18 Luglio 2024
Filosofia politica

Senso dello Stato e sua evanescenza – Enzo Caprioli

Introduzione

 L’Europa ha subito dalla metà del novecento in poi un’involuzione ambientale, politico-culturale e identitaria di tali proporzioni da non permettere più alle nuove generazioni di guardare al futuro con fiducia. Ristabilire una concatenazione logica tra le fasi di trasformazione sociale che il nostro continente e buona parte del mondo hanno subito serve a neutralizzare il veleno ideologico proveniente da oltreoceano. Un veleno che ancora ci fa apparire quasi “normale” la devastazione su scala planetaria degli ambienti naturali e lo svuotamento concettuale di ciò che, in varie epoche storiche, ha garantito la sussistenza di collettività omogenee in relativo equilibrio col territorio: lo Stato.

 

Sudditanza psicologica e conseguenze

 L’Italia è storicamente uno dei Paesi europei nei quali il senso dello Stato è particolarmente regredito; cercherò di darne una lettura psico-sociale. Nell’immediato dopoguerra molti italiani, ad esempio, hanno permesso che i propri figli fossero disinfestati dai pidocchi con generose aspersioni sul corpo di DDT in polvere americano. Sostanza che si dimostrerà molti anni dopo cancerogena, mutagena e persistente, capace di annidarsi nel tessuto adiposo rimanendovi a tempo indeterminato[1]. Questo uso va inquadrato nel clima umorale nel quale la fine della guerra coincideva con la presenza di truppe alleate. Prima le bombe a pioggia, la distruzione, i lutti… poi l’accettazione, da quegli stessi militari che ne furono artefici, del DDT, del cioccolato, di sigarette, musica, pellicole cinematografiche e quant’altro. Non è affatto strano che il popolo italico, sotto l’influenza nordamericana, abbia progressivamente intaccato il senso di appartenenza etnico-culturale, finendo con l

o sviluppare politiche contrarie agli interessi del gruppo di appartenenza, che è anche interesse familiare ed individuale. La perdita di identità e di scopi ha toccato l’intera Europa. É tuttavia necessaria una distinzione: i popoli dell’est (oggi gruppo di Visegrád), che hanno avuto come oppressore l’Unione sovietica, apprezzano l’autodeterminazione dimostrandosi più capaci di perseguire il proprio interesse collettivo. L’Europa occidentale deve ancora rielaborare il suo vissuto, compresa la Germania, che ha subito una punizione estrema; basti pensare alla divisione del territorio in due aree di influenza o alla distruzione di Dresda a guerra finita con bombe incendiarie e relativo massacro dei civili. C’è però un vantaggio psicologico per i tedeschi: nessun cittadino può aver pensato di esser stato “liberato” o comunque beneficiato dalle forze armate alleate. Tornando al DDT e all’atteggiamento divertito di quelle mamme coi loro bambini “infarinati”, si intuisce la manipolazione coscienziale che molti italiani subirono senza accorgersene. Accogliere l’invasore prendendo doni dalle sue mani lorde di sangue è qualcosa che stravolge la percezione di sé, della collettività e dello Stato; è una celebrazione di sudditanza con effetti a lungo termine incontrollabili.

