11 Aprile 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, novantunesima parte – Fabio Calabrese

Come avete potuto vedere, con l’articolo immediatamente precedente a questo, Una Ahnenerbe casalinga ha raggiunto la quota novanta. Non è impossibile che entro il 2019 o l’anno successivo si debba (o si possa) accedere a una numerazione a tre cifre. A ogni modo, questa è sicuramente la serie di articoli più ampia e longeva che ho finora pubblicato su “Ereticamente”, e quindi penso che nessuno di voi si stupirà né avrà motivo di risentirsi se la considero un po’ una vera e propria rubrica, e quindi anche la mia “finestra di dialogo” con voi lettori, e adesso è forse il caso di dirvi qualcosa dei retroscena del mio lavoro (quello che oggi si tende a chiamare il backstage, ma io penso che sia meglio evitare gli anglicismi).

Il problema di questa serie di articoli o rubrica, è sempre stato quello di riuscire a “stare sul pezzo”, non dico in tempo reale, ma a una distanza di tempo non irragionevole dalle scoperte e dalle notizie. Diciamo che ogni volta occorre prima scrivere un articolo, poi “Ereticamente” lo deve pubblicare, e occorre tenere presente che sulle nostre pagine elettroniche non pubblico solo Una Ahnenerbe casalinga, ma materiale di diverso altro genere. Linkare un articolo su di un gruppo facebook è certamente molto più facile, basta un clic.

Così, mi è capitato sempre più spesso di “rincorrere” le notizie di archeologia e paleoantropologia riportate da questi gruppi. E fin qui non c’è nulla di male, ma il rischio è di prendere per oro colato commenti di illustri sconosciuti che non si degnano di riportare nemmeno le fonti come se avessero chissà che autorevolezza.

La cosa peggiore è poi il fatto che questi gruppi che non hanno un “bacino di utenza” di più di qualche centinaio di persone, non hanno perlopiù mostrato alcuna gratitudine per la “cassa di risonanza” loro offerta.

Io credo di essermi lasciato prendere la mano a questo proposito, e probabilmente la qualità del mio lavoro ne ha risentito. La redazione di “Ereticamente” me lo ha fatto notare e, una volta resomi conto che avevano ragione, ho preso una decisione forse drastica ma necessaria: non fare più nessuna pubblicità gratuita e immeritata a nessun gruppo facebook, cosa che ho fatto, come avrete notato, a partire dall’ottantaseiesima parte.

Tuttavia, a onor del vero, qualche distinguo ritengo sia necessario farlo. “MANvantara” ad esempio, che proprio nel periodo natalizio del 2018 ha superato i 1600 membri non è forse una realtà poi così trascurabile, e il suo amministratore, Michele Ruzzai, è anche un collaboratore di “Ereticamente” (certo, non così assiduo come il sottoscritto, ma questo penso si possa dire di pochi), e per nulla dire della co-amministratrice, i cui post mi hanno sempre colpito per l’intelligenza e la competenza che dimostrano.

E probabilmente non sarebbe giusto nemmeno non accennare al monumentale lavoro che recentemente Michele Ruzzai ha portato a termine con la traduzione, mai finora disponibile in italiano in versione integrale del monumentale Der Aufgang der Menscheit (L’aurora dell’umanità) di Herman Wirth, per la pubblicazione del quale è ora in trattative con un editore. Quest’opera, lo ricordiamo, è forse l’esposizione più imponente e particolareggiata della teoria delle origini artiche-iperboree dell’umanità, in contrasto con le teorie “africane” che oggi costituiscono a tale riguardo la dottrina ufficiale, la vulgata che per un ricercatore è pericoloso mettere in discussione, sebbene, come abbiamo visto, elementi che la contraddicono, non manchino davvero e si tratti in altre parole di una ortodossia imposta.

Naturalmente vi terrò informati degli ulteriori sviluppi di quest’iniziativa, che certo è ben altra cosa e ben più importante che linkare articoli su FB.

In ogni caso, non c’è da temere, perché informazioni sulle origini e sulla storia remota dell’umanità sembrano avere la cattiva abitudine di saltare fuori quando e dove meno ce lo aspetteremmo. Che informazioni in contrasto con la versione ufficiale della nostra storia remota possano venire dalla televisione pubblica, dalla RAI, o da quella televisione semi-pubblica che è Mediaset, è probabilmente l’ultima cosa che ci si potrebbe attendere, eppure succede.

