11 Aprile 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, novantaseiesima parte – Fabio Calabrese

Ci dedichiamo a una nuova esplorazione di quel che può offrire il web riguardo alla tematica delle origini e dell’eredità degli antenati. Ricominciamo da piuttosto indietro, da un articolo apparso a marzo sulla versione on line del prestigioso periodico spagnolo ABC, firmato con la sigla J. Da J., che ci pone un interrogativo: Che lingua parlavano i Neanderthal? E’ ovvio che quale lingua parlassero, non possiamo saperlo, quello che invece possiamo dare praticamente per certo, è che disponessero di capacità linguistiche nulla affatto diverse da quelle dell’uomo moderno. Almeno, stando all’articolo, è quanto si desume da una ricerca condotta da Stephen Wroe, zoologo e paleontologo dell’università americana del New England. L’esame dello ioide – osso del collo coinvolto nella fonazione – di un uomo di Neanderthal, ha permesso di verificare che esso non somiglia affatto a quelli degli scimpanzé e dei bonobo, ed praticamente indistinguibile da quello di un uomo moderno. Questa ricerca conferma i risultati ottenuti dall’Istituto di Psicolinguistica del Max Planck Institute, secondo i quali il linguaggio sarebbe comparso già nell’Homo heidelbergensis, ultimo antenato comune del sapiens moderno e dell’uomo di Neanderthal.

Io ho l’impressione che questo nostro antenato (perché è ormai certo che lo fosse), l’abbiamo gravemente bistrattato e sottovalutato. C’è il doppio cerchio di stalagmiti ritrovato nella grotta francese di Bruniquel, la più antica struttura architettonica al mondo. Ci sono i resti dell’uomo ritrovati a El Sidron (Spagna) che affetto da un parassita intestinale e da un ascesso dentario, come ha dimostrato l’analisi della placca dentale, consumava muffe penicillum (contenenti il principio della penicillina) e corteccia di salice (contenente acido salicidico, il principio dell’aspirina), c’è soprattutto il fatto che quest’uomo ha dimostrato di sapersela cavare egregiamente nel duro ambiente dell’età glaciale.

Noi tutti, e gli asiatici, condividiamo una sua eredità genetica, che invece non è presente nei neri subsahariani. Scusate tanto, ma provo una tentazione molto forte a mettere in relazione lo scarto di 30 punti di Q. I., la marcia in più che noi e gli asiatici abbiamo rispetto a questi ultimi, con la sua eredità.

Sempre ABC del 4 aprile presenta un articolo di Jose Manuel Nieves che mette a fuoco l’altra e molto meno conosciuta figura fra i nostri predecessori, l’uomo di Denisova. Il titolo è alquanto sorprendente: Potrebbe esserci una popolazione di Denisova nascosta in qualche remota isola del Pacifico? Secondo una ricerca di Murray Cox dell’università di Massey in Nuova Zelanda, recentemente presentata nel corso della conferenza della American Association of Phisical Anthropology di Cleveland (Stati Uniti), questi uomini ancora poco conosciuti che avrebbero contribuito per circa il 4% al patrimonio genetico delle popolazioni asiatiche e australiane, si sarebbero ripetutamente incrociati con i sapiens moderni fra 50.000 e 15.000 anni or sono. Contrariamente a quanto si pensava finora, i denisoviani sarebbero sopravvissuti fino a 15.000 anni fa, tempi molto più recenti di quanto si pensasse, e ben dopo l’estinzione dei Neanderthal, al punto che, sostiene Murray Cox, in qualche remota isola del Pacifico, i loro discendenti potrebbero sopravvivere ancora oggi.

E’ il caso di ribadire una verità ovvia, ma che ci viene occultata per far passare la favola della presunta origine africana: Cro Magnon, Neanderthal e Denisova si sono ripetutamente accoppiati, e noi siamo i loro discendenti. La possibilità di accoppiarsi e di generare una discendenza fertile, è precisamente ciò che definisce l’appartenenza alla stessa specie, anche in presenza di grandi differenze fisiche (pensiamo a nostri cani, per fare un paragone). Non si trattava di tre specie diverse, ma di tre ceppi, tre varietà (sarei tentato di usare una parola sacrilega, razze) di una stessa specie, homo sapiens, la nostra, che ha alle spalle una storia più complessa e diversa da quanto racconta la favola africana.

