13 Aprile 2024
Ahnenerbe

Una Ahnenerbe casalinga, nona parte

Un noto detto afferma che citare diverse fonti è cultura, mentre citarne una sola rischia di essere plagio. E’ un rischio che va tenuto presente, ma le informazioni contenute in un articolo recentemente comparso sul sito identità.com viene a collegarsi così bene al discorso sin qui svolto su ciò che si può obiettivamente dire sulle nostre origini, che sarebbe davvero un peccato ignorarlo, anche perché qui non si tratta di questioni di copyright letterario, ma di un’informazione che l’ortodossia ufficiale cerca al massimo di nascondere, di impedirne la circolazione, e che appunto per questo, è importante diffondere il più possibile.

Per prima cosa, occorre fare un’osservazione preliminare: stavolta non parliamo di teorie o interpretazioni. Stavolta si tratta di fatti, fatti per di più che hanno cominciato ad emergere negli anni ’60 del secolo scorso, e che per mezzo secolo sono stati coperti da un velo di silenzio omertoso perché potrebbero rivelarci un’immagine delle nostre origini e di noi stessi del tutto difforme da quella che l’ideologia democratica vorrebbe inculcarci.

Adattare le teorie ai fatti, correggerle in base alla scoperta di nuove conoscenze è l’essenza del metodo scientifico “galileiano” cui è legato qualsiasi progresso che abbiamo mai fatto nella comprensione del mondo che ci circonda e di noi stessi. L’operazione contraria, adattare i fatti alle teorie, o se questo non è possibile, falsificarli oppure nasconderli, censurarli, isolarli dietro una cortina di silenzio, invece è tipico del pensiero dogmatico, di chi in malafede vuole imporre una visione distorta della realtà. Bene, precisamente questo è oggi il caso di quell’ideologia menzognera che conosciamo come democrazia.

Questa storia inizia in Egitto oltre mezzo secolo fa, ma affonda le sue radici in un passato molto più antico, ecco cosa ci racconta l’articolo pubblicato da identità.com il 4 agosto e che s’intitola: Scoperti i resti della prima guerra della storia: e fu guerra razziale. E a proposito, non è quanto meno singolare che notizie e informazioni che dovrebbero apparire su riviste di divulgazione scientifica se vivessimo in situazioni normali, debbano invece circolare su siti “di Area”?

La vicenda inizia con quella grande impresa ingegneristica di cui credo la maggior parte delle persone della mia età si ricordino bene, che fu la costruzione della diga di Assuan.

“Siamo a sud dell’Egitto. La storia di questa grande scoperta archeologica inizia negli anni ’50, quando viene decisa la costruzione della nuova diga di Assuan. E’ un grande progetto, che entusiasma i due ingegneri che vi si dedicano ( tra cui un italiano), ma che terrorizza gli archeologi; e il motivo è chiaro: il nuovo ed immenso bacino che si creerà, finirà con l’inondare i reperti presenti sulla costa sud-orientale del Nilo.

A questa preoccupazione, nel 1960, risponde l’Unesco, che lancia una missione in grande stile per individuare e spostare i siti archeologici a rischio.

Ed è in quest’occasione che, nel 1964, nel nord dell’attuale Sudan, viene rinvenuto un primordiale cimitero, costituito di tre siti contigui, risalente a oltre 13.000 anni fa.

E’ un rinvenimento già all’apparenza non da poco, in quanto più antico sito della zona. E tuttavia la sua importanza non viene in un primo momento compresa; i mezzi a disposizione, non lo consentono. I resti scheletrici finiscono così nel laboratorio dell’illustre antropologo americano Fred Wendorf; ove, di fatto, riposano per oltre 30 anni.

Fino a quando non hanno iniziato ad essere studiati con le moderne tecnologie del 21esimo secolo: e qui è iniziato il bello. Per la prima volta, strumenti tecnologici di una certa “raffinatezza” hanno potuto esaminare questi residui ossei, ed evidenziare particolari mai notati prima”.

Piccola, banale osservazione: 64 più 30 uguale a 94. Quindi, anche se l’analisi di questi resti partì con una trentina d’anni di ritardo, deve essere stata compiuta all’incirca vent’anni fa. Evidentemente, non si aveva nessuna fretta di divulgare quanto era stato scoperto, e quando ci rendiamo conto di quello che è saltato fuori, capiamo bene il perché.