Certamente noi sappiamo che Mediaset, pur essendo un’azienda privata, in primo luogo per le sue dimensioni, e poi anche per il continuo scambio di personale fra le due entità, è di fatto poco distinguibile dalla RAI, può dunque sorprendere che a volte mandi in onda delle cose piuttosto eterodosse, non meno di quando ciò avviene nell’ambito del servizio pubblico. Di Roberto Giacobbo e delle trasmissioni che conduce, credo di avervi già espresso la mia opinione altre volte: si tratta di programmi che perlopiù indulgono a un certo sensazionalismo, e dunque devono essere presi con le dovute cautele, ma che ciò nonostante presentano a volte spunti interessanti su cui è utile riflettere.

Recentemente, come immagino saprete, Giacobbo ha traslocato dalla RAI a Mediaset dove su Rete 4 attualmente conduce un programma, “Freedom” che è un po’ una trasmissione-fotocopia di “Voyager” da lui precedentemente condotto in RAI (Vediamo sempre la pessima abitudine da colonizzati culturali, di ritenere l’inglese più espressivo della lingua italiana, ma prescindiamo).

Giovedì 10 gennaio, appunto nella nuova “Freedom”, Giacobbo ha presentato un servizio su di un monumento megalitico molto interessante e poco noto che rientra nel complesso della cultura nuragica sarda, il tempio ipogeo di Mongiorgi, costruito, o se si preferisce, scavato, su tre livelli sotterranei.

Quella della cultura nuragica sarda, è una delle grandi realtà ignorate della preistoria e della protostoria europee, beninteso, sostanzialmente ignorate anche da noi Italiani che ce l’abbiamo in casa. Sempre riguardo alla Sardegna e alla davvero fin troppo trascurata e sottovalutata cultura nuragica possiamo ricordare la trascurata e oggi molto malridotta piramide di Monte D’Accoddi (da cui si è addirittura arrivati ad asportare materiali in tempi recenti) e il grande complesso statuario noto come “i giganti” (composto da statue di dimensioni variabili fra i 2 e i 2,50 metri, raffiguranti lottatori, arcieri, spadaccini) proveniente dalla necropoli ancora in gran parte non scavata di Mont’e Prama, e sui quali pare essersi steso un silenzio mediatico, un “muro di gomma” che è qualcosa di impressionante.

Non c’è soltanto il fatto che in Italia c’è un atteggiamento di totale incuria nei confronti del nostro patrimonio storico, artistico, archeologico nonostante questo sia di fatto il più notevole del mondo (secondo fonti dell’UNESCO, la metà di tutte le opere d’arte di questo pianeta si trova in Italia), e che ciò costituisca un pessimo presagio per il nostro avvenire, perché chi dimentica il proprio passato è destinato a non avere un futuro, ma c’è anche dell’altro.

Il fatto è che questi antichi reperti europei, coevi o più antichi delle piramidi egizie e delle ziggurat mesopotamiche danno fastidio all’archeologia ufficiale, mettono in crisi la vulgata, l’ortodossia ufficiale secondo la quale la civiltà umana sarebbe nata nella Mezzaluna Fertile mediorientale, e gli elementi che contraddicono quest’ultima sono davvero tanti. Per quanto riguarda l’Italia, non meno importante di quella nuragica sarda, come non menzionare quanto meno la civiltà etrusca?

Ma se spostiamo la nostra attenzione fuori dai nostri confini, cosa dire della cultura megalitica delle Isole Britanniche e delle coste atlantiche del nostro continente? I grandi allineamenti di Carnac, Stonehenge, quell’autentico gioiello preistorico che è la tomba megalitica di Newgrange di quasi un millennio più antica delle piramidi di Giza? Nell’Europa continentale, poi non si possono passare sotto silenzio né l’antichissimo cerchio megalitico di Gosek in Germania, che precede di millenni le piramidi, né la splendida Età del Bronzo nordica.

Io ritengo che tutto ciò non sia per nulla casuale: la tesi dell’ex Oriente lux assolve le stesse funzioni dell’Out of Africa su di un altro piano: il movente non è scientifico ma politico, si tratta di sminuire sistematicamente tutto quanto è europeo per evitare che gli Europei ritrovino l’orgoglio delle proprie origini, di creare e mantenere le condizioni psicologiche perché oppongano la minor resistenza possibile alla sostituzione etnica in atto.

Tuttavia, tornando alle trasmissioni televisive, la vera sorpresa è stata pochi giorni prima, lunedì 7 gennaio, quando RAI scuola ha trasmesso un programma sulla Serra Da Capivara. Si tratta di un vasto parco nazionale del Brasile situato nel nordest della grande nazione sudamericana nello stato di Piauì, che è stato riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio mondiale dell’umanità, soprattutto perché è una delle aree che ospitano la maggiore biodiversità al mondo, ma contiene anche un vastissimo patrimonio archeologico con quasi mille siti di cui oltre 650 presentano pitture o incisioni rupestri riferite alle fasi più antiche della colonizzazione umana del continente americano.

