11 Aprile 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, novantanovesima parte – Fabio Calabrese

Questa rubrica è ormai giunta molto vicina a un obiettivo che qualche anno fa sarebbe sembrato irraggiungibile, la quota cento (che non è quella promessa dal governo) e la tripla cifra. Come è facile comprendere, con alle spalle un simile lavoro che io penso nessuno mi accuserà di immodestia se dico che è di tutto rispetto, il quadro delle nostre origini che emerge è articolato e – penso di poter dire – abbastanza completo. A questo punto, dunque, non ci saranno da aspettarsi novità sconvolgenti, quanto piuttosto o conferme, o ulteriori tessere che rendono sempre più nitido il quadro delineato.

Una conseguenza di ciò è il fatto che il discorso tende a farsi un po’ frammentato, saltando su livelli temporali diversi, ma vediamo le cose possibilmente con ordine.

Ripartiamo da abbastanza indietro, considerando alcune cose che ho trascurato in precedenza (chiedo venia, ma come sapete, il web è oltremodo complesso e qualcosa può sempre sfuggire). Comincio allora con il segnalarvi un articolo apparso già a fine marzo, ma che finora mi era sfuggito.

Alla luce delle conoscenze di cui possiamo effettivamente disporre, possiamo affermare in tutta sicurezza che l’ex Oriente lux è una favola non meno infondata dell’Out of Africa, e – guarda caso – nemmeno a farlo apposta, è arrivata una ricerca che costituisce un’ulteriore smentita di questa favola. Se, come essa sostiene, la rivoluzione agricola fosse arrivata in Europa dal Medio Oriente portata da comunità di agricoltori che si espandevano alla ricerca di nuove terre, allora nel genoma degli Europei di oggi ci dovrebbe essere una presenza massiccia di geni di origine mediorientale, ebbene questo non si verifica.

Il 27 marzo “Genetic Literacy Project” (genetiliteracyproject.org) ha pubblicato un articolo di Andrew Masterson che riporta i risultati di uno studio compiuto da un team di ricercatori dell’Istituto Max Planck di Jena che ha confrontato i genomi del cacciatori-raccoglitori europei del paleolitico con quello degli agricoltori dell’età neolitica, rivelando che sono sostanzialmente coincidenti. L’Europa non è stata invasa da coloni mediorientali, ma gli Europei potrebbero aver copiato le tecniche agricole del Medio Oriente passando da un’economia di caccia e raccolta a una agricola.

Io però personalmente penso che vi siano forti indizi che inducono a pensare che l’agricoltura sia una scoperta europea e non mediorientale. Ve ne ho parlato più volte: vanno in questo senso la priorità europea nell’allevamento bovino e nell’utilizzo dei metalli.

La questione, sarà bene sottolinearlo, ha anche un importante risvolto politico, infatti, secondo l’ideologia corrente, l’ideologia imposta dalla democrazia, i progressi delle civiltà dipenderebbero sempre da invasioni, immigrazioni e meticciati, ed è il motivo (il pretesto) per cui vengono a dirci che l’attuale invasione extracomunitaria dell’Europa ci apporterebbe chissà quali immaginari vantaggi. Ora, di tutto questo, di cui la storia documentata dell’Europa non ci ha mai mostrato nulla, la supposta introduzione in Europa della rivoluzione agricola dal Medio Oriente rappresenterebbe l’esempio più rilevante, e ora scopriamo che essa non è mai avvenuta.

Adesso però ci occupiamo di un ordine temporale del tutto diverso, alle centinaia di migliaia di anni in cui vanno ricercate le origini della nostra specie.

A fine aprile sulle pagine di “Business Insider” Italia (it.businessinsider.com ) è apparso un articolo a firma di Kevin Loria, Le nuove scoperte che hanno rivoluzionato la nostra comprensione sull’origine dell’uomo. Ora, a mio parere, l’importanza dell’articolo non è data tanto dal suo contenuto, si tratta di cose che conoscevamo già, quanto dal fatto che la sua sede non è “Ereticamente” né “Il primato nazionale”, che anche fuori dall’Area si comincia finalmente a riconoscere che la favola dell’origine africana ormai non regge più, che la presenza della nostra specie è testimoniata dai reperti in luoghi diversi e molto prima di quel che la favola africana implicherebbe di supporre.