Nell’Italia del dopoguerra la dissoluzione del senso dello Stato ha avuto andamento costante e progressivo, direi sino ai nostri giorni. Va invece considerato diversamente sia lo straordinario spostamento dell’elettorato avvenuto con le ultime elezioni politiche e che ha reso possibile il governo Lega-Cinque Stelle, sia il risultato alle ultime elezioni regionali in Umbria, pur in un quadro istituzionale ribaltato. Entrambe le consultazioni dimostrano esserci un chiaro intento di restaurazione tra gli italiani, che si traduce nella volontà che lo Stato torni ad esercitare almeno in parte il suo ruolo. L’identificazione collettiva nello Stato è ancora di là da venire per come è stata sentita nel passato, ma analizzando i temi politici più aggreganti emergono: il rifiuto di uno Stato che non riconosce la popolazione autoctona e che addirittura la sfavorisce, la speranza che lo Stato torni ad occuparsi del reddito degli italiani e della dignità del loro lavoro (umiliato dalle delocalizzazioni e dalla precarizzazione). Tutto questo coincide con la sconfitta delle preclusioni antinazionaliste, che in modo così pregiudizievole hanno condizionato tutta la politica italiana del dopoguerra; preclusioni divenute vera propria avversione antinazionale, ossia misconoscimento dell’identità etnico-culturale tout court. Il Movimento 5 Stelle, pur oggi al governo con Pd e Leu, si dichiara non di destra né di sinistra e in più occasioni ha preso le distanze dalla fobia antinazionale. Forza Italia ha potuto a più riprese governare solo per aver sdoganato un partito che accoglieva nostalgici (Alleanza Nazionale) e Fratelli d’Italia è rinata dalle ceneri di AN. La Lega oggi appare capofila delle istanze sovraniste. Tutte queste forze assieme oggi rappresentano la gran parte degli italiani, che hanno con maggiore o minore consapevolezza cortocircuitato la retorica suicida, complice della conversione in semplice mercato e luogo di immigrazione di ciò che un tempo era Patria. Una minoranza ormai di confusi continuerà a voler demolire questo Paese; farebbero soltanto pena se non fosse per l’appoggio che ricevono massicciamente dall’alta finanza internazionale, con le sue agenzie di stampa, giornali, televisioni e reti di potere consolidate a livello mondiale. Non sono i poveri di spirito nostrani a dover impensierirci ma l’insistenza dei poteri forti nell’intento di svuotare di ogni significato il concetto stesso di collettività omogenea e coesa (con un proprio territorio, una storia, una cultura, uno Stato sovrano).

 

 Idee contro lo Stato

Per dimostrare quanto il plagio post bellico abbia intaccato il senso di appartenenza sociale portando molta gente a pensare e ad agire contro i propri stessi interessi, mi è utile citare uno dei massimi filosofi dell’illuminismo: Voltaire (François-Marie Arouet). Il suo pensiero ha anticipato il razionalismo materialista, sebbene egli fosse credente; il suo Dio era estraneo alle religioni istituzionalizzate ricoprendo il ruolo di sommo architetto dell’universo. L’illuminismo, di cui Voltaire è esponente atipico, ha avuto vaste e non esaurite conseguenze storiche[2]. In particolare il relativismo morale, che di Voltaire è forse l’espressione più caratteristica, ebbe storicamente sviluppi in varie direzioni, certo non tutte positive. Le conseguenze del pensiero volteriano vanno però dissociate dalla sua personale visione del mondo e per capire in cosa egli credesse, ossia cosa rimanga dopo l’applicazione del suo relativismo morale, ci è utile recuperare un brano dal “Trattato di metafisica”, capitolo 9: “è talmente vero che il bene della società è l’unica misura del bene e del male morale che noi siamo costretti a modificare, a seconda delle occorrenze, tutte le idee che ci siamo formate intorno al giusto e all’ingiusto. Noi proviamo un senso di orrore per un padre che giaccia con la figlia e stigmatizziamo ugualmente col nome di incestuoso il fratello che abusi di una sorella; ma, in una colonia nascente dove non ci siano che un padre con un figlio e due figlie, considereremo una buona azione la sollecitudine di quella famiglia di non lasciar perire la specie. Un uomo che uccida suo fratello è un mostro; ma chi non avesse altro mezzo per salvare la propria patria fuorché di sacrificare il proprio fratello sarebbe un uomo divino”. Il ragionamento di cui sopra antepone l’interesse collettivo, per l’autore utilità collettiva, a ciò che egli considera sommamente prezioso, ossia il legame tra consanguinei ed i tabù relativi. La sua è percezione naturalistica del mondo, nella quale senso ed utilità biologica devono coincidere. Ancora non era stata formulata una teoria organica dell’evoluzione, tanto meno i ragionamenti socio-biologici che dimostrano quanto i comportamenti altruistici animali abbiano una precisa base genetica (dettati dal sangue quindi); tuttavia l’alveo nel quale scorrono i suoi ragionamenti è questo. Non ha senso per lui la rigidità dei precetti biblici, avulsi dalla storia, che è anzitutto situazione contingente nella quale dovrebbero essere applicati; ha invece senso soppesare ogni posta in gioco. La sua libertà di pensiero gli consente di trarre conclusioni inattese, seppur ancorate ad alcuni principi fondanti. Il concetto di relatività dei costumi e delle leggi era già stato posto al centro della riflessione morale dai sofisti greci del V° secolo a.C., poi trattato da alcuni autori del cinquecento e del seicento, tra i quali M. de Montaigne, P. Charron, J. Locke e P. Bayle. La posizione espressa dal brano riportato dimostra quanto fosse indiscussa ai tempi di Voltaire la sacralità della Patria, persino per colui che più di chiunque altro era intellettualmente impegnato a desacralizzare e relativizzare.