Parliamo ancora del meeting di Cleveland, dove i denisoviani a quanto pare sono stati i grandi protagonisti, come era logico, data la curiosità che circonda questi nostri predecessori ancora così poco conosciuti. Secondo Bence Viola dell’università di Toronto, si sarebbero incrociati coi sapiens moderni almeno tre volte: 46.000, 30.000 e 15.000 anni fa. In particolare, nel DNA dei nativi di Papua Nuova Guinea si riscontrerebbero le tracce dell’incrocio con due distinti lignaggi denisoviani, perché le popolazioni di questi antichi uomini dovevano essere ben differenziate a livello regionale. Questo è quanto riferisce “Science News” (www.sciencenews.org).

Fin qui si tratta semplicemente di prendere atto di una serie di dati fattuali. Quello che onestamente da fastidio, è l’uso ripetuto  del termine “introgressioni” per indicare gli apporti genetici di neanderthaliani e denisoviani all’umanità attuale, quando sappiamo che gli esseri umani non sono batteri, e lo scambio genetico può avvenire solo attraverso il rapporto sessuale. La battaglia ideologica si combatte anche e soprattutto attraverso l’uso connotativo delle parole. “Introgressione” dà l’idea di un’infezione, di un’invasione, come minimo di un’intrusione che compromette od offende la presunta “pura linea” di ascendenza africana. Più ci si pensa, più appare inevitabile la conclusione che i veri razzisti sono i sostenitori dell’Out of Africa.

Io non credo sia assolutamente necessario ripetere tutti gli argomenti e le prove paleoantropologiche, archeologiche, genetiche che vi ho esposto tante volte e che dimostrano l’infondatezza della presunta genesi africana, che non è una teoria scientifica, ma un dogma ideologico che ci viene imposto. Quello che invece è ora possibile rilevare (con soddisfazione), è che una di quelle che finora sono state considerate le principali prove a favore dell’Out of Africa, anzi forse il più importante pilastro “scientifico” su cui si regge questa “teoria”, sta miseramente crollando, mi riferisco alla “prova” del DNA mitocondriale.

I mitocondri sono organelli presenti nelle cellule degli organismi eucarioti, e costituiscono le centrali energetiche delle cellule stesse. La cosa più interessante è che i mitocondri hanno un proprio DNA, diverso da quello del nucleo cellulare, e si pensa che essi siano ciò che rimane di antichi batteri divenuti simbionti della cellula eucariote. I mitocondri e il relativo DNA mitocondriale si trasmettono soltanto per via materna, con la cellula uovo, in quanto dallo sperma paterno si riceve soltanto metà del proprio DNA nucleare. Poiché il DNA mitocondriale si riceve da un solo genitore (così come il cromosoma Y per i maschi, con la differenza che anche i figli maschi ricevono i mitocondri materni, ma non li trasmettono alla discendenza), questo rende possibile tracciare l’albero genealogico degli aplogruppi. In base a esso, risalendo di figlia in madre, si è perlopiù supposto che le origini di tutti noi andassero ricercate in una “Eva mitocondriale” africana. Ora si scopre che questo assunto è falso.

Secondo una ricerca pubblicata lo scorso 10 febbraio sul sito di medicina “BioRxiv”, opera dei genetisti cinesi Ye Zhang e Shi Wang (in tutto ciò ci sarà una punta di spirito nazionalistico, ma non guasta), la presunzione che l’aplogruppo mitocondriale N di origine africana, sia ancestrale a tutti gli altri, come finora si è ritenuto, è errata, esso risulterebbe di 5.000 anni più giovane dell’aplogruppo R asiatico, che sarebbe quello realmente ancestrale a tutti gli altri. Addio quindi all’Eva africana, mentre sarebbe da un’Eva asiatica che noi tutti discenderemmo.

Il problema, riguardo all’uomo di Denisova, è che questo nostro predecessore sembrerebbe aver lasciato tracce tutt’altro che esigue nel DNA delle popolazioni asiatiche e australiane (fino al 6% del patrimonio genetico di alcune di esse), ma finora di lui abbiamo pochissimi resti fossili, al punto che la sua fisionomia appare tuttora incerta e nebulosa, ma questa situazione sta probabilmente per cambiare, e in questo periodo si possono segnalare importanti ritrovamenti fossili in due aree diverse.