Loria cita i resti umani sorprendentemente “moderni”ritrovati nella cava marocchina di Jebel Irhoud risalenti a 200.000 anni fa (è vero, siamo sempre in Africa, ma molto lontani da quella che si suppone sia stata l’ancestrale culla subsahariana della nostra specie), per passare ad alcune pitture parietali europee molto più antiche di quanto finora non si pensasse, i cui autori devono essere stati non i Cro Magnon, ma gli uomini di Neanderthal. Questi antichi uomini da cui in parte discendiamo, devono essere stati ben più simili a noi di quanto abbiamo finora pensato, capaci anche di espressioni artistiche, e pare siano esistiti in Europa già 400.000 anni fa – dato incompatibile con l’Out of Africa – per non parlare dell’altro ancora misterioso antenato, l’uomo di Denisova.

Inoltre, come se tutto ciò non bastasse, sembra che la presenza umana nelle Americhe sia molto più antica di quanto finora su posto al punto da poter supporre che questo continente sia stato raggiunto in epoca remota da un homo diverso dal gromagnoide di presunta origine africana.

“Business Insider”, ammettiamolo, è una pubblicazione il cui nome non fa pensare a un interesse nel campo dell’archeologia e dell’antropologia, tuttavia, a vedere gli articoli che pubblica, si scoprono diverse cose piuttosto interessanti, fra cui una notizia piuttosto preoccupante. Un articolo di Mariella Bussolati del 27 aprile ci parla della fabella, un piccolo osso del ginocchio che si trova nella parte posteriore dell’articolazione, opposta al menisco. Questo piccolo osso, frequente negli antropoidi, è rarissimo negli esseri umani, ma oggi pare che la fabella stia ricomparendo, si trova con frequenza maggiore che nel passato. Che sia il primo passo del ritorno alla scimmia profetizzato da Nietzsche, dell’ultimo uomo che preferisce tornare alla scimmia piuttosto che trascendere l’uomo?

Il 26 aprile Phys.org riprende un articolo pubblicato in contemporanea sulla rivista “Genome Biology”. Uno studio internazionale diretto da David Comas dell’IBE (Institute of Evoluzionary Biology) avrebbe dimostrato “per la prima volta” mediante l’uso dell’intelligenza artificiale che le popolazioni africane, ben lungi dal rappresentare, così come suppone la teoria dell’origine africana, la linea sapiens pura (in quanto non presenta nel genoma tracce di ibridazioni né con neanderthaliani né con denisoviani), reca nel DNA tracce evidenti dell’introgressione di una specie ominide finora sconosciuta.

Fino a qui, in realtà, nulla che non sapessimo già. Quel che colpisce, invece, è proprio quel “per la prima volta”. Ne ha parlato “Le Scienze” nel 2012 in un articolo-intervista a Sarah Tischkoff considerata una delle ricercatrici più in vista nel campo della genetica, della presenza di un genoma non sapiens nelle popolazioni africane. Nel 2017 la cosa è stata riscoperta da due biologi dell’università di Buffalo, Homer Gockumen e Stephen Ruhl, che, studiando le proteine della saliva, ne hanno individuata una presente nei neri di origine subsahariana e in nessun’altra popolazione umana, e sono giunti alla stessa conclusione. Gockumen e Ruhl parlarono al riguardo di una “specie fantasma”.

Su quale sia in realtà l’identità di questa “specie fantasma”, l’abbiamo già visto, ci possono tuttavia illuminare le ricerche di Margherita Mussi, un’archeologa italiana che ha studiato il sito etiopico di Melka Kunture e scritto il libro Due acheuleani, due umanità. Un concetto importante da tenere presente, è che fino a sapiens l’evoluzione degli strumenti litici è strettamente parallela a quella del cervello, solo con sapiens si verifica quella ridondanza cerebrale che permette di passare dalla pietra scheggiata all’astronave senza ulteriori modificazioni biologiche.