L’illuminismo e la rivoluzione francese, che del primo fu in parte conseguenza, assestarono durissimi colpi non tanto al concetto di Patria bensì a quello di autorità. Il bisogno però del popolo di riconoscersi in un capo, ossia qualcuno che incarnasse lo Stato, creò le condizioni per l’ascesa di Napoleone Bonaparte. Questi poteva contare sull’abnegazione di ufficiali e soldati, disposti a rischiare la vita per lui in battaglie sanguinosissime[3]. Fu la rivoluzione di ottobre in Russia ad assestare invece colpi mortali al sentimento patriottico. Il marxismo-leninismo propugnava lo scontro definitivo tra classi sociali, alimentando a tal punto l’antagonismo tra compatrioti da svuotare di contenuto il concetto stesso di collettività nazionale. Il marxismo rispondeva anzitutto alla logica ebraica di vedere il nemico proprio nel senso di appartenenza etnica di ciascun popolo ed al quale le varie comunità ebraiche imputavano la discriminazione cui spesso erano fatte oggetto. Il marxismo ha funzionato come autentico grimaldello concettuale, per violare il tabernacolo dell’appartenenza etnica e delegittimare l’ordine costituito in ogni angolo del pianeta. La rivoluzione bolscevica realizzò inizialmente la presa del potere ad opera di un’elite ebraica, che poi assunse la fisionomia di burocrazia partitica oppressiva che imponeva ordine col terrore. La situazione in Russia finì col favorire l’ascesa di Stalin (alias Iosif Vissarionovič Džugašvili), persona giusta per non far deflagrare la nuova entità sovietica in quanto privo di alcuno scrupolo e paranoico al punto da diffidare di chiunque, figli compresi. Quando le divisioni tedesche sferrarono il loro attacco raggiungendo rapidamente il cuore del territorio sovietico, Stalin dovette adottare una retorica desueta: fu proprio il senso di appartenenza etnica dei russi a salvare il regime, quello spirito patriottico già evocato dagli zar a cui il capo comunista dovette ricorrere per motivare i soldati, stimolare la loro dignità e capacità reattiva. La Russia odierna è in parte guarita dal classismo comunista, con Vladimir Putin il senso di appartenenza etnica ha recuperato ed è stato superato il crollo economico-organizzativo e la destabilizzazione che rischiava di tradursi in sottomissione all’impero americano. La Cina di Xi Jinping è regredita ancor meno in fatto di coesione etnica e senso dello Stato; c’è riluttanza in questi asiatici a mescolarsi con altre etnie[4]. Ciò lo si deve anche al fatto che il loro comunismo sia stato più cinese che cosmopolita e che Mao Tse-tung abbia ambito essere padre del suo popolo e non dei comunisti di tutto il mondo. Comunismo sovietico e capitalismo atlantico hanno in modi diversi desacralizzato la Patria ma è il neocolonialismo mercantile[5] introdotto dagli americani ad aver dilagato ovunque, anche nel mondo post comunista. Ad oggi le due ideologie non appaiono opposte bensì complementari e utili al meta-scopo di distruggere le collettività omogenee. Nel complesso entrambe hanno finito col rendere lo Stato una mero garante del mercato, ostaggio della grande finanza.

