11 Aprile 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, sessantanovesima parte – Fabio Calabrese

Il 2017, l’abbiamo visto, è stato un anno eccezionale per le ricerche sull’eredità del nostro più lontano passato: ricordiamo brevemente l’identificazione dei resti dell’ominide balcanico Graecopithecus Freibergi (confidenzialmente “El Greco”), il ritrovamento di fossili umani sorprendentemente moderni risalenti a 300.000 anni fa nella cava marocchina di Jebel Irhoud, quello di impronte umane (o ominidi) fossili risalenti a qualcosa come 5,7 milioni di anni fa nell’isola di Creta, l’individuazione da parte di due ricercatori dell’università di Buffalo di una proteina nella saliva, la MUC7, che è presente nei neri di origine subsahariana in una variante che non si trova in nessun altro gruppo umano, vivente o estinto, che li ha portati a concludere che essa sarebbe la traccia genetica di un ominide sconosciuto, una “specie fantasma” con cui gli homo sapiens provenienti dall’Eurasia si sarebbero incrociati, e infine le ricerche di un’archeologa italiana, Margherita Mussi, che ha individuato due industrie litiche acheuleane a cui corrispondono due distinte umanità in Africa e in Eurasia. Circa mezzo milione di anni fa mentre in Africa l’homo Erectus rimaneva immutato, in Eurasia si sarebbe evoluto nel più avanzato Heidelbergensis e poi in Sapiens. La “specie fantasma” identificata dai biologi di Buffalo non sarebbe dunque altro che il “vecchio” Erectus africano.
Cinque scoperte fondamentali avvenute in un arco di tempo davvero breve che ci impongono (o ci permettono) di rivedere le teorie sin qui diffuse sulle nostre origini. Dopo un periodo con un’intensità di questo genere, c’era da aspettarsi che non si potessero registrare in poco tempo importanti novità, invece sembra proprio che il 2018 abbia fatto una partenza col botto, per usare un’espressione popolare.
Tuttavia, prima di vedere le novità di questo inizio di 2017, sarà forse utile tornare ancora sul lavoro svolto dai gruppi facebook che, riguardo alla ricerca delle nostre origini, stanno facendo un lavoro davvero notevole, che è anche una testimonianza dell’importanza che ha per tutti noi la preservazione della nostra identità contro la minaccia del meticciato multietnico.
La scorsa volta mi sono soffermato soprattutto sul lavoro compiuto da MANvantara, che tuttavia non è assolutamente tutto, e infatti, scorrendo i “Frammenti di Atlantide-Iperborea” della fine del 2017, ne troviamo due che non sono riportati anche dal peraltro ottimo gruppo gestito da Michele Ruzzai.
Il 13 novembre il gruppo riporta vari documenti fra cui un articolo del “Gazzettino” del 2014 e uno da “Archeo Misteri Magazine” del 2005, che riguardano una questione molto intrigante. Mi erano già note da diverse fonti le pietre sudamericane di Ica. Queste pietre riportano delle incisioni raffiguranti dinosauri e altre creature preistoriche con cui si ritiene, gli uomini non possono aver convissuto. Se autentiche, potrebbero ribaltare completamente l’idea che abbiamo della storia naturale. Quel che sinceramente ignoravo, è che anche a Oderzo in Veneto sono state trovate tre formelle molto simili.
Il 28 dicembre, sul gruppo c’è un link con la presentazione delle Edizioni All’Insegna del Veltro, del libro di Arthur Branwen Ultima Thule, Julius Evola e Herman Wirth. E’ difficile non scorgere qui una sintonia con il lavoro che sta compiendo in questo stesso periodo Michele Ruzzai su MANvantara con il progetto di traduzione di Der Aufgang der Menscheit , la monumentale opera del Wirth mai tradotta integralmente in italiano, e in generale l’interesse che si sta riaccendendo attorno alla figura di questo studioso. Quanto meno, si può dire che dopo le recenti scoperte avvenute in campo paleoantropologico, l’idea di un’origine nordica-iperborea della specie umana appare più credibile di quella africana che costituisce ancora la “vulgata” ufficiale ortodossa.