L’acheuleano è l’industria litica tipica dell’homo erectus. Mentre in Eurasia esso va incontro a un’evoluzione parallela a quella dei suoi creatori in homo heidelbergensis poi in sapiens che si divide nelle tre ramificazioni Cro Magnon, Neanderthal e Denisova, in Africa rimane sostanzialmente immutata fino a 40.000 anni fa, cioè fino all’arrivo nel continente nero dei sapiens provenienti dall’Eurasia. La “specie fantasma” dunque non sarebbe altri che il “vecchio” homo erectus con cui i sapiens si sarebbero incrociati dando origine agli attuali neri subsahariani.

Successive ricerche genetiche hanno rivelato che questi ultimi hanno una percentuale più alta di geni non sapiens rispetto a qualsiasi altro gruppo umano, l’8% (mi viene sempre da pensare che si potrebbe suggerire a quelli del PD di aggiornare il loro noto slogan: “Restiamo umani al 92%”).

La situazione è a un punto che si può definire ridicolo: sembra che la – chiamiamola introgressione africana – venga periodicamente riscoperta e dimenticata, e il motivo non è difficile da capire: essa costituisce una smentita diretta dell’Out of Africa, perché se quest’ultima fosse vera, si troverebbe una qualche traccia di questa introgressione anche in popolazioni non africane, cose che sappiamo non succedere. Ma vi rendete conto a quale livello la democrazia, l’antirazzismo, il politicamente corretto, stanno riducendo la scienza dell’uomo?

Passiamo ora a un orizzonte temporale del tutto diverso, molto più vicino a noi. Open.online del 29 aprile riferisce dei risultati di quattro anni di scavi condotti nelle isole greche di Keros e Dascalio nelle Piccole Cicladi da parte di un team britannico guidato da Colin Renfrew, oggi forse il più insigne archeologo vivente, che ha portato alla scoperta delle tracce di una cultura finora del tutto sconosciuta e “altamente sviluppata” esistita tra il 2750 e il 2550 avanti Cristo, quindi per intendersi di poco posteriore o quasi contemporanea alle piramidi di Giza.

Abbiamo forse le prime tracce concrete dei mitici Pelasgi e/o una cultura che ha fatto da base a quella minoica. Viene istintivo il paragone con l’Italia, dove le indagini genetiche hanno smentito le supposte origini orientali degli Etruschi, e mostrato invece che essi costituirono una cultura autoctona, evoluzione in età storica di quelle terramaricola e villanoviana. Allo stesso modo questa cultura avrebbe poi potuto dare luogo a quella minoica, essa pure da ritenere autoctona, e quindi non debitrice di influssi che – chissà perché – verrebbero immancabilmente “da oriente”.

E’ un altro tassello dell’ideologia democratica e politicamente corretta, quello dell’Ex Oriente Lux, che diventa sempre più difficile da sostenere, e dimostra di non valere più dell’Out of Africa.

E’ il caso ora di non seguire uno stretto ordine cronologico nell’esposizione ma di anticipare un po’. Infatti, possiamo collegare questa notizia a una pubblicata dal “Daily Mail” del 20 maggio: l’analisi del DNA mitocondriale dei resti degli antichi minoici condotta da un team dell’Università di Washington guidato dal professor George Stamatoyannopulos (l’origine greca di questo cognome è evidente) ha permesso di stabilire che essi erano caucasici ed europei autoctoni, smentendo in maniera clamorosa l’ipotesi “immigrazionista” recentemente venuta di moda (chissà perché!) che li vorrebbe discendenti da profughi nordafricani (magari traghettati fino a Creta dalle ONG).