Il crollo del ponte Morandi

Questo episodio tragico e paradossale si presta particolarmente a valutare come sia in Italia la percezione dello Stato; al riguardo è interessante citare l’intervento dell’allora garante dell’anticorruzione (presidente ANAC) Raffaele Cantone[6]. Egli, a proposito del crollo del ponte autostradale di Genova, afferma: “Anche lo stato è responsabile… nel crollo ci sono responsabilità omissive… gran parte dei poteri è stata delegata al concessionario (società Autostrade per l’Italia) ma non vuol dire che l’autorità pubblica può disinteressarsi dei controlli….”. Forse Cantone non valuta che creare confusione a proposito di responsabilità penale e civile e responsabilità politica possa far male al Paese. La società che ha in concessione un bene pubblico, qualunque esso sia, ne deve essere responsabile in toto, fatti salvi quegli eventi eccezionali (terremoti, inondazioni, tornado…) di cui neppure lo Stato è colpevole. Un ponte che crolla in concomitanza di pioggia implica un dolo più che evidente da parte di chi lo ha in gestione. Le gravi responsabilità del gestore e dei dirigenti preposti a manutenzione e controllo del tratto autostradale coinvolto stanno emergendo nei dettagli in sede giudiziaria; tuttavia la revoca delle concessioni appare poco probabile.

Tornando all’intervista di Cantone, lui stesso ammette che il decreto “sblocca Italia” del governo Renzi, con cui tra l’altro si prorogava di molto la concessione ad Autostrade per l’Italia senza contropartite (per lo meno ufficiali ed a vantaggio collettivo) neppure sul fronte delicatissimo della sicurezza (come si evince dai fatti) sia stato un blitz in parlamento. Più avanti Cantone afferma: “Si è stratificato un inaccettabile livello di appropriazione di beni pubblici. Un buco nero in un campo cruciale della vita democratica”. A questo punto ci si aspetterebbe una decisa apertura verso la nazionalizzazione, ma il lettore deve accontentarsi di una constatazione “Un carrozzone in perdita è diventato, dopo la privatizzazione, una gallina dalle uova d’oro”. Questa conclusione molto efficace implica una valutazione prettamente storico-politica, le cui logiche conclusioni condannano senza appello un’intera classe partitica che per più di mezzo secolo ha dissipato ricchezze che appartenevano a tutti.

L’opinione di Cantone è interessante anche perché lui si è appena dimesso dalla carica di garante, tornandosene in Magistratura e riconoscendo implicitamente che non si è potuto  garantire granché né col precedente governo (considerate le molte polemiche) né tanto meno con quello attuale; ma forse il problema della corruzione esula dalle funzioni di un “garante” e va concettualizzato ben diversamente rispetto all’esistenza di una struttura di controllo dedicata, costosa e non eletta dai cittadini.

Ancor prima di Carlo Azeglio Ciampi e Romano Prodi, campioni nella dismissione di beni pubblici, era stato mal gestito e distrutto di tutto e di più, per quanto attiene a società pubbliche o partecipate. La corruzione è stata certamente una concausa di questo sfascio ma il vero nodo è quello ideologico: quale concezione politica tutela effettivamente gli interessi pubblici e, ad oggi, esiste un senso dello Stato che permetta non solo a singoli amministratori ma a tutta la collettività di percepire e sostenere il pubblico interesse? A giudicare dall’esercizio (operato in primis da certa stampa, certa magistratura e certo sindacato) di addossare ogni possibile responsabilità agli enti pubblici ed allo Stato in particolare, c’è da dubitarne. Taluni si adoperano attivamente per mettere il cittadino sistematicamente contro lo Stato, soprattutto in termini rivendicativi, sindacalizzando il rapporto tra collettività ed autorità. Questa operazione di sabotaggio è particolarmente accentuata quando a rappresentare le istituzioni sono soggetti sgraditi alla cosiddetta sinistra, che oggi sopravvive nella versione radical chic e che opera protetta dai poteri forti. Per quanto riguarda le nazionalizzazioni, questa è in prospettiva la via per ristabilire ordine economico, funzionalità dei servizi e rendite pubbliche. Tuttavia in questa condizione di assoluto degrado a gestire enti pubblici sarebbero ancora persone suggerite dalle lobby ed esposte al capriccio di molteplici poteri parzialmente sovrapposti: i giudici, i TAR, le banche, i garanti…[7] Per rafforzare il concetto citerei ancora una volta proprio Cantone, il quale correttamente afferma nella sua intervista: “Servono regole chiare. L’ambiguità sulle competenze è disastrosa: tutti si sentono autorizzati a non fare niente”.

