13 Maggio 2024
Filosofia

Sull’Oblio dell’Essere – Flores Tovo

Il privilegio dell’uomo è che egli è l’unico ente che si interroga e pensa all’Essere. Questo “fatto” può indurre o all’autoesaltazione o alla depressione esistenziale, poiché, pensando, l’ente umano sa di pensare e sa indubitabilmente che la sua vita avrà fine con la morte. Il principio supremo su cui si fonda il nostro pensare è, come comprese per primo Parmenide, il principio di identità, in quanto è il principio logico-intuitivo più incondizionato, cioè privo di un qualsiasi contenuto empirico. Tale principio fu rivelato da questo venerando padre della filosofia con il detto oracolare “l’essere è”, che verrà poi espresso con la formula tradizionale A=A. In realtà tale formula è solo un corollario del principio originario, perché A=A significa che A è uguale ad un altro A, e quindi è condizionato da un altro A uguale. La vera formula è invece A è A, ossia che A è identico a se stesso. Martin Heidegger, in suo libretto “Identità e differenza”, chiarisce che fu Fichte ad affermare che la formula più conforme al significato profondo del principio di identità è “con lo stesso lo stesso è lo stesso” (Io=Io). In altre parole ciò significa che colui che pensa a sé, si accorge di pensare pensando a se stesso. L‘identità è rivolta verso se stessi, a differenza dell’uguaglianza che è rivolto ad altro. Col principio di identità vi è la “scoperta” dell’Autocoscienza: il pensiero sa di pensare. Kierkegaard forse scrisse la più sintetica e illuminante definizione del concetto di Autocoscienza, e cioè che l’io “…è un rapporto che si rapporta a se stesso; è, nel rapporto, l’orientamento interno di questo stesso rapporto. L’io non è rapporto, è il ritorno su se stesso del rapporto” (1) .

Questo rapporto implica che l’ente umano, come ente pensante, ”entra” in una relazione che Heidegger chiamerà di “coappartenenza” (Zusammengoerigkeit) con l’ Essere. Scrive il filosofo:

L’essere non è presente per l’uomo né occasionalmente né eccezionalmente: esso è essenzialmente e durevolmente solo nella misura in cui, tramite il suo appello, ri-guarda (an-geht) l’uomo. Infatti soltanto l’uomo, aperto all’essere, lo lascia advenire (ankommen) in quanto essenzialmente presente. Tale essere essenzialmente presente ha bisogno dell’aperto di una radura (Lichtung) e in virtù di tale bisogno rimane affidato … all’essere umano. Il che però non significa affatto che l’essere sia posto solo e anzitutto tramite l’uomo. Al contrario, risulta evidente che l’uomo e l’essere sono affidati l’uno all’altro, appartengono l’uno all’altro” (2).

Heidegger comprese, sin dalla stesura del suo capolavoro “Essere e tempo”, che la caratteristica fondamentale dell’uomo era perciò quella di co-appartenere all’Essere. L‘Essere inteso non come un ente, ma come ciò che entifica gli enti permettendo loro di vivere e di essere visibili. L’Essere non è Dio e quindi non è l’Essere supremo, ma è, come ben sottolineava Guènon in quasi tutte le sue opere di metafisica, il principio della manifestazione per cui gli enti si rivelano. In quanto tale l’Essere è un principio finito, poichè nonostante il numero indefinito degli enti manifestati, la somma di enti finiti non darà mai l’infinito metafisico. L‘Essere è appunto “Lichtung”, la radura luminosa, la manifestazione rivelata degli enti. L’uomo in questa rivelazione diventa un Esserci (Dasein).La coappartenenza consiste proprio in questo. “L’esistenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza” scriveva Heidegger in “Essere e tempo”, (3). E’ chiaro che per il filosofo prima viene il “sum” e poi il “cogito”, come però è chiaro che senza il pensare l’Esserci non saprebbe di esserci. Esistenza significa etimologicamente ex-sistere, stare venendo da, quindi l‘esistenza umana viene dall’Essere che entificandosi acconsente il nostro singolo apparire. In questo senso l’uomo appartiene all’Essere. E l‘Essere, a sua volta, è riferito all‘uomo stesso in quanto gli dà la possibilità di pensarlo. L’Essere si autocostituisce solo in relazione all’uomo. Scrive ancora Heidegger: “Il mondo non può essere ciò che è e come è, grazie all’uomo, ma neppure senza l’uomo… l’”essere” ha bisogno dell’uomo, dal fatto cioè che l‘essere non è essere se l’uomo non viene usato per la sua rivelazione, salvaguardia e configurazione” (4).