Torniamo indietro, sulla scala temporale delle decine di migliaia di anni. Un editoriale di nature.com del 1 maggio da la notizia del ritrovamento di una mandibola denisoviana risalente a 40.000 anni fa sull’altopiano tibetano. Si tratta del primo ritrovamento di un reperto denisoviano fuori dall’Altai e il più grande finora ritrovato. E’ paradossale che noi oggi conosciamo questa varietà umana soprattutto attraverso le tracce che ha lasciato nel DNA delle popolazioni asiatiche e australiane, ma disponiamo solo di pochissimi frammenti ossei. La mandibola è stata ritrovata a una quota di 3.280 metri, il che suggerisce un adattamento a un clima freddo. Pare che fossero una sottospecie umana alquanto variabile, finora sono state individuate almeno tre distinte popolazioni denisoviane (io avanzerei l’ipotesi che anche i resti del misterioso Homo luzonensis recentemente ritrovati nelle Filippine potrebbero essere in realtà denisoviani), tuttavia, a causa della scarsità dei reperti ossei, la fisionomia di questo nostro lontano predecessore rimane ancora molto nebulosa.

In singolare coincidenza con l’articolo apparso su “Business Insider”, “EnigmaX” del 3 maggio riporta la notizia del ritrovamento in Cile, nel sito di Pilauco, di un’impronta umana risalente a 40.000 anni fa. Si tratta di un dato che sconvolge la ricostruzione ufficiale della preistoria americana, dal momento che si suppone che l’America meridionale non sarebbe stata raggiunta dall’uomo prima di 12.000 anni fa. Per chi non è attaccato alle visioni rigide imposte dall’archeologia ufficiale, tuttavia la notizia non è così sorprendente: un’altra impronta umana risalente a 40.000 anni fa sarebbe già stata da tempo ritrovata in Messico (lo riporta Vikipedia), e a 50.000 anni fa risalirebbero le più antiche pitture rupestri della Serra da Capivara in Brasile. La storia remota delle Americhe è probabilmente tutta da riscrivere.

L’8 maggio Phys.org pubblica i risultati di una ricerca statistica del Centro Medico dell’Università di Chicago condotta sui resti fossili di australopiteco, che porta alla conclusione che è improbabile che queste creature fossero antenate dell’uomo. Un lavoro che conferma i risultati delle ricerche del team inglese guidato da sir Solly Zuckerman sullo scheletro di Lucy e l’altro studio sui resti di Littlefoot, “piedino”, che ha portato a escludere che questa creatura camminasse eretta.

Questo ci porta a due conclusioni “imbarazzanti”: se gli australopitechi africani non sono antenati dell’uomo, viene meno il principale puntello dell’Out of Africa, e secondo e non meno importante, tutte le creature che possiamo riconoscere con certezza come nostri antenati sono homo e nient’altro che homo, il che allunga un’ombra di dubbio sulla stessa teoria evoluzionista.

BBC News dell’8 maggio ha dato una notizia sorprendente: una pietra rimossa dal circolo megalitico di Stonehenge durante il restauro del 1958 (in realtà si tratta di un campione di carotaggio prelevato da uno dei sarsen), sarà ricollocata al suo posto, non prima di essere sottoposta a esami per accertare la provenienza della pietra sarsen. Noi sappiamo che questo monumento neolitico è stato sottoposto a diversi restauri, fra cui uno molto rilevante all’inizio del XX secolo. Questo ha permesso ad alcuni CICAPpoidi scettici di professione, di affermare che questo monumento sarebbe sostanzialmente un falso, soprattutto per quanto riguarda le correlazioni astronomiche fra la posizione dei megaliti e la collocazione del sole e della luna in determinati periodi dell’anno, permettendo la previsione di solstizi, equinozi, eclissi.