Siamo purtroppo lontanissimi dalla condizione che, negli anni trenta, permise a Benito Mussolini di creare Iri e Imi, salvando molte aziende e rilanciando interi settori. Nessuno ricorda più i tecnici di alto profilo Alberto Beneduce e Donato Minichella, né i tantissimi dirigenti, funzionari e operai che operavano con entusiasmo sentendosi parte di un tutto. Queste nazionalizzazioni non sarebbero state possibili se contemporaneamente non fosse stata riformata la Banca d’Italia, trasformata nel prestatore di ultima istanza per le banche di credito ordinario, divenute di interesse generale.

Ciò che fece il regime fu molto efficace, non però quanto lo fu ciò che avvenne in Germania dal 1933 al ’39, che trasformò un Paese letteralmente alla rovina in una delle più organizzate e prospere nazioni del mondo. Ciò va riconosciuto, indipendentemente da qualsiasi giudizio storico-politico sui nazionalismi. Nessun ricercatore che abbia perspicacia ed obiettività può misconoscere l’assoluta criticità che l’aspetto psicosociale esercita su fenomeni complessi, come ad esempio la nazionalizzazione. Se i cittadini si sentono parte di uno Stato, se ne condividono gli orientamenti gestionali tutto è più semplice, la corruzione limitata, la forza contrattuale dello Stato nei confronti dei soggetti economici privati aumenta a dismisura. Fu infatti dal dopoguerra che l’Iri operò salvataggi industriali inopportuni e mal gestiti; in un periodo che qualcuno ancora si ostina a definire di “miracolo economico” (1960-1985). Furono gli anni nei quali l’Iri passò da 257.000 dipendenti a 484.000; questa dilatazione avvenne perché i partiti al potere dovevano creare o mantenere consensi e lo fecero attraverso l’assunzione di dipendenti pubblici. Un tipo di Stato recuperava spazi di discrezionalità e riorganizzava il tessuto sociale, un altro tipo di stato si addossava oneri economici insostenibili, si ingraziava i privati con regalie e alla fine ha dismesso ciò che era divenuto concausa di debito pubblico. Tutto ciò si è tradotto nel far perdere al Paese settori strategici, passati al capitale cosmopolita. Dopo gli ulteriori danni avvenuti negli anni’ 90 e duemila, il luogo comune più consolidato in politica è che lo stato gestisca male ciò che il privato fa rendere, ma la domanda da porre è: quale collettività sta esprimendo lo Stato? E di che Stato si tratta? Anche le vicende dell’ex Ilva a Taranto sollevano nuovamente il tema nazionalizzazioni; va ricordato che questa azienda ha ricevuto per oltre dieci volte soldi pubblici che avrebbero dovuto “salvarla”. Si può immaginare che nelle attuali condizioni storico-culturali e con questo governo in particolare si possa percorrere questa strada con vantaggio collettivo? Il problema dei tarantini attualmente è quello di dover scegliere tra morire di cancro con la pancia piena o non sapere come sbarcare il lunario. Unica certezza, per ora, è che lo Stato sborserà soldi a fronte di garanzie relative; il caso Alitalia docet.