La tematica delle origini, l’abbiamo visto più volte, non riguarda solo i più remoti primordi della nostra specie, ma scendendo a livelli temporalmente più vicini e in ambiti man mano più ristretti, l’origine dei popoli caucasici e indoeuropei, quella della civiltà europea e delle popolazioni italiche di cui siamo i diretti discendenti.
Proprio a inizio d’anno, fonti russe hanno riportato una notizia sorprendente (di cui la stampa “occidentale” – guarda caso – ha fatto pochissima menzione): un team di ricercatori tedeschi dell’Università di Tubinga ha riesaminato il DNA del faraone Tutankhamon giungendo alle stesse conclusioni della ricerca compiuta dalla società svizzera IGENEA nel 2016. Il DNA del faraone fanciullo è di tipo europeo: si segnala in particolare l’aplogruppo (variante del cromosoma Y) R1b, comune in Europa, ma che si ritrova in meno dell’1% degli egiziani odierni.
I ricercatori tedeschi hanno poi esteso la loro indagine ad altre tre mummie faraoniche ottenendo sostanzialmente gli stessi risultati.
A questo punto non possono sussistere dubbi: le élite della civiltà egizia erano di origine europea, e il progressivo illanguidirsi del sangue europeo dovuto alla mescolanza con i ceti popolari, è stato la causa della decadenza di quella civiltà.
Tempo fa, un nostro lettore, commentando un mio articolo precedente, ha esposto un’idea interessante: in età preistorica, popolazioni dell’Europa settentrionale e centrale si sarebbero riversate verso sud, invadendo l’Europa mediterranea e l’Africa del nord in conseguenza delle inondazioni provocate dalla fine dell’età glaciale. A sostegno di questa ipotesi, il nostro lettore citava le piramidi bosniache di Visoko, ma queste piramidi non sono le sole presenti in Europa: possiamo ricordare la piramide di Nizza, “stranamente” smantellata negli anni ’60 per fare posto a uno svincolo autostradale, e quella sarda, oggi molto rovinata, di Monte d’Accoddi.
Sembra proprio, è un discorso che abbiamo già fatto, che di tutte le testimonianze che ci sono pervenute dal lontano passato, “stranamente”, quelle più a rischio, sono proprio quelle che contraddicono l’interpretazione ufficiale e “ortodossa” delle nostre origini.
Ultimamente, ho avuto notizia dell’esistenza di un’altra piramide italiana: la piramide etrusca di Bomarzo (Orvieto) che si trova proprio a poca distanza dalla celebre Villa dei Mostri. In realtà non si tratta proprio di una piramide, piuttosto una specie di enorme altare, che però almeno dal lato frontale presenta delle suggestive somiglianze con la piramide a gradoni egizia di Saqqara.
Il 5 gennaio “National Geographic” nell’edizione in lingua inglese riporta una notizia di grande interesse: è stato sequenziato il DNA dei resti di una neonata di sei settimane risalenti a 11.500 anni fa rinvenuti in Alaska. Si tratta del DNA completo di un nativo americano più antico di cui finora si abbia conoscenza, e ciò che ha rivelato è molto significativo: a quanto pare, esso si colloca in una posizione intermedia fra quello delle popolazioni dell’Asia orientale e quello degli amerindi odierni.
Ciò ha spinto i ricercatori a ipotizzare che la bambina appartenesse appunto a una popolazione di transizione fra gli uni e gli altri, che doveva abitare l’area un tempo emersa di quello che è oggi lo stretto di Bering che separa l’Asia orientale dalla propaggine più occidentale dell’Alaska e del continente americano, e con ogni probabilità una vasta area adiacente, un tempo emersa, poiché nell’età glaciale il livello degli oceani doveva essere significativamente più basso di quello attuale. A questa terra è stato dato il nome di Beringia, e di Beringi a quello dei suoi abitanti, che sarebbero stati appunto una popolazione di transizione fra gli abitanti della Siberia orientale e gli Amerindi.