Di base, in costoro che pretendono – si illudono – di essere liberi da pregiudizi di qualsiasi specie, agisce il solito pregiudizio dell’ex Oriente lux, per cui non ci potevano essere 5-6.000 anni fa in Europa conoscenze avanzate. Dunque, spostando a caso i monoliti, gli operai del novecento che nulla ne sapevano, avrebbero creato delle correlazioni astronomiche fin allora inesistenti. La probabilità è più o meno la stessa di quella della scimmia che camminando a caso sui tasti di una macchina da scrivere, compone un sonetto. Ma questi CICAPpoidi, a forza di tentare di essere scettici a tutti i costi, hanno finito per perdere il senso del ridicolo.

Rimaniamo nelle Isole Britanniche per segnalare due diversi studi sulla genetica della popolazione inglese. Di uno da notizia “Leggo.it” del 12 aprile, riportando un articolo di “The Telegraph”. Secondo una ricerca condotta dall’archeologo Mark Robinson, la differenza genetica fra gli abitanti del sud-est dell’Isola e il resto della popolazione britannica sarebbe riconducibile all’impronta genetica lasciata dai Romani. Invece, “Daily Mail” del 29 maggio riferisce che secondo uno studio di BritainDNA poco meno di un milione di uomini inglesi presenta un aplogruppo del cromosoma Y che raramente si riscontra al di fuori della Scandinavia, e sarebbero i discendenti diretti dei guerrieri vichinghi che conquistarono l’Isola. Gli Inglesi dunque sono anglosassoni, ma anche un po’ romani e un po’ vichinghi, un buon mix di sangue europeo che è certamente alla base della supremazia dimostrata dall’Inghilterra dai tempi di Elisabetta I a quelli della regina Vittoria, e oggi inevitabilmente rovinato da immigrazione e meticciato che si sono infiltrati persino nella casa reale.

Rimaniamo ancora perlomeno vicini alle Isole Britanniche per un’altra notizia di grande interesse secondo quanto riferisce “The Guardian” dell’8 maggio: abbiamo parlato più volte del fatto che esiste tra le coste britanniche e quelle dell’Europa continentale del Mare del Nord una vasta area di acque basse nota come Dogger Bank, che era certamente emersa fino a 8.000 anni fa. Da quindici anni, archeologi e oceanografi studiano i reperti casualmente recuperati dalle reti dei pescatori e stanno mappando la geografia della scomparsa “Doggerland” dell’età mesolitica. Adesso un team di ricercatori dell’università di Birmingham guidato dal professor Vince Gaffney cercherà di dragare un’area sopraelevata nota come Brown Bank alla ricerca di reperti. C’è tutto un capitolo mancante della storia europea da ricostruire.

In questo periodo non sono emerse novità che abbiano sconvolto il quadro delle nostre origini, ma conferme e approfondimenti. Di due cose possiamo essere sempre più certi: l’Out of Africa e l’ex Oriente lux, queste due favole politicamente corrette, democratiche e immigrazioniste sulle quali si regge la visione dell’antichità che vogliono imporci a tutti i costi, diventano sempre meno credibili.

NOTA: Questa immagine, disegnata dai grafici di “Le Scienze” rappresenta idealmente la “specie fantasma” con cui gli esseri umani si sarebbero incrociati in Africa,secondo la teoria elaborata nel 2017 dai biologi dell’Università di Chicago. Oggi si riparla della “specie fantasma”.

 

 

 

 

 

5 Comments

  • Mauro landucci 24 Giugno 2019

    Tutto chiaro e arcinoto da parte mia che sono esperto di morfologia umana. Tacito in Agricola indica i Britannici del Sud bruni e ricciuti come gli Hispanici .

  • Daniele Bettini 26 Giugno 2019

    CIVILTÀ MEGALITICHE DEL MEDITERRANEO E DEL SUDAMERICA. UN CONFRONTO.

    https://immagineperduta.it/civilta-megalitiche-del-mediterraneo-del-sudamerica-un-confronto/#comment-110

    Cronologia
    Volendo ora sistemare nel tempo le tappe che abbiamo riconosciuto nello sviluppo delle tecniche delle opere murarie del Sudamerica, possiamo distinguere essenzialmente quattro momenti da prendere come riferimenti: 1) la colonizzazione dal Mediterraneo verso il continente americano, 2) il passaggio dall’opera grezza a quella poligonale, 3) il passaggio tra l’opera poligonale e l’opera squadrata, 4) il termine della colonizzazione e della civiltà atlantica.