Certo è che permane la differenza ontologica fra Essere e uomo, poiché l’Essere non è un ente, ma il principio che entifica gli enti, la loro luce ed orizzonte, sebbene l’esserci possieda il privilegio della coappartenenza, che originariamente è un “dono”.

Heidegger ripropone in realtà con termini e concetti diversi l‘antica e fondamentale distinzione fra “Sé” ed “Io” propria della filosofia vedantica, in cui il Sé è il principio stesso dell’essere e l’Io è l’io individuale (si veda a proposito l’illuminante capitolo di Guènon ne suo libro “L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, ed. Adelhi, Milano).

Tuttavia lo scopo di questo scritto è un altro: ossia quello di rilevare l’estrema drammaticità del rapporto Essere ed esserci in questa realtà storica attuale. Sempre Heidegger riteneva che la storia della metafisica in Occidente abbia comportato quell’evento epocale che egli ha definito come “l‘oblio dell’essere” (Seinvergessenheit). Si potrebbe discutere a lungo se tale evento abbia avuto a sua prima espressione filosofica con Platone, a cui Heidegger imputa la “colpa” di avere stravolto il concetto antico di verità, che prima era intesa come alètheia (disvelamento) in cui la differenza ontologica era evidente, in quanto la verità era comunque un rivelazione “generosa” dell’Essere. Platone invece riteneva che l‘uomo (il filosofo) fosse in grado di conoscere la verità nella sua interezza, dando inizio ad una veduta antropocentrica in cui dell’Essere alla fine non rimane niente (si veda la decisiva, a parer mio, “Lettera sull’umanesimo” di Heidegger).

Resta il fatto che, al di là di tutte le possibili divagazioni teoriche sull’argomento, il concetto di “oblio dell’essere” è la cifra fondamentale del nostro tempo, poiché la strada che l’umanità ha imboccato è quella della follia e del delirio, due stati d’animo che nascono inevitabilmente dallo smarrimento e dalla perdita di quel rapporto privilegiato fra Essere ed esserci, che il poeta Hoerderlin chiamava “fuga degli dei dal mondo” e Nietzsche “la morte di dio”.

Gli effetti di questa cifra sono sotto gli occhi di tutte quelle persone che non hanno ancora perso il lume della ragione.

Se si dà poi alla parola essere un significato più ampio, estendendolo ad una dimensione ontologico-sociale, “…poiché l’Essere parla sempre e comunque in modo conforme al destino, quindi intriso di tradizione” (5), si può affermare che l’Essere è da intendersi sia come Comunità in cui gli io individuali si ritrovano all’interno del proprio stato politico, sia come Natura, nel significato originario di physis, cioè di natura vivente, pervasa da un flusso divino. In effetti questo doppio intendimento della parola Essere trova conferma indiretta quel insieme di modi di essere dell’Essere (Existenzialien) nei confronti dell’esserci, che Heidegger definiva nella sua totalità Cura (Sorge), e che si attuava soprattutto nel suo essere-con-gli altri ed essere-nel-mondo. La coappartenenza è proprio questo: vivere nella comunità e nel mondo sia nel dire che nel fare. Che poi è il vivere la propria storicità.