“Una prima scoperta rilevante, è stata osservare che le ossa dei crani, delle braccia, di quasi il 50% degli scheletri provenienti da Jebel Sahaba ( uno dei siti di cui è composto il cimitero), presentano innumerevoli segni di impatto di frecce, e che frammenti appuntiti di pietra selce ( usati per la testa della frecce) sono sparsi sopra e tutto attorno alle ossa: è evidente, questi sono scheletri di persone morte assassinate, a seguito di un attacco di arcieri.

E nelle ultimissime ricerche compiute dal British Museum, in collaborazione con scienziati francesi, si è visto che c’è anche di più: si è infatti dimostrato che si ci fu un vero e proprio conflitto su larga scala, che toccò un po’ tutta la costa orientale a sud del Nilo: durato molti mesi, e probabilmente anni. Non vi sono oramai dubbi di rilievo: quello trovato non è un “semplice” cimitero, è altresì testimonianza di un conflitto armato organizzato: è, in pratica, un cimitero di guerra, della prima guerra di cui si abbia notizia”.

Abbastanza sconvolgente, non vi pare? Quanto meno, ci impone di modificare radicalmente le nostre idee sulla guerra che non è, come ci si è sforzati di farci credere, un frutto tardivo e perverso di civiltà evolute, ma accompagna l’uomo fin dalla preistoria.

Come scrive l’autore del testo (che non è firmato):

Senz’altro l’aspetto più avvincente dello sviluppo di questa prima guerra della Storia, è come si palesi ancora una volta che la causa primigenia di guerra non sia, ad esempio, la brama di potere o di ricchezza, né tanto meno la presenza di confini, ma anzi, l’assenza stessa dei confini”.

L’interpretazione più canonica e ricorrente del fenomeno guerra, quella che ritroviamo esplicita o sottintesa praticamente in ogni testo di antropologia e sociologia, non è un’idea che si sia in qualche modo affermata a partire dalla ricerca scientifica, ma discende dai “magnanimi lombi” di Jean Jacques Rousseau, dai cascami dell’illuminismo.

“L’uomo nasce buono, la società lo corrompe”, è il celebre leitmotiv rousseauiano mille volte smentito dall’esperienza reale, e che pure continua a essere alla base del pensiero di sociologi e antropologi. La guerra, hanno mille volte argomentato costoro, è il frutto di società complesse, dove esistono la proprietà, soprattutto terriera, stratificazioni sociali, differenze nell’accesso alle risorse, quindi potere e ricchezza per alcuni e per conseguenza l’ambizione di conseguire l’uno e l’altra.

Il primitivo, l’uomo nello stato di natura che è ancora lontano da tutto questo, è per conseguenza pacifico e mite, istintivamente benevolo verso il prossimo, “il mito” che sembra inestirpabile del “buon selvaggio” che sta ancora oggi alla base di tanta antropologia culturale, tutta intesa a dimostrare quanto buoni e angelici siano i cosiddetti primitivi e quanto malvagi e corrotti siamo noi europei.

Già l’esperienza dei navigatori e degli esploratori del XVIII e del XIX secolo aveva dimostrato inequivocabilmente che tutto ciò è completamente falso: nonostante i paraocchi illuministi, costoro, da James Cook a David Livingstone, non hanno potuto fare a meno di registrare i frequenti furti di cui erano oggetto da parte dei nativi, la ferocia delle guerre tribali, i non infrequenti episodi di cannibalismo, ma quando ai paraocchi di Rousseau vengono a sommarsi quelli di Marx e quelli di Levi Stauss, la realtà perde ogni potere di penetrare nelle menti ottenebrate degli “scienziati”.

L’esperienza dimostra che i conflitti fra popolazioni di cacciatori-raccoglitori sono meno cruenti di quelli fra popolazioni agricole e stanziali semplicemente perché nel primo caso le popolazioni interessate sono demograficamente molto più rade, ma vale sempre la stessa regola: quando due popolazioni diverse competono per le stesse risorse, il conflitto anche violento è inevitabile. In più, molto più frequentemente di quanto oggi non si pensi, i “buoni selvaggi” che non hanno mai letto Rousseau, tendono a considerare i loro vicini una fonte di proteine, il cannibalismo di cui gli antropologi attuali parlano il meno possibile e sempre con imbarazzo e (simulato?) stupore, e che testimonianze recenti rivelano non essere per nulla scomparso dall’Africa subsahariana.

