffuse anche da sedicenti esperti di genetica (amatori, dilettanti o principianti, non scienziati si capisce), dove gli Italiani meridionali vengono dipinti come pesantemente arabizzati o berberizzati e con una forte mistura levantina recente dovuta anche agli Ebrei. Favole (…).   

D’altro canto anche il Nord e il Centro d’Italia non hanno subito germanizzazioni o slavizzazioni di un certo peso, tanto che gli idiomi sono romanzi e anche etnicamente popoli come Toscani e Lombardi conservano sostanzialmente l’aspetto formatosi in epoca preromana. In altre parole, non esiste alcun Mezzogiorno arabo-nordafricano-levantino così come non esiste un Centro-Nord celto-germanico-nordico: esistono ben note influenze che vanno però alquanto ridimensionate e che, spesso, sono più culturali che biologiche”.

Bene, la realtà delle cose è questa, e se proprio non vi comoda, mi dispiace per voi, ma dovrete farvene una ragione.

Arriviamo poi a una di quelle notizie che di primo acchito sembrano marginali, ma che se considerate nella giusta luce si dimostrano capaci di stravolgere concezioni consolidate e radicate. L’edizione on line del “Tempo” di Roma (iltempo.it) del 13 luglio dà notizia di alcuni scavi che sono stati compiuti nel Foro romano, e precisamente nell’area del Carcere Tulliano noto anche come Carcere di San Pietro. Sono stati ritrovati i resti di un’offerta votiva  di frutti contenente fra le altre cose un limone, che la datazione al radiocarbonio ha permesso di datare al 14 d. C.

Cosa c’è di straordinario in un simile ritrovamento? Presto detto: finora si era sempre pensato che gli agrumi, che sono di origine asiatica, fossero stati portati nel Mediterraneo dagli Arabi dopo la loro comparsa sulle coste da conquistatori nell’827, ma questo ritrovamento romano è di otto secoli più antico.

In altre parole, è un altro pezzo della concezione dell‘ex oriente lux, secondo la quale l’Europa dovrebbe all’oriente praticamente tutte le sue scoperte e invenzioni, che crolla sotto l’impatto dei fatti. In particolare, l’apporto che gli Arabi avrebbero dato alla nostra cultura è perlopiù enormemente sopravvalutato. Certo, è vero che gli Arabi abbiano fatto conoscere all’Europa il sistema numerico decimale, che però non inventarono loro ma ripresero dagli Indiani, o che nella Spagna medioevale islamizzata, dove però l’elemento arabo era decisamente minoritario, furono riscoperte le opere e la filosofia di Aristotele.

Coloro che si esaltano per le architetture di Granada o di Cordoba o per i mosaici dell’Alhambra, ignorano o fingono di ignorare che esse furono realizzate da maestranze locali dirette da un’élite visigota islamizzata e superficialmente arabizzata cui si era aggiunto qualche elemento persiano, e che lì di propriamente arabo in realtà non c’è nulla.

Sul reale apporto dato dagli Arabi alla nostra cultura, lascerei la parola a uno che se ne intende, il giornalista Maurizio Blondet:

“Verso il 650, gli Ommyadi si stabiliscono nei territori conquistati del Maghreb. Subito cominciano a distruggere le strade romane: i suoi lastricati non servono ai cammelli, anzi sono dannosi ai loro zoccoli molli, ma in compenso sono materiale di recupero già squadrato, prezioso per elevare moschee e fortezze. Secondo le loro usanze, i beduini tagliano gli alberi per i loro bisogni, senza il minimo scrupolo. I terreni scoperti si screpolano, le piogge dilavano l’humus, i campi coltivati, abbandonati dai contadini in fuga davanti ai predoni, diventano steppa e poi deserto. Ormai sulle alture non ci sono più i boschi, dunque nemmeno il legname per eventuali carriaggi. Le pianure non più verdeggianti, non possono più mantenere bovini. Il beduino ha creato attorno a sé il suo ambiente nativo, e ci resta felice”. (Maurizio Blondet: Le tecnologie intelligenti che ci fanno idioti, EffeDiEffe, 17 maggio 2014).

Un apporto, dunque, che possiamo paragonare a quello di uno sciame di cavallette. L’unica cosa che mi pare resti da aggiungere, è che non c’è nessun indizio che dai loro discendenti, “le risorse” che oggi una sinistra e una Chiesa che odiano profondamente il popolo italiano sono così ansiose di importare in quantità sempre più massicce, possiamo aspettarci alcunché di diverso. Questi invasori non faranno altro che distruggere tutto quello che i nostri padri e noi stesso abbiamo costruito.

  

4 Comments

  • Michele Ruzzai 20 Agosto 2016

    Ciao Fabio, ti ringrazio per la segnalazione del nostro gruppo facebook.
    Un caro saluto

  • Michele Ruzzai 20 Agosto 2016

    Ciao Fabio, ti ringrazio per la segnalazione del nostro gruppo facebook.
    Un caro saluto

  • Paolo Sizzi 28 Agosto 2016

    Ringrazio anche io il caro Fabio per avere citato me e il mio blog. Veramente onorato.

  • Paolo Sizzi 28 Agosto 2016

    Ringrazio anche io il caro Fabio per avere citato me e il mio blog. Veramente onorato.

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