La comunità non è un generico popolo, né una massa informe. La comunità è un insieme di individui che diventano persone, in quanto ogni individuo opera in conformità alle proprie attitudini acquisendo quindi una personalità che lo distingue, in quanto un bravo falegname può essere più felice e stimabile di un cattivo re. Nel modo moderno a dissoluzione del senso comunitario ha avuto diversi momenti, che va dalla distruzione dei “campi aperti” (open fields) in Inghilterra nel 1500-1600 e con l’avvento della rivoluzione industriale che impose l’abolizione di ogni associazione di mestiere o corporazione. Il culmine della dissoluzione dello stato comunitario si ebbe poi con la legge Le Chapelier, che il 14 giugno del 1791 venne approvata dalla Assemblea legislativa di Parigi. Tale legge prevedeva la soppressione delle associazioni di mestiere di qualsiasi ordine e grado, istituendo il libero mercato del lavoro, che in realtà toglieva ai lavoratori qualsiasi diritto, diventando quella che Marx chiamerà più tardi la merce-lavoro. Si può aggiungere che a riduzione in semischiavitù si sta concludendo solo oggi, nell’epoca del capitalismo assoluto finanziario e che trova la sua massima espressione in leggi come il “Jobs act” che stabilisce il lavoro precario a vita, provocando la sottomissione psicologica permanente dei lavoratori. Pure gli stessi lavoratori autonomi, che una volta venivano definiti nella loro generalità piccola borghesia, di fatto sono alla mercè di una “deregulation” mondiale che li ha travolti rendendoli i più precari dei precari. La persona viene annientata e rimane l’individuo “… concepito solo come una unità atomica, come puro numero nel regno della quantità” (6).

Lo stesso rapporto di rottura-allontanamento lo si nota con ancor maggior evidenza nei confronti della natura-physis. A partire da Cartesio la natura veniva spogliata di qualsiasi forma spirituale e veniva compresa come “res exstensa”, pura estensione geometrica, conoscibile solo quantitativamente. E’ noto che egli considerava gli animali come automi meccanici, salvando solo l’uomo perché questi possedeva la “res cogitans”, sostanza pensante completamente separata dalla materia. Un dualismo materia-spirito che egli cercò di superare con la ridicola teoria della ghiandola pineale. Dopo di lui Galilei, Newton (sebbene questi privatamente fosse un mago), Voltaire, Kant, fino ad arrivare ad Einstein hanno concepito la natura come un orologio meccanico. Il trionfo di una veduta fisico-matematica che si è perfettamente innestata con la volontà di potenza dei capitalisti che attraverso il connubio denaro-tecnica hanno imposto e si sono fatti imporre quel Dispositivo o Impianto (il Das Gestell heideggeriano) che ha comportato una formidabile violenza contro la natura, semplicemente ai fini del profitto. Del resto su questa tematica si sono ormai scritti centinaia di libri.

Questi due eventi epocali, la distruzione della comunità e l’eclisse del sacralità della natura, rappresentano il vero dramma del rapporto Essere-esserci. Il dramma più terribile di tutta la breve storia umana. Terribile perché poiché esso rivela un fortissimo senso della paura a causa della minaccia reale in atto, e perché nel contempo non si sa quando l’irreparabile avverrà. L’Essere ha avuto bisogno, un bisogno necessario, affinchè un ente, l’ente umano, lo pensasse e lo custodisse. Questo evento-appropriazione ha costituito la coappartenenza. Tale rapporto sta declinando sempre più. Ci si sta avvicinando ad un’epoca in cui “…la necessità dell’essere diventa la necessità dell’assenza di necessità” (7).

Questo significa che nessun dio ci potrà salvare, poiché il divino si rivela solo all’interno dell’Essere, ed è evidente che se l’Essere non “avverte” più la necessità di palesarsi all’esserci, il destino umano è segnato: follia e perdizione. La fuga degli dei sta diventando una fuga senza ritorno. Il bello è morto, la verità è scomparsa, l’avidità vorace e animalesca domina. E’ il pianeta, il nostro, delle scimmie impazzite. Otto miliardi di scimmie impazzite.

NOTE

  1. S.KIERKEGAARD, La malattia mortale, sta in “Opere”, p. 625, Sansoni ed., Milano.
  2. M.HEIDEGGER, Identità e differenza, p.38 ed. Adelphi, Milano.
  3. M.HEIDEGGER, Essere e tempo, p.64. ed. Longanesi, Milano.
  4. M.HEIDEGGER, Il colloquio di “Der Spiegel” con Martin Heidegger, p.124, Guida ed., Napoli.
  5. M.HEIDEGGER, Identità, cit., p. 65.
  6. Si veda il capitolo di J. EVOLA,”Personalità, libertà, gerarchia”, pp.45-64, che sta in “Uomini e rovine”, ed. G.VOLPE, Roma.
  7. M.HEIDEGGER, Nietzsche, p.856, Adelphi ed. Milano.

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