Stato e partitocrazia

Sui resti dell’Europa, che sino al dopoguerra è stata l’area politica della civiltà in senso lato, si è insediata la decadenza. Decadenza ambientale innanzitutto[8] ma anche etnica, culturale, scientifica, economica, morale e politica. La politica europea è anzi in anamorfosi, ossia non se ne riconosce una fisionomia funzionale agli interessi europei; essa ci appare come mero controllo burocratico di una collettività costituita da semplici consumatori. A fronte di corruzione, inefficienza, spreco e incapacità ad affrontare l’emergenza (ambiente, lavoro, competitività) rimane d’obbligo la partitocrazia, declinazione moderna del principio democratico.

I partiti devono anzitutto sopravvivere, pena il fallimento di coloro che in essi hanno investito tempo, risorse e immagine personale. Il partito antepone quindi la propria logica di sopravvivenza alla sopravvivenza e benessere della collettività nel suo complesso. Tale prevaricazione fa inevitabili e costossissimi danni. Ogni servizio erogato dallo Stato, prima di essere utile al cittadino, deve portare acqua ad una fazione partitica. In questo sistema di alimentazione delle fazioni sono coinvolti non solo ministri, sottosegretari, alti dirigenti, presidenti di enti vari ma anche quadri e semplici funzionari, che devono comunque rispondere a gerarchie a volte neppure esplicite. La spartizione tocca tutti gli ambiti della pubblica amministrazione: dalle aziende partecipate, alle forze armate, alla magistratura, all’informazione pubblica e privata[9].

I partiti dell’odierna democrazia svolgono il ruolo una volta ricoperto dalla nobiltà peggiore: usufruire di privilegi e distribuire privilegi. Nel fare questo condizionano e ostacolano il governo, che di fatto non governa perché costretto a mediazioni e compromessi continui. In sintesi i partiti occupano il potere senza mai ambire ad essere Stato. Il potere reale in ogni caso è altrove, in una dimensione dalla quale la democrazia è totalmente esclusa. Le grandi banche d’affari, le multinazionali ed ogni altro tipo di concentrazione del potere economico sono gestite da un consiglio di amministrazione presieduto da un manager con poteri effettivi, a sua volta controllato dal maggiore azionista. Chi detiene la maggioranza di quote societarie governa e lo fa con maggiore arbitrio di quanto non fosse in grado di fare il Re Sole nella Francia del secolo diciottesimo. Il leader cinese Xi Jinping ebbe a dire, in uno scambio pubblico con Donand Trump, poco dopo il suo insediamento alla presidenza Usa, che otto famiglie (non alcune ma esattamente otto) controllano la gran parte delle ricchezze mondiali e stigmatizzava questa anomalia. Le grandi ricchezze mondiali vengono infatti trasmesse per via dinastica e, come per la mafia, è la famiglia a rappresentare l’ambito protetto nel quale si consumano i destini della società. Poche famiglie detengono il controllo non democratico di immense ricchezze condizionando anzitutto il sistema monetario e, a cascata, le collettività nazionali ormai ridotte a mercati. Se immaginiamo per un attimo quanto sia oggi difficile, entro un cosiddetto regime democratico, addivenire ad una qualsiasi forma di rapida e coraggiosa decisione, si capisce quanto lo Stato sia enormemente svantaggiato rispetto ad entità (le società private) nelle quali l’autorità è ben definita, molto circoscritta ed assolutamente riconosciuta da tutti coloro che in esse vi operano. Questo enorme vantaggio è forse la prima causa dello strapotere del denaro sulla politica, uno strapotere talmente macroscopico da aver reso la competizione tra grandi società private e gli stati perdente per quest’ultimi già in partenza.