Mi piacerebbe potervi dire che sono il primo a darvi quest’informazione finora inedita, ma non è così, anche questa volta sono stato preceduto da MANvantara.
Il 6 gennaio L’Immagine Perduta, questo interessante gruppo FB amministrato da Giuseppe Di Re, ha pubblicato la prima parte, già molto vasta, di un saggio di Bruno D’Ausser Berrau: Ubinam gentem sumus? Un eden ed un popolo o più luoghi e più genti? Secondo questo autore, un attento esame delle fonti tradizionali porta a una visione plurima delle origini dell’umanità: quel poligenismo che la Chiesa cattolica e il cristianesimo in genere, attenendosi a un’interpretazione più o meno letterale del racconto della Genesi hanno sempre rifiutato e che per motivi diversi (ma fino a un certo punto diversi) è oggi del pari respinto dalla odierna concezione democratica che, davanti al riconoscimento di qualsiasi differenza (razziale o altro), agita in maniera davvero paranoica lo spettro della discriminazione o peggio.
Eppure, l’abbiamo visto con chiarezza, la ricerca scientifica considerata senza paraocchi (in particolare quelli davvero pesanti della favola dell’Out of Africa) concorda con la concezione tradizionale e ci rivela una pluralità di umanità: mentre in Africa si sarebbe attardato il primitivo Homo erectus, in Eurasia Heidelbergensis avrebbe dato luogo alla tripartizione Cro Magnon-Neanderthal-Denisova, e nel genoma dell’umanità attuale si può trovare la traccia di tutti questi antenati. E’ proprio la visione cristiana e democratica a essere messa nell’angolo da una considerazione obiettiva dei fatti e delle informazioni a nostra disposizione.
Scrive l’autore: “A questo punto sembra opportuno precisare come l’uso che in questo studio viene fatto del termine razza, sia motivato da fedeltà alle relative tradizioni, e pertanto in disaccordo con le attuali posizioni scientifiche e non. Queste ultime, per un atteggiamento di mera ideologia e per ipercorrettivismo politico, ne disconoscono l’attribuzione alla specie umana (…). Pertanto l’uso del termine non ha per noi un senso discriminatorio, e serve semplicemente a designare i vari tipi umani di base le cui indubitabili differenze formali e temperamentali, stante l’appartenenza alla comune umanità, non possono, in via di principio, giustificare alcuna inciviltà”.
In poche parole, un conto è accorgersi che l’umanità è suddivisa in razze con differenti caratteristiche fisiche e psicologiche, tutto un altro conto è, in base a ciò, prospettare discriminazioni e persecuzioni. Dovrebbe essere un concetto ovvio, ma oggi non è più così. L’abbiamo notato altre volte, la parola “razzismo” ha subito uno slittamento di significato che ne fa un esempio perfetto di neolingua orwelliana: oggi non indica più chi sostiene la superiorità di una razza sulle altre, ma chi semplicemente si accorge che le razze umane esistono. In pratica, se vedi, o se non fai finta di non vedere che gli immigrati hanno la pelle più scura della tua, sei complice dei campi di sterminio. Questo, oltre che mistificazione, è terrorismo psicologico. Il buon democratico non deve vedere né pensare, ma solo bere come una spugna le fesserie che gli vengono raccontate dai pulpiti e dai telegiornali.
A dispetto delle altisonanti e sempre più disapplicate dichiarazioni di libertà di opinione proclamate nelle costituzioni, la democrazia è oscurantismo, proibizione a pensare.