    1 – Il momento della colonizzazione del Sudamerica deve essere successivo all’inizio della navigazione d’altura, le cui prime tracce sono fatte risalire a 11500 anni fa. Questa è l’età di uno strato archeologico della grotta di Frankli, nell’Argolide, in cui sono stati trovati oggetti di ossidiana proveniente dall’isola di Milo e resti di pesci di grossa taglia. Più avanti avremo altri elementi di giudizio, e vedremo che la data suddetta dovrà essere spostata indietro. D’altronde spesso accade di riscontrare che le prime tracce di un evento non rappresentano il vero inizio di quel tipo di evento.

    Figura 15

    Figure 15 – Variazioni del livello marino negli ultimi 30.000 anni (da Mortari, 2011).

    2 – Per trovare l’inizio dell’opera poligonale dobbiamo considerare che esso coincide con la prima utilizzazione di utensili di bronzo. Assumendo che gli Atlanti abbiano mantenuto a lungo il monopolio della produzione di questa lega metallica, possiamo andare a cercare quali sono le tracce più antiche delle opere che essi possono avere creato con l’uso di strumenti di tale natura. Vi sono due indicazioni da tenere in considerazione. La prima riguarda il sito di Göbekli Tepe, in Turchia, in cui la pietra calcarea utilizzata è stata lavorata molto finemente corredando i pilastri lì presenti con raffinate figure di animali. L’età di fondazione dell’area è di circa 11500 anni fa. La seconda indicazione è data dalla famosa “piramide di Yonaguni”. Dando per assodato che la conformazione a gradoni, corridoi e terrazzi della cosiddetta piramide abbia un carattere artificiale, come è indicato dalle superfici perfettamente piane e dagli spigoli rettilinei, dobbiamo ammettere che la lavorazione non può essere avvenuta con strumenti litici, poiché le rocce effusive di tipo andesitico di questo isolotto sono molto resistenti e necessitano dell’uso di strumenti metallici. Ora la piramide è sommersa da 5 m d’acqua e le sue forme artificiali si spingono fino a una profondità compresa tra 28 e 30 m. Sapendo che il mare ha stazionato a 29 m sotto il livello attuale in un intervallo di tempo compreso tra 10250 e 10400 anni aC circa (Mortari, 2011), possiamo inferirne che la metallurgia del bronzo è iniziata prima di 12400 anni fa.

    Questa conclusione è senz’altro sorprendente, dato che l’età del bronzo viene comunemente fatta iniziare 5500 anni fa nel Caucaso. Ma dobbiamo considerare che per mezzo del bronzo gli Atlanti costruivano mura difensive che erano estremamente importanti per la loro sopravvivenza; non c’è da stupirsi quindi che tenessero la loro invenzione segreta, tanto che, come è riportato nel Crizia di Platone, quel materiale che essi soli detenevano era noto come “oricalco”, ma nessuno sapeva che composizione avesse.

    Per il momento possiamo assumere dunque come data indicativa dell’inizio della metallurgia del bronzo l’età del 10500 aC circa. Questa è anche una data ante quam dobbiamo collocare non solo la prima colonizzazione mediterranea del Sudamerica ma anche un periodo di sviluppo della tecnica delle pietre sgrezzate e la prima navigazione…..

  • Daniele Bettini 26 Giugno 2019

    Le 7 tribu’ di Ingwe e l’Armenia , trovata runa a Gobekli tepe

    Si dice che Gobekli Tepe significhi “Potbelly Mountain” o “Potbelly Hill” in turco, essendo una traduzione turca dell’originale armeno “Mountain Navel”, con il nome interessante – Portasar. Quello che sappiamo degli abitanti originari dell’Armenia, i popoli che hanno dato il nome alla zona, è che erano una nazione ariana , alti, biondi e con gli occhi azzurri. Questo, come ogni Nazione Ariana, era l’Elite Dominante e non era necessario il trucco tribale dell’intera area. Erano l’ Armen, l’Armenico, l’Armanen o l’ Arman che ci interessano oggi….