L’epoca nella quale la democrazia costituiva un mito indiscusso sta tramontando; declino determinato non dai detrattori della democrazia, rari in verità, bensì proprio da coloro che la applicano[10]. Potrà rinascere la civiltà europea prima che tramonti il mito democratico, per come è stato interpretato ed applicato? I popoli, ormai pochissimi, che non hanno conosciuto la democrazia parlamentare possono ancora desiderarla; quelli che invece ne stanno subendo gli effetti da tempo sono esausti, pur senza poter scegliere altro. Dopo la vittoria militare degli alleati in Europa, è stato imposto con forza il luogo comune che la peggior democrazia fosse comunque meglio di altri sistemi, sommariamente riuniti nel concetto di dittatura[11]. É stato quindi con protervia rifiutato qualsivoglia dibattito circa le modalità più consone perché gli aneliti di un Popolo trovassero adeguati interpreti; il sistema farraginoso delle democrazie parlamentari era intoccabile ed ogni deviazione da esso guardata col massimo sospetto. Democrazia quindi come “meno peggio” obbligatorio; questa soluzione risulta oggi parimenti gradita alle grandi lobby economiche, ai partitocrati (coloro che col sottogoverno partitico ci campano) ed ai conformisti. Questi ultimi sono comuni cittadini che il sistema protegge, tanto da lasciar loro un residuale benessere economico, sempre meno in prospettiva. Chi invece versa già oggi in difficoltà, per salvarsi deve guardare altrove. La democrazia parlamentare e partitica è in sostanza il miglior brodo di cultura per il grande capitale, oggi sempre meno produttivo e sempre più speculativo. Il sistema impedisce la distinzione netta, già formulata da Saint-Simon, tra capitalista che non partecipa al processo produttivo e produttore. Se il secondo svolge una qualche funzione sociale, il primo è totalmente estraneo alla comunità e la sua funzione, valutata da ogni possibile angolatura, non può che essere definita come parassitaria. Purtroppo la democrazia ha reso il capitale non produttivo autentico dominus del mondo moderno, con tutte le più tragiche conseguenze possibili. Tutto il capitalismo ha in verità valenze antagoniste rispetto alla politica, infatti occorre porre limiti giuridici alla sua dimensione ed alla sua discrezionalità in favore dello Stato. La storia ci ha insegnato che negare la proprietà privata tout court soffoca la capacità sociale di intraprendere attività ed impedisce il benessere delle persone, a qualunque classe appartengano o siano appartenute. Così come le cattive monarchie subivano il condizionamento della nobiltà parassita, la democrazia odierna (espressione dell’alta finanza) favorisce la proletarizzazione e l’immigrazione. Sovranismo e culto dell’identità sono l’estremo tentativo di difesa dei molti contro i pochi, ossia l’elite capitalista.

Il capitale, soprattutto quello improduttivo delle banche e della speculazione in genere, è nel sistema democratico quel fattore extraparlamentare che regola la politica; la regola in modo che tutti i diritti vengano riservati ad una ristretta cerchia di potenti e che tutti i doveri vengano spalmati su cittadini poco consapevoli. É proprio la loro scarsa consapevolezza a rendere possibile l’abuso. Per ogni carnefice la storia ha sempre previsto vittime confuse e pertanto impotenti. L’ottusa presunzione dei carnefici richiede un’altrettanta ottusa rassegnazione delle vittime. Il potere economico ha affondato così tanto i suoi artigli da imprigionare tutta la realtà del mondo; questa condizione, che appare al conformista l’unica possibile, è invece una distruzione capillarmente organizzata a beneficio esclusivo delle lobby economiche, ossia dei loro vertici (poche, pochissime persone). L’ipocrisia e l’impotenza con cui i governi definiti democratici affrontano ad esempio la crisi ambientale è emblematica: tasse o obblighi di spesa per spremere i cittadini ulteriormente e regalie alle multinazionali. Ciò vale ad esempio riguardo agli incentivi per il “rinnovo” del parco auto, considerando che la sostituzione di un mezzo è impattante quanto molti anni di utilizzo dello stesso. Non avrebbe molto più senso ad esempio favorire la conversione a metano dei mezzi? La combustione del metano è molto pulita, l’Italia è ben attrezzata al riguardo e tale gas va considerato risorsa rinnovabile perché può essere prodotto per scomposizione biochimica di rifiuti organici. L’eterno conflitto tra sfruttatori e sfruttati richiede capi che si appellino direttamente alle masse e che abbiano soprattutto una consapevolezza oggi assente, per favorire un cambiamento che io definisco ritorno al reale, recupero collettivo della logica deduttiva, ossia Iperlogica.

