14 Aprile 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, quarta parte

Di Fabio Calabrese
Forse il momento di rimettere al lavoro la nostra piccola Ahnenerbe casalinga è venuto prima di quanto mi aspettassi. Io non posso – naturalmente – fare alcun paragone fra la Ahnenerbe del Terzo Reich e i miei modestissimi mezzi, ma la propaganda e la censura democratiche intese a darci un’immagine falsata del nostro passato, funzionano in una maniera strana: non esiste un’esplicita proibizione di verità vietate, ma le poche cose davvero significative sono sommerse da un diluvio di “informazione” falsa o irrilevante che circola in quantità enorme grazie ai media e alla rete. E’ possibile allora, con pazienza, mettersi alla ricerca delle pagliuzze d’oro nel fango e alla fine, se avremo fatto bene il nostro lavoro, mettere insieme un dossier di elementi sufficienti a contestare “le verità” della cultura ufficiale.
Una cosa che non poteva non destare l’interesse di chi è impegnato in questo genere di ricerca, è la storia dell’ipogeo di Glozel. Un amico mi ha segnalato un post relativo a questa scoperta di cui, per essere sinceri, non ero minimamente informato, comparso recentemente sul sito del centrointernazionale diricercastorica (scritto così senza gli spazi fra le parole, se volete andare a controllare, probabilmente per distinguerlo da altri siti con denominazioni analoghe), ma quella avvenuta in questa località del centro della Francia, è una scoperta che risale al 1924, novant’anni fa.
A questo punto, ho fatto la cosa più ovvia, sono andato a controllare su Wikipedia.
Secondo quanto riferisce l’enciclopedia on line, la scoperta fu fatta nel 1924 da un giovane agricoltore, Emile Fradin, che stava arando il campo assieme al nonno, quando il piede della mucca che trascinava l’aratro si impigliò in una cavità. Liberando la zampa dell’animale, Emile scoprì l’accesso a una cavità sotterranea. Era l’inizio di una scoperta sconcertante, perché dall’ipogeo di Glozel uscirono all’incirca tremila reperti fra ossa, manufatti di ceramica e pietre incise, molte delle quali lastre che riportano una sorta di scrittura che nessuno è riuscito a decifrare. La cosa straordinaria è che questi reperti sembrerebbero risalire a qualcosa come 8-10.000 anni fa e, se la loro autenticità fosse confermata, imporrebbero di retrodatare e riscrivere completamente la storia dell’Europa. Non è spiegabile il disinteresse dell’archeologia ufficiale per una scoperta come questa, se non con l’esigenza di difendere da nuove scoperte antichi e radicati pregiudizi. Provate solo a immaginare che marea di pubblicazioni, interventi mediatici e discussioni, se una simile scoperta fosse avvenuta in Egitto o in Mesopotamia!
I pochi pronunciamenti dei ricercatori ufficiali sono stati perlopiù indirizzati a bollare la scoperta come un falso, una bufala. Immaginiamo se un giovane campagnolo diciassettenne come era allora Emile Fradin disponeva delle conoscenze e dei mezzi per mettere in atto una truffa così complessa! E’ interessante il giudizio di René Dussaud curatore del museo del Louvre, che concluse senza essersi degnato di esaminarli, che i reperti di Glozel dovevano essere per forza falsi perché 8-10.000 anni fa non poteva essere esistita una civiltà, dandoci davvero l’impressione di vedere uno dei pedanti che bollarono le scoperte di Galileo, uscire dalla tomba.
Un discorso analogo vale per le piramidi bosniache di Visoko che sarebbero state individuate dal ricercatore e studioso dei materiali Semir Osmanagic. E’ proprio l’evidente e preconcetto scetticismo dell’archeologia ufficiale che fa nutrire dubbi sul fatto che non si tratti di bufale, ma di scoperte genuine.
Riguardo a cose tuttora misteriose, dove si è ben lontani dal poter dare delle risposte definitive, come l’ipogeo di Glozel e le piramidi di Visoko, non disponiamo di risposte definitive, ma c’è una questione che possiamo comunque porre: la nostra specie, homo sapiens esiste da qualcosa come centomila anni, non stiamo parlando di bruti scimmieschi, ma di esseri umani come noi. La storia documentata copre gli ultimi cinquemila. Per quale motivo escludere dogmaticamente che non possa essere esistita alcuna civiltà preistorica, in quel 95% della nostra storia che ancora non conosciamo? Abbiamo visto che molto spesso gli archeologi “ufficiali” respingono a priori l’autenticità dei reperti di Glozel o la natura di manufatti delle piramidi di Visoko perché la civiltà umana “non può essere” così antica come questi reperti suggerirebbero. E’ un atteggiamento che ricorda molto quello dei pedanti seicenteschi che rifiutarono la scoperta di Galileo dei “pianeti medicei”, dei satelliti di Giove, perché sette erano le note musicali, sette i giorni della settimana, sette le aperture del corpo umano (bocca, narici, orecchie, ano e genitali), e non più di sette dovevano perciò essere anche i corpi del sistema solare. Io vi ho raccontato di aver avuto in passato un’esperienza di contatti con il CICAP. Se non altro, posso dire che è un’esperienza che mi ha permesso di capire parecchie cose. Sulle civiltà misteriose, l’atteggiamento è quello del rifiuto a priori esattamente come nei confronti del paranormale e dell’ufologia (e del resto del cosiddetto complottismo).
La credenza e la presunta casistica del paranormale contrastano con la concezione della realtà naturale fondata su quattro secoli di ricerche scientifiche da Galileo in qua, l’ufologia non tiene conto dell’immensità del Cosmo e delle distanze interstellari, ma le civiltà misteriose? Cosa giustifica una posizione di rifiuto a priori? Pensiamo davvero di poter dire che conosciamo tutto del nostro remoto passato? La fobia del presunto complottismo fa il paio. Chi vede congiure dappertutto potrà anche essere paranoico, ma chi pensa che la politica agisca sempre in base alle intenzioni dichiarate da quelle persone di specchiatissima onestà che sono i politici, merita il nobel dei cretini.