  • Daniele Bettini 26 Giugno 2019

    Continuano le scoperte di somiglianze fra la civiltà Germanica e l’Antico Egitto e che confermerebbero la comune origine Atlantica.Posterò ancora in futuro articoli a riguardo.Per ora mi scuso della pessima traduzione di google translate

    Il lupo e la lancia del destino
    http://inglinga.blogspot.com/2018/03/the-wolf-spear-of-destiny.html

    La Lancia del Destino è stata datata intorno al VI secolo DC, attorno ai tempi dei Re Merovingi Franchi. I Merovingi erano un Heerkonig germanico, un’antica linea reale germanica che credo fosse stata la Wolsungas. Adoravano una Sacra Lancia che sarebbe stata la Lancia di Woden. I Wolsungas e i Merovingi erano entrambi associati al simbolo del lupo. La Lancia di Woden è il simbolo dell’Asse Cosmico che indica la Stella Polare, così come il Saxon Irminsul – la Colonna di Irmin.
    Tutto ciò si riferisce al Mythus polare piuttosto che al successivo Mythus solare ; questo è quindi correlato a Thule-Hyperborea . È stato detto che la Grande Piramide di Giza ha il suo schema relativo all’emisfero settentrionale e quindi al Mythus polare. Ci sono sette stazioni della stella polare e il numero sacro sette è legato al mito polare. Piuttosto che le dodici età del mondo del Solar, ci sono sette divisioni ciascuna di circa 3.700 anni – un numero vicino al presunto ciclo di 4.000 anni della cometa Hale-Bopp. Probabilmente è probabile che la cometa Hale-Bopp sia un araldo di un nuovo ordine che sta arrivando, come abbiamo dimostrato prima. La cometa Hale-Bopp è apparsa nei cieli del nord

    nell’area di Cassiopea che è la ‘W-Shape’ o ‘B-Shape’ che gira attorno alla stella polare. Dovremmo anche notare che il “Driver of the Bear” (Ursa Major) è Bootes, associato a Ingwe o Ing, che è una costellazione raffigurata come un Hunter-God con due Hunting-Dogs (in origine i lupi). Questa costellazione è anche legata all’Inghilterra in qualche modo mistico.
    The Gar-Rune è il “Dono di Ing” ed è la lancia di Woden; Ho mostrato in un post precedente come questo si riferisce alla Piramide. Il nome “Piramide” significa “Fuoco nel mezzo” ed è associato a Ingwe e Inga-Fire – il “Serpente di fuoco”. Nei suoi libri Graham Hancock ha preso la linea che le Piramidi di Giza si basano su una rappresentazione terrena della Cintura di Orione, la Distaff di Frigg. D’altra parte, un altro scrittore speculativo, Andrew Collins, ha cercato di collegare le stesse piramidi alla costellazione di Cygnus the Swan. Collins ha associato questo con passaggi segreti sotto l’area di Giza, legati al dio Thoth che è associato all’Ibis, un simbolo simile al Cigno. Questa costellazione sembra essere stata associata al Falco e al dio-eroe, Horus. Torneremo su queste idee più tardi ….

  • Fabio Calabrese 28 Giugno 2019

    Io seguo sempre con interesse gli interventi di Daniele Bettini. Spesso non rispondo perché le risposte alle questioni che solleva richiederebbero come risposta un libro. Questo però non toglie che essi siano interessanti e utili, ad esempio la novantaquattresima parte è ispirata ai suoi commenti. Io però mi chiedo una cosa: perché invece di postarli come commenti ai miei pezzi, non li invia a “Ereticamente” come articoli indipendenti? Sono sicuro che sarebbero graditi.

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