 

NOTE:

[1]    L’uso sconsiderato della tecnologia è un tratto tipico della mentalità americana, che crea danni immensi con leggerezza e quando cerca di porvi poi rimedio trova soluzioni a volte peggiori del male. Gli esempi sono innumerevoli; nell’articolo “L’ignoranza della scienza”, Caprioli E., L’Uomo libero, n° 64, 10/2007, pp. 9-17 si parla del tema amianto, nella cui diffusione gli USA ebbero gravi responsabilità. Recentemente, durante l’amministrazione Trump, sono stati resi legalmente possibili nuovi usi dell’amianto (Gabanelli M., Gaggi M., La guerra all’ambiente di Trump: sì ad amianto, carbone e pesticidi, www.Corriere.it, 9/10/2018).

[2]    Nel saggio “L’individuo e la storia”, Caprioli E., L’Uomo libero n° 28, 6/1989, pp. 23-33, ho chiarito quanto la concezione storica dell’illuminismo abbia influenzato e continui ad influenzare tutt’ora le vicende della modernità contemporanea. Le riflessioni anticipano ciò che poi diventerà il senso del procedere storico in “Iperlogica: il cuore della ragione”, Caprioli E., La Goliardica pavese, PV, 2005.

[3]    Le tecniche belliche in uso nel periodo napoleonico esponevano i militari a colpi di artiglieria che ne maciullavano le carni; gli ospedali da campo erano luoghi di tortura nei quali l’amputazione, senza anestesia, era tra le pratiche più in uso.

[4]    I cinesi hanno accolto la competizione mercantile sino ad estreme conseguenze, inquinando anche il loro territorio oltre ogni limite immaginabile; tuttavia oggi stanno cercando di limitare il danno ambientale e sono impegnati in una guerra più importante e duratura di quella commerciale: si tratta di una guerra demografica. Dopo aver rinunciato alla regola del figlio unico, il governo cinese promuove l’espatrio di individui e famiglie, finanzia imprese cinesi all’estero, acquista addirittura territori e immobili, in Africa particolarmente. Questa guerra, che noi europei perdiamo senza neppure averla messa a fuoco, può esser condotta dai cinesi perché non si mescolano, mantenendo stretti legami con chi è rimasto in Patria, con la cultura d’origine e con lo Stato cinese.

[5]    Il fondamentale passaggio storico da colonialismo tradizionale a neocolonialismo mercantile è argomentato nell’articolo “Consumismo”, Caprioli E., L’Uomo libero n° 76, 12/2013, pp. 27-40.

[6]    Le sue dichiarazioni sono tratte dall’intervista resa a Giuseppe Salvaggiulo de La Stampa, pubblicata in data 22 agosto 2018, quando l’emozione per il crollo era al vertice d’intensità.

[7]    La inutilità dei garanti, i loro costi, la pericolosa sovrapposizione di poteri che determinano è argomentata nell’articolo “Il garanti della politica neoliberista”, Caprioli E., rinascita.eu, 22/01/2012. Ad oggi in Italia c’è un garante per qualsiasi cosa, per la privacy, l’infanzia ….i detenuti. C’è da chiedersi ad esempio cosa serva un garante per l’infanzia che non ha evitato i fatti di Nibbiano.

[8]    Il cambiamento climatico impatta pesantemente su tutto il mondo ma in un continente così sovrappopolato come quello europeo le ricadute in termini di consumo di suolo e inquinamento sono particolarmente pesanti, nonostante il fatto che la legislazione in materia ambientale sia per l’Europa meno peggio che altrove.

[9]    A proposito di pluralismo dell’informazione, confuso con la libertà di informazione, esso si traduce per lo più in pluralismo di strumentalizzazione e dilagante relativismo ideologico. La vera libertà di informazione comporta invece la sacralità del ruolo di chi informa, che si identifica nella collettività, anteponendo anzitutto gli interessi dello Stato.

[10]  I danni del sistema demo-partitico all’epoca del bipolarismo vengono descritti nell’articolo: “La palude democratica”, Caprioli E., L’Umo libero n° 69, 5/2010, pp. 93-105.

[11]  Ci si dovrebbe porre la domanda: gli stati che