Ora si vede bene che non è possibile tracciare una distinzione netta fra il lavoro svolto dai gruppi FB “nostri” e le informazioni sull’eredità degli antenati che man mano ci arrivano dalle sedi scientifiche ufficiali, da pubblicazioni come “Le scienze” o “National Geographic”, per il semplice fatto che i gruppi FB “nostri”, generalmente, quando in queste sedi di “scienza ufficiale” compaiono notizie utili o interessanti dal nostro punto di vista, sono svelti a riportarle, con una rapidità che non è consentita dalla tempistica tecnica di “Ereticamente”. Ciò che rimane disponibile in questa sede, è piuttosto un lavoro di sintesi, di commento, di interpretazione, a parte ovviamente il fatto che la nostra pubblicazione può vantare di avere un pubblico superiore di uno o due ordini di grandezza rispetto a qualsiasi gruppo facebook.
Tuttavia, come vi ho detto, il lavoro svolto da queste persone non va assolutamente trascurato, in primo luogo come testimonianza forte del concetto che il radicamento in un’identità storica, etnica, antropologica, è qualcosa di molto sentito nei nostri ambienti, in contrapposizione a una “cultura” mondialista che ci vorrebbe tutti degli sradicati senza identità.
Ovviamente, è impossibile sapere cosa ci riserverà il futuro, e se i ritmi di questa “partenza col botto” che ha caratterizzato l’inizio del 2018 dopo un periodo foriero di novità come lo è stato l’anno trascorso, saranno mantenuti. A ogni modo, nell’attesa, ci sono due questioni sulle quali mi riprometto di tornare prossimamente con un approfondimento.
La prima: come abbiamo più volte visto, la questione delle origini si può suddividere in vari livelli, tanto più ampi quanto più si retrocede indietro nel tempo, un po’ come i cerchi che si allargano sul pelo dell’acqua di un sasso gettato in uno stagno. Io di livelli ne ho individuati quattro: le origini delle popolazioni italiche, della civiltà europea, dei popoli indoeuropei, e infine (o temporalmente per primo) della specie umana. Ora, tra il penultimo e l’ultimo di questi livelli ne andrebbe probabilmente inserito un altro: quello delle origini delle popolazioni di ceppo caucasico, “bianco”, di cui gli Indoeuropei sono solo una frazione.
Al riguardo c’è una storia importante e perlopiù ignorata, quello della ramificazione orientale delle popolazioni caucasiche, un tempo diffuse in Asia e poi sommerse dall’espansione delle genti mongoliche, di cui rimangono come isole superstiti di Daiaki del Borneo, gli Ainu del Giappone e i Polinesiani. Questi ultimi, i “vichinghi del Pacifico”, protagonisti di una grande epopea marittima, cosa spesso non detta o negata, rientrano anch’essi nel tipo caucasico.
La seconda: sempre riguardo ai nostri antenati indoeuropei, noi sappiamo che un certo filone di pensiero tradizionalista ha sottolineato soprattutto nella psicologia dell’uomo indoeuropeo la stabilità, il radicamento, l’attaccamento alla terra natale, la fedeltà agli antenati. Tutti concetti giustissimi, intendiamoci, ma che probabilmente rappresentano solo un aspetto dell’essere indoeuropei ed europei, mentre l’altra faccia è rappresentata dalla curiosità, dal desiderio di conoscere, dall’impulso all’esplorazione, dall’amore e dall’attrattiva per i grandi spazi.
Prossimamente ci concentreremo appunto su queste tematiche.

NOTA: Nell’illustrazione: A sinistra la maschera funeraria d’oro del faraone Tutankhamon. Oggi sappiamo che il suo DNA è tipicamente europeo. Al centro, uno scorcio della piramide etrusca di Bomarzo. A destra, una raffigurazione pittorica dell’Eden; l’Eden è al centro dell’articolo di Bruno D’Ausser Berrau pubblicato in “L’immagine perduta”.

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