“National Geographic” del 4 marzo da notizia del ritrovamento in Cina nella grotta di Yanhui nella contea di Tongzi di quattro denti risalenti a 200.000 anni fa, che presentano una strana mescolanza di caratteri arcaici e moderni, che potrebbero essere denisoviani. In realtà questi denti sono stati reperiti nel 1972 e nel 1983, ma finora erano stati classificati come appartenenti a Homo erectus. La loro nuova identificazione è opera del paleoantropologo cinese Song Xing.

La notizia dell’altro ritrovamento viene dalla grotta di Callao nelle Filippine, ed è stata riportata da “La stampa” in data 10 aprile. Anche in questo caso abbiamo una singolare mescolanza di caratteri arcaici ed umani moderni, si tratta di tredici resti fossili: denti, ossa della mano e del piede, frammenti di femore. Il ricercatore che ha studiato questi resti, Florent Detroit, ha provvisoriamente battezzato la creatura cui sono appartenuti e che sarebbe vissuta circa 50.000 anni fa Homo Luzonensis ma, dato sia l’orizzonte temporale sia la collocazione geografica, è probabile che si finisca per scoprire che quest’ultimo era appunto un denisoviano.

ACAM, “Associazione culturale archeologia e misteri”, www.acam.it , non è un sito scientifico ma quello che potremmo forse definire un portale di fanta-archeologia, e le cose che pubblica richiedono di essere vagliate con una certa cautela, ma nondimeno vi si trovano degli spunti interessanti, recentemente ha pubblicato un articolo di Sergio Pastorino: La genesi misteriosa dell’Homo sapiens, che offre diversi elementi di riflessione.

L’articolo si apre con un incipit che è una citazione del paleoantropologo etiope Berhane Asfaw già collaboratore di Donald Johanson, lo scopritore dei resti della famosa Lucy secondo cui l’Out of Africa è la spiegazione definitiva dell’origine della nostra specie “Finché non avremo qualcosa di più antico e migliore”. Mi spiace per il dottor Asfaw – e teniamo conto che si tratta del punto di vista di un africano – ma forse qualcosa di più antico e migliore ce lo abbiamo già, e mi pare che sia da una novantina di articoli che ve lo sto illustrando.

 Ma prescindiamo. L’aspetto più interessante dell’articolo è la riflessione dell’autore sul fatto che i processi evolutivi, con il lento ritmo dell’accumulo di variazioni favorevoli, non sembrano adeguati a spiegare la genesi dell’essere umano. Noi abbiamo in comune con lo scimpanzé il 98% del patrimonio genetico, la struttura fisica del nostro colpo e del nostro cervello sono molto simili, tuttavia le differenze fra ciò che un uomo è in grado di fare rispetto a uno scimpanzé, sono enormi. In termini evoluzionistici, sembra che la comparsa dell’uomo con il grande cervello, il linguaggio articolato, la stazione eretta, l’uso di strumenti e tutto il resto, debba richiedere un’accelerazione dei processi evolutivi assolutamente inspiegabile.

Scrive l’autore:

Di conseguenza, ci si chiede: Come mai Homo Sapiens è apparso circa duecentomila anni fa e non due o tre milioni di anni più avanti come avrebbe dovuto essere se fossero stati rispettati i normali ritmi evolutivi? Né dovremmo aver raggiunto uno stadio avanzato di civiltà, ma dovremmo essere, ed è universalmente riconosciuto, ancora dei selvaggi”.

Come far quadrare i conti che non tornano in termini evoluzionistici? Pastorino conclude:

Tutte queste stranezze lasciano spazio ad almeno due conclusioni: O l’Homo Sapiens esisteva già da tempo immemorabile, come d’altra parte suggeriscono numerosi reperti  ritrovati e mai presi in considerazione, oppure c’è stato qualche intervento mirato nei confronti del DNA umano”.