Se la storia documentata ci ha dato ampi esempi di ciò, quale motivo abbiamo di pensare che nella preistoria le cose andassero in maniera differente?

Un antropologo fuori dagli schemi, Melvin Harris, nel libro “Cannibali e re” ha ribaltato completamente la prospettiva con cui di solito i suoi colleghi, discepoli di Rousseau, di Marx, di Levi Strauss guardano a questi fenomeni, nel senso che secondo la sua teoria sarebbe stata proprio l’introduzione del tabù del cannibalismo a consentire il passaggio dall’organizzazione tribale a quella di società complesse. Non solo non si cacciano altri esseri umani come fonte di cibo, ma si rinuncia persino a divorare il nemico ucciso in battaglia, il che da un certo punto di vista può essere considerato uno spreco di proteine, perché il nemico vinto è più utile come schiavo o come vassallo che come pasto.

“Siamo venuti qui per portarvi la civiltà” suona meglio di “Siamo venuti qui per mangiarvi”.

L’aspetto più importante e quello che entra maggiormente in conflitto con l’ideologia democratica della scoperta avvenuta nella Valle del Nilo, però, è probabilmente un altro.

“Ma gli ultimi sviluppi di questa vicenda, hanno rivelato anche dell’altro. Ricerche parallele, compiute da università come la John Moores di Liverpool o la Tulane di New Orleans, si sono concentrate sopratutto sul comprendere chi fossero le vittime di quelle sepolture.

E il loro responso è chiaro: tutte le vittime sono parte di uno stesso ceppo razziale, assolutamente identificabile come progenitore dei neri sub-sahariani di oggi: tutto nell’analisi delle ossa del cranio, del bacino e degli arti corrisponde.

Ma chi furono allora i loro rivali, i nemici in quella grande e primordiale guerra? Ebbene, i ricercatori sono convinti che si trattasse senz’altro di genti di tutt’altro tipo; genti che a quel tempo erano situate in un po’ tutto il bacino del Mediterraneo; ovvero: caucasici, popolazioni progenitrici dei nordafricani autoctoni ( come i Berberi), ed in parte anche degli europei attuali. I resti stessi di popolazioni di tal tipo, vengono ritrovati a 200 miglia a sud del cimitero di Jabel Sahaba.

Fu allora guerra razziale, tra popolazioni che con ogni probabilità differivano oltre che geneticamente, anche nella cultura e nella lingua. Popolazioni che proprio nella zona settentrionale dell’odierno Sudan, per via della fertilità creata dal corso del Nilo, vennero a contatto.
Si può notare, quindi, come quella prima guerra fu l’anticamera degli scontri che in epoca storica videro da una parte gli egizi e dall’altra i nubiani”
.

Insomma, a quanto pare, gli sconfitti di questo scontro erano neri antenati dei subsahariani odierni, mentre i vincitori erano del ceppo caucasico nordafricano autoctono, quello che su basi linguistiche è identificato come camitico, a cui appartenevano Egizi e Numidi, e a cui appartengono oggi Berberi ed Egiziani copti.

Come giustamente osserva l’articolista:

Si potrebbe ad esempio notare, come già in epoca abbondantemente preistorica, le popolazioni caucasiche fossero tecnologicamente più progredite delle popolazione sub-sahariane. Sempre a memento che quale che sia la causa di questo divario, certo non è il colonialismo ( che ne è al più una delle conseguenze)”.