In campo politico nel senso più stretto del termine, gli esponenti di questo laicismo da quattro soldi si contano invariabilmente fra gli atlantisti e i filo-sionisti. Spirito critico? “Ma mi faccia il piacere!” (detto con le inflessioni e il gesto del grande Totò). Costoro la pensano esattamente come  l’establishment politico-culturale vorrebbe che tutti la pensassimo, intellettualmente proni come più non si potrebbe essere, come se il potere non manipolasse anche la scienza.
Noi però dobbiamo fare i conti con un pregiudizio di altro tipo rispetto allo strabismo mediorientale, alla fissazione della presunta “luce da oriente”. Per quale motivo si vuole negare a tutti i costi che in quell’enorme spazio di tempo che costituisce i nove decimi e mezzo della nostra storia su questo pianeta non possano essere sorte e poi sprofondate nell’oblio intere civiltà? In fin dei conti, cosa esisterà ancora di tutto quello che ci vediamo intorno, diciamo fra diecimila anni? Nulla, se non delle tracce labilissime.
Bene, qui è visibile che ci confrontiamo con UN DOGMA della mentalità contemporanea che ha assunto dimensioni e valenze tali da poter essere paragonato a un dogma religioso, tanto più forte quanto più in contrasto con la realtà, il dogma del progresso. Dicendo che il dogma progressista è una sfacciata falsità, in realtà non si dice nulla di nuovo, l’aveva già evidenziato (lasciando perdere il lavoro compiuto fra le due guerre mondiali da pensatori come Julius Evola e René Guenon) un gruppo di scienziati riuniti nel Club di Roma nel 1970 con il celebre rapporto “I limiti dello sviluppo”, dove si enuncia un concetto fondamentale che però in definitiva è un’ovvietà: in un sistema limitato con risorse limitate quale è il nostro pianeta, uno sviluppo illimitato è impossibile. Nonostante si tratti di un’ovvietà, “I limiti dello sviluppo” provocò la canea progressista che riuscì a dare un’eccellente dimostrazione del fatto che l’insulto e il ludibrio sono in grado di sopperire in maniera eccellente alla mancanza di argomenti.
Ora provate a pensarci un attimo: se accettiamo l’idea che in quel 95% della storia della nostra specie che ci è sconosciuto possano essere sorti e scomparsi nel nulla interi cicli di civiltà, questo cosa implica per noi? Implica la consapevolezza che nulla esclude che la civiltà moderna della quale siamo tanto orgogliosi possa andare incontro allo stesso destino.
Per evitare, per esorcizzare questa idea “deprimente”, si preferisce mutilare la storia della nostra specie, pretendendo che prima dell’Egitto dei faraoni non possa essere esistito alcunché se non bruti dalla faccia scimmiesca che andavano in giro trascinando clave, pur di salvaguardare il pregiudizio che una volta avviata la civiltà, essa sarebbe spinta a uno sviluppo ascendente, al raggiungimento di traguardi sempre più elevati da una sorta di provvidenza immanente che s’incarna in questo ridicolo idolo moderno che chiamiamo “progresso”.
La civiltà umana è forse molto più antica di quanto ci hanno raccontato, di quanto se ne vuole negare anche soltanto la possibilità in nome del dogma progressista, ma anche riguardo all’altro settore che ha interessato le nostre ricerche, quello più remoto nel tempo dell’origine della nostra specie, ci sono delle novità interessanti, ma per prima cosa è giusto che vi segnali una circostanza curiosa. Mi è stato segnalato un articolo non recentissimo, risalente al 4 novembre 2011 apparso su “National Geographic” che fa il punto sulle ultime scoperte paleontologiche, e la gentile signora che me l’ha segnalato, altri non è che la moglie dell’amico che mi ha segnalato il pezzo sull’ipogeo di Glozel. Due cari amici, una bella coppia dove la consonanza ideologica è una delle cose che cementano il sentimento reciproco, una fortuna che – devo confessare – io non ho.
Ma vediamo il contenuto di questo articolo. Uno studio condotto da un team guidato da Stefano Benazzi dell’Università di Vienna ha accertato che alcuni frammenti dentari fossili rinvenuti negli anni ’60 nella Grotta del Cavallo nella baia di Uluzzo in Puglia e risalenti a 45.000 anni fa, non appartengono come si era finora creduto, a dei neanderthaliani, ma all’homo sapiens anatomicamente moderno. I reperti litici rinvenuti nella baia di Uluzzo sono serviti per classificare una cultura, la cultura uluzziana che si riteneva fosse l’ultima cultura neanderthaliana europea, invece adesso scopriamo che si trattava di sapiens.
Ma non ci fermiamo qui, perché l’articolo menziona un’altra ricerca condotta da un team guidato da Thomas Higham dell’Università di Oxford che ha esaminato un frammento di mascella risalente a 44.000 anni fa e rinvenuto in una caverna inglese, la Kents Cavern. Anche quest’ultimo è risultato non essere neanderthaliano ma sapiens.
Capite quello che significa? Se 50.000 anni fa l’eruzione del Toba fu davvero la catastrofe planetaria immaginata da qualcuno e i nostri antenati erano ridotti a un pugno di superstiti sperduti in qualche angolo dell’Africa, come hanno fatto nel giro di pochi millenni a popolare tutto il Vecchio Mondo, ad arrivare in Italia e anche in Inghilterra?
L’ipotesi dell’origine africana scricchiola sempre di più. Un ulteriore scrollone è poi venuto dallo studio di un altro uomo fossile pugliese come quelli di Uluzzo ma parecchio più antico, l’uomo di Altamura, i cui resti, dopo essere caduto in un inghiottitoio carsico della regione, sono stati inglobati nella matrice calcarea. Ebbene, quest’uomo risalente a 100.000 anni fa, classificato come pre-neanderthaliano, presenta delle caratteristiche che preludono al sapiens moderno, si trova con ogni probabilità assai vicino alla biforcazione fra le due sottospecie umane. Considerato che la Puglia non è Africa (non ancora, ma lo diventerà assieme a tutto il resto dell’Italia se continuiamo a essere sommersi dall’ondata dell’immigrazione), l’ipotesi dell’origine africana diventa sempre meno verosimile.
Mi è capitato di ritrovarmelo giorni fa in una di quelle discussioni a volte foriere di spunti interessanti, a volte demenziali che si trovano su Facebook, l’argomento che è un classico della retorica democratica su questo tema: “non esistono razze pure”. L’impl
icazione è quella che dovremmo essere indifferenti al fatto di essere soppiantati e che il nostro retaggio sia soppiantato da quello dei CUCULI che l’immigrazione ci porta in casa.
Non esistono razze ASSOLUTAMENTE pure, ma è una questione di proporzioni. Un certo scambio genetico fra le popolazioni umane è sempre esistito, come dimostra il fatto che sono tutte mutuamente interfeconde, ma scambiare questo sottile rivolo di geni che passava in altri tempi fra le genti del pianeta con la situazione attuale, è come confondere un bicchiere di vino a pasto con un’assunzione da coma etilico.
Vogliamo fare un altro paragone tratto dalla biologia? I parameci sono protozoi, minuscole creature unicellulari che hanno una caratteristica: sono attratti da un ambiente acido, perché è soprattutto nell’acido acetico che trovano i lieviti e gli altri microorganismi di cui si nutrono. Solo che si precipitano con uguale “entusiasmo” verso una goccia di acido solforico che invece li uccide. Questo meccanismo comportamentale si è certamente evoluto perché in natura la probabilità che hanno di incontrare acido solforico è enormemente più bassa che quella di imbattersi nell’acido acetico. Quello che alle basse concentrazioni è benefico, a quelle alte può essere mortale.
Il paramecio è una creatura microscopica, non ha un cervello, ma noi si. Vogliamo che i paraocchi della retorica democratica rendano il nostro comportamento non più intelligente del suo?
In queste cose non è il caso di (s)ragionare in termini di tutto o niente: poiché L’ASSOLUTA purezza è irraggiungibile, allora accettare l’universale meticciato nel quale la nostra gente è destinata a scomparire.
Pensiamo ai nostri figli: a ciascuno di loro trasmettiamo soltanto metà del nostro patrimonio genetico, mentre l’altra metà deriva dall’altro genitore. Questo significa forse che, non essendo la nostra fotocopia, non dovremmo interessarci di loro più di quanto non facciamo con perfetti estranei?
I popoli europei si stanno avviando a una lotta mortale che deciderà della loro sopravvivenza o della loro estinzione. Non è questo il momento di farci confondere dalle bugie democratiche.
  

4 Comments

  • Anonymous 7 Aprile 2014

    Davvero un eccellente articolo, come peraltro tutti quelli di Fabio Calabrese. Con una coincidenza davvero sbalorditiva (giuro: non ci siamo messi d’accordo per passarci gli “assist” a vicenda !), Fabio menziona gli importanti ritrovamenti “Sapiens” di Uluzzo e di Kent Cavern ai quali ho fatto cenno anch’io nel pezzo che dovrebbe essere pubblicato nei prossimi giorni, e nel quale tocco anche l’argomento della “Catastrofe di Toba”. Su questo evento mi permetto solo di avere un’opinione un po’ diversa, nel senso che, a mio modesto avviso, l’eruzione può realmente essere avvenuta (più verso 60-70.000 anni fa) ed avere “marcato” nettamente il confine tra questo ciclo umano (in termini tradizionali “Manvantara”) e quello precedente. Tale dato andrebbe anche nella stessa direzione, opportunamente evidenziata da Calabrese, di una storia umana per nulla lineare e “progressiva”, ma segnata da arresti, cadute e “cesure epocali” di vario tipo. Poi, il rapido popolamento umano del mondo trova senz’altro una migliore spiegazione se questo è partito da una zona più “centrale” rispetto a tutti gli altri continenti – quale, guardando un atlante, è effettivamente l’Artide – rispetto ad uno sperduto angolo subsahariano, come giustamente rileva Fabio, secondo quella che è la teoria “Out of Africa” e sulla quale in un prossimo futuro cercherò anch’io di proporre qualche riflessione più specifica.
    Ancora complimenti.
    Michele Ruzzai

  • Anonymous 7 Aprile 2014

    Davvero un eccellente articolo, come peraltro tutti quelli di Fabio Calabrese. Con una coincidenza davvero sbalorditiva (giuro: non ci siamo messi d’accordo per passarci gli “assist” a vicenda !), Fabio menziona gli importanti ritrovamenti “Sapiens” di Uluzzo e di Kent Cavern ai quali ho fatto cenno anch’io nel pezzo che dovrebbe essere pubblicato nei prossimi giorni, e nel quale tocco anche l’argomento della “Catastrofe di Toba”. Su questo evento mi permetto solo di avere un’opinione un po’ diversa, nel senso che, a mio modesto avviso, l’eruzione può realmente essere avvenuta (più verso 60-70.000 anni fa) ed avere “marcato” nettamente il confine tra questo ciclo umano (in termini tradizionali “Manvantara”) e quello precedente. Tale dato andrebbe anche nella stessa direzione, opportunamente evidenziata da Calabrese, di una storia umana per nulla lineare e “progressiva”, ma segnata da arresti, cadute e “cesure epocali” di vario tipo. Poi, il rapido popolamento umano del mondo trova senz’altro una migliore spiegazione se questo è partito da una zona più “centrale” rispetto a tutti gli altri continenti – quale, guardando un atlante, è effettivamente l’Artide – rispetto ad uno sperduto angolo subsahariano, come giustamente rileva Fabio, secondo quella che è la teoria “Out of Africa” e sulla quale in un prossimo futuro cercherò anch’io di proporre qualche riflessione più specifica.
    Ancora complimenti.
    Michele Ruzzai

  • Anonymous 8 Aprile 2014

    Un solo appunto, una precisazione: io non dico affatto che l’eruzione del vulcano Toba 70-50.000 anni fa non debba essere avvenuta o non essere stata un’eruzione di grandi proporzioni. Io mi limito a dire che è inverosimile che si sia trattato di una catastrofe planetaria con conseguenze analoghe a quelle di un inverno nucleare, che avrebbe spazzato via tutta l’umanità allora esistente tranne un pugno di africani, da cui ci vogliono dare a intendere che tutti noi discenderemmo.
    Fabio Calabrese

  • Anonymous 8 Aprile 2014

    Un solo appunto, una precisazione: io non dico affatto che l’eruzione del vulcano Toba 70-50.000 anni fa non debba essere avvenuta o non essere stata un’eruzione di grandi proporzioni. Io mi limito a dire che è inverosimile che si sia trattato di una catastrofe planetaria con conseguenze analoghe a quelle di un inverno nucleare, che avrebbe spazzato via tutta l’umanità allora esistente tranne un pugno di africani, da cui ci vogliono dare a intendere che tutti noi discenderemmo.
    Fabio Calabrese

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