Cerchiamo di dare a queste parole il loro preciso significato: “Qualche intervento mirato nei confronti del DNA umano” potrebbe significare soltanto che esso sarebbe stato manipolato da qualche intelligenza non umana, extraterrestre. E’ una vecchia ipotesi cara a ufologi come Sitchin, Von Daniken, Kolosimo, e oggi rilanciata dall’interpretazione ufologica della bibbia portata avanti da Mauro Biglino, ipotesi fantasiosa quanto campata in aria e priva di elementi probanti purchessia.

Poiché diversi lettori di “Ereticamente” mi hanno chiesto di esprimere il mio parere sull’interpretazione ufologica della bibbia di Biglino, ne approfitto per parlarne ora. Io penso che quest’uomo, già biblista e traduttore ufficiale del Vaticano, abbia perfettamente ragione asserendo che la bibbia è un testo oscuro e ambiguo di cui la Chiesa cattolica e le Chiese cristiane in genere hanno dato nel corso dei secoli l’interpretazione che più faceva loro comodo, ma quanto all’ipotesi ufologica, meglio lasciar perdere.

Rimane l’altro corno del dilemma, l’ipotesi che l’essere umano sia molto più antico di quanto solitamente non si pensi. Anche quest’ultima ipotesi è ben lungi dal rappresentare una novità assoluta. Si può ricordare che fra le due guerre mondiali l’anatomista tedesco Edgard Dacqué, osservando che la selezione darwiniana non produce tanto l’evoluzione quanto l’adattamento che consiste sempre in una perdita di plasticità (ad esempio, la zampa del cavallo, splendidamente adattata alla corsa, non può ridiventare un arto in grado di afferrare qualcosa), avanzò l’ipotesi che l’uomo non sia l’essere “più evoluto”, ma quello rimasto più vicino a una forma ancestrale, un Urmensch di un’antichità incommensurabile.

La conseguenza è che tutti i vari ominidi che la paleoantropologia va scoprendo non sarebbero con ogni probabilità nostri antenati, ma rami collaterali della famiglia umana, prossimi a superare la linea di demarcazione fra l’umanità e l’animalità non in senso evolutivo ma degenerativo. Bisogna ricordare che l’ipotesi di Dacqué fu molto apprezzata da Julius Evola come ragionevole alternativa sia al progressismo evoluzionista sia al creazionismo abramitico.

C’è un articolo di questa serie che dovrebbe essere una sorta di “ripasso dei fondamentali” che sto posponendo da vari numeri, pressato da una serie davvero sorprendente di novità emerse negli ultimi tempi, ma che probabilmente vi proporrò la prossima volta, dove fra le altre cose, ho fatto una più dettagliata analisi dell’ipotesi di Dacqué. Vi chiedo solo di pazientare un poco al riguardo.

Come forse avrete notato, gli articoli citati in questa e nella parte precedente della nostra serie, si sovrappongono temporalmente. Il fatto è che in questo periodo abbiamo avuto un’abbondanza davvero insolita di nuove informazioni sulle tematiche paleoantropologiche e genetiche, e ho optato per una suddivisione per argomenti piuttosto che seguire la scansione cronologica delle pubblicazioni. Nella novantacinquesima parte ci siamo soffermati sull’orizzonte temporale delle decine di migliaia di anni fa e abbiamo visto quasi a sorpresa che a questo livello emerge in modo preponderante la tematica iperborea. Adesso siamo risaliti più indietro, alle centinaia di migliaia di anni or sono, dove possiamo rilevare che la nostra specie ha una storia complessa, svoltasi principalmente in Eurasia, dove si sono separate e variamente re-incrociate le tre varietà Cro Magnon, Neanderthal e Denisova, una storia che non lascia spazio alla semplicistica favola dell’origine africana.

Bene, finché ci sarà possibile, noi saremo sempre qui, a difendere la verità e a smentire le favole che fanno comodo al potere.

 

NOTA: Nell’illustrazione una delle più recenti ricostruzioni di un uomo di Neanderthal, che fa definitivamente giustizia delle caratteristiche scimmiesche un tempo attribuite a questo nostro antenato. Si notino le penne. Calami di penne d’aquila recentemente ritrovate nei siti neanderthaliani spagnoli fanno pensare che questi uomini usassero adornarsene il modo simile ai pellirosse.

 

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