Un’archeologa facente parte di un team che ha studiato queste pitture e incisioni, ha raccontato nell’intervista televisiva qualcosa di molto interessante. Poiché alla base della caverna contenente uno di questi siti sono state trovate tracce di pittura miste a carbone vegetale, è stata possibile una datazione al radiocarbonio, che ha fornito un’età risalente al 18.000 avanti Cristo, cioè 20.000 anni or sono.

I campioni erano stati inviati a un laboratorio francese specializzato in questo tipo di analisi, e la donna ha raccontato di essere rimasta sbalordita quando le hanno comunicato i risultati, perché secondo la vulgata corrente le Americhe sarebbero state colonizzate da popolazioni provenienti dall’Asia attraverso il ponte di terra della Beringia non prima di 12.000 anni fa.

“E’ impossibile”, ha risposto, “Qui non abbiamo nulla di così vecchio”.

“Beh”, le è stato replicato, “Adesso ce lo avete”.

Questo tuttavia è soltanto l’antipasto, la vera sorpresa è arrivata più tardi, quando l’analisi al radiocarbonio di ulteriori campioni ha rivelato un’età di ben 50.000 anni. Chiaramente, noi abbiamo qui a che fare con una pagina molto antica e finora del tutto sconosciuta della storia delle Americhe.

Vi cito una curiosità: naturalmente sono andato a fare un controllo su Wikipedia, dove si parla delle scoperte archeologiche avvenute nella Serra Da Capivara, e si fa l’osservazione assolutamente giusta, che esse invalidano o almeno mettono in crisi l’ipotesi del popolamento delle Americhe a partire dalla Beringia 12.000 anni fa, ma quest’ultima è indicata dall’estensore della voce vikipediana come “ipotesi Clovis”. Semmai, questo termine che fa riferimento alla cultura Clovis così denominata dall’omonimo sito nel Nuovo Messico, andrebbe riferito all’ipotesi di Stanford e Bradley che sulla base delle somiglianze fra quest’ultima e una cultura litica europea, quella solutreana, hanno ipotizzato che la prima colonizzazione delle Americhe sarebbe stata opera di cacciatori europei che avrebbero raggiunto le Americhe costeggiando la banchisa artica esistente tra i due continenti nell’età glaciale.

Beccare in fallo Wikipedia, il grande oracolo dei nostri tempi, è sempre una discreta soddisfazione, ma la vera importanza di questa scoperta è probabilmente il fatto che essa, sebbene non costituisca propriamente una smentita, viene a indebolire ulteriormente le già traballanti posizioni della “teoria” out-of-africana.

Provate a pensarci un momento: l’Out of Africa presuppone un’origine recente della nostra specie, una filogenesi corta, non solo per non darle il tempo di differenziarsi in razze (si tratta infatti di un costrutto ideologico), ma anche perché c’è il fastidioso problema delle numerose popolazioni cosiddette pre-sapiens o sapiens arcaiche esistenti fuori dall’Africa attorno ai centomila anni fa. Si è allora formulata l’ipotesi che l’eruzione del vulcano Toba in Indonesia avvenuta attorno a 50-70.000 anni fa, sarebbe stata di un’ampiezza tale, avrebbe liberato nell’atmosfera una tale quantità di polveri da provocare qualcosa di simile a un inverno nucleare che avrebbe portato all’estinzione tutti i gruppi umani esistenti tranne un pugno di superstiti africani da cui si suppone tutti noi discenderemmo (si tratta per la verità di un’ipotesi stranissima: è possibile che una catastrofe di questo tipo porti una specie, la nostra, sull’orlo dell’estinzione e non lasci alcun segno visibile sulle altre?).

Bene, adesso immaginatevi: gli esseri umani ridotti quasi a nulla (e tenete presente che stiamo parlando della preistoria) e subito dopo, che hanno non solo ripopolato il Vecchio Mondo e iniziato a lasciare in giro le testimonianze della loro presenza sotto forma di pitture e incisioni rupestri, ma che hanno addirittura trovato i mezzi per varcare gli oceani.

Diciamo che questa scoperta non rappresenta una confutazione diretta dell’Out of Africa, ma richiede ai sostenitori di quest’ultima uno sforzo sempre più notevole di disponibilità a crederla.