In altre parole – diciamolo pure – la democrazia ha sempre considerato la questione razziale girando volutamente il binocolo dalla parte sbagliata. Non sono le condizioni storiche, ambientali e culturali che hanno determinato l’arretratezza dell’Africa e delle popolazioni “nere”; queste ultime sono appunto nient’altro che conseguenze. Ne volete una riprova? Ce ne sono a pacchi, nonostante su di esse si sia esercitata da decenni una “democratica” operazione di “coverage” e censura. Ad esempio, la media del Q. I. degli afroamericani è 85, contro il valore di 100 delle popolazioni caucasiche. Che questo non sia dovuto a fattori culturali, sociali, ambientali, non è difficile da dimostrare. Gli ispanici di recente immigrazione riportano un valore ancora più basso: 80, ma appena andiamo a considerare le seconde e terze generazioni di immigrati, questo valore sale rapidamente allineandosi a quello della popolazione di origine anglosassone, mentre il dato degli afroamericani è assolutamente stabile. E non è tutto, perché questi ultimi hanno in realtà parecchio sangue “bianco”. Se ci spostiamo nell’Africa nera, si scende a un drammatico 70.

Non è ancora tutto. Avete osservato il piccolo particolare che i caduti dei due gruppi sono stati seppelliti in due siti, in due “cimiteri di guerra” a 200 miglia di distanza l’uno dall’altro? Se si è mantenuta una tale separazione per i morti, possiamo immaginare come stessero le cose tra i vivi.

Scopriamo così un’altra delle menzogne della democrazia. Quella di distinguere le persone in base a caratteristiche sia fisiche sia culturali, e di prediligere ciò che ci è affine, cioè il proprio gruppo di appartenenza, cioè quel che noi chiamiamo razzismo, non è un costrutto del colonialismo del XIX secolo né tanto meno un’invenzione del nazionalsocialismo del XX secolo, è una costante della mente umana e della storia umana. E leviamoci dalla testa l’idea – massima espressione delle mistificazioni democratiche – che sia un “peccato” nel quale indulgono solo i bianchi.

Come commenta l’articolista:

E’ insito nella natura umana fare gli interessi della propria gente, per mandare avanti il proprio patrimonio genetico e, non da meno, avere una terra in cui “sentirsi a casa”.

La verità è questa: una società multietnica quale quella che si è affermata negli Stati Uniti e che oggi attraverso l’immigrazione si vuole imporre anche da noi, è quanto di più artificioso e innaturale possa mai esistere, e richiede un prezzo enorme in termini di conflittualità interna e di violenza.

Come scrisse diversi anni fa Sergio Gozzoli in “L’incolmabile fossato”, uno stupendo saggio che ancora adesso è bene andare ogni tanto a rileggersi:

Le differenze di razza, di religione, di cultura creano sacche e compartimenti stagni. Ma non si tratta mai, come in altri Paesi multirazziali – India, URSS, Sud Africa – di grosse sacche e grossi compartimenti geograficamente ben delimitati: i loro confini dividono non gli Stati, le contee o i distretti, ma le città e i quartieri, talvolta i marciapiedi opposti della stessa strada. Ed essi non convivono l’uno accanto all’altro, ma piuttosto si sovrappongono l’uno sull’altro, coincidendo in tutto o in parte con un diverso status culturale ed economico.

Dai banchi di scuola agli uffici di collocamento, dalle relazioni sessuali alle carriere pubbliche, dai contatti interpersonali alle stratificazioni sociali, tutto subisce la pesante influenza dell’appartenenza all’uno o all’altro gruppo; e i rapporti son difficili e tesi, carichi di una incontenibile potenzialità di ricorrente violenza”.

Ed è esattamente quello che si sta sempre più verificando anche da noi, la tragica realtà che l’immigrazione ci porta ogni giorno di più in casa.

Non a caso, l’articolista conclude:

E non è rassicurante pensare che oggi, con l’esperimento “immigrazionista” e multirazziale in Europa, illudendosi che gli uomini siano intercambiabili si stiano creando premesse anche peggiori: gruppi etnici molto diversi, in territori sovrappopolati, e prossimi a carenza di risorse ( carenze denunciate, proprio negli ultimi giorni, anche da studi di rilievo compiuti presso l’Università di Cambridge).

I disordini etnici che già ad oggi hanno falcidiato diverse zone d’Europa ( a volte anche portandosi dietro non pochi morti), sono nulla rispetto a quello che con questo andamento, si scatenerà in futuro. Al confronto, la striscia di Gaza sembrerà il posto migliore in cui vivere”.

Una conclusione certamente non incoraggiante ma con la quale, alla luce dei dati di fatto, non è possibile non essere d’accordo.

 

Fabio Calabrese

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