Rimane un problema: nel passato più recente, diciamo pure che riciclare il materiale dei gruppi FB mi ha notevolmente semplificato la vita, ora occorrerà non utilizzare un bel po’ di materiale. Sarà necessario un cambiamento di passo, e non posso garantire di poter mantenere per questi articoli una cadenza bisettimanale, dipenderà molto dalle cose che si presenteranno sul web o altrove.

Poiché ci tengo a essere presente con costanza su “Ereticamente” anche relativamente a queste tematiche, ho cercato di prendere delle opportune contromisure. Per prima cosa, riportare in vita la serie di articoli Ex Oriente lux, ma sarà poi vero? Un nuovo articolo di questa serie, il ventiquattresimo, a due anni di distanza dell’ultimo che l’aveva preceduto, l’avete già potuto leggere nel 2018, e un altro, il venticinquesimo, è seguito a gennaio 2019. Un altro paio almeno sono in cantiere.

C’è poi un pezzo che per me rappresenta una tematica abbastanza inedita, un articolo di soggetto mitologico, dedicato alla figura dello psicopompo, cioè quella o quelle divinità che in molte mitologie accompagnavano le anime dei defunti nel loro viaggio ultraterreno, un  articolo che ha un’origine curiosa, nasce da una ricerca scolastica che feci per mia figlia Alessandra, e che poi è rimasta a vegetare per molti anni nel mio hard disk, un esperimento, vedremo se dargli seguito.

Ci sono ancora sempre da pubblicare i testi di due conferenze, quella da me tenuta la scorsa estate al Triskell, il festival celtico triestino, e quella che purtroppo, per circostanze che vi ho raccontato, non sono riuscito a tenere alla Casa del Combattente. La prima ha avuto per oggetto il fenomeno megalitico nell’Europa continentale, e ci sarebbe davvero da meravigliarsi, se non sapessimo che si tratta di una scelta politica pregiudiziale, del fatto che gli archeologi ignorino una tale massa di testimonianze per venire a raccontarci le solite favole mediorientali.

La seconda intende invece rispondere a una domanda fondamentale: noi Italiani siamo, anche qui come vuole l’ortodossia ufficiale, la vulgata, un’accolita di genti disparate, unite solo dalla collocazione geografica e, al massimo, da un lieve collante culturale, o siamo invece un autentico popolo congiunto da legami di sangue? A ogni modo, come potete vedere, la tematica delle origini, della nostra eredità ancestrale, è ben lontana dall’essere esaurita.

Io ritengo che essa rappresenti una questione assolutamente centrale nella nostra visione del mondo: sapere da dove veniamo per capire chi veramente siamo, e lottare perché il nostro passato e  il nostro presente abbiano un avvenire.

NOTA: Nell’illustrazione, una delle antichissime pitture rupestri che si trovano nel parco nazionale brasiliano di Serra da Capivara.

2 Comments

  • Fabio Calabrese 18 Febbraio 2019

    Michele Ruzzai mi invia alcune precisazioni che vi trascrivo:
    1.Il numero dei nostri iscritti, a causa della recente “scure” di Facebook, è ora sotto i 1.500
    2.l’altra moderatrice, pur essendo sempre una delle nostre iscritte più intelligenti ed attive, non è tuttavia più co-amministratrice del gruppo perchè non riusciva a seguirlo con l’attenzione e la tempestività che avrebbe voluto. Ciò non toglie, comunque, che i suoi contributi siano tra i più interessanti e che con lei si continui ad essere sempre in ottimi rapporti.
    3.Il testo di Herman Wirth è ancora piuttosto lontano dalla conclusione della traduzione (che comunque, per i fondi che abbiamo raccolto, sarà sicuramente completata): ci vorrà ancora un bel po’ di tempo perché il volume è davvero ciclopico e la nostra traduttrice ha anche altri lavori in corso. Ma non vorrei che si interpretasse la cosa come già conclusa, il che potrebbe deludere qualcuno nel momento in cui ci chiedesse informazioni più dettagliate. Poi, per l’editore – pur continuando tuttora a battere il territorio in varie direzioni – non c’è ancora in vista nulla di preciso ; ma continuiamo sempre a cercare, anche se la cosa non pare agevole visto l’ingente investimento economico che l’editore dovrebbe sobbarcarsi.

  • Michele Ruzzai 18 Febbraio 2019

    Grazie Fabio per la menzione nell’articolo ed anche per questa precisazione: mi hai anticipato di pochissimo perchè stavo per farla io.
    Un caro saluto.
    Michele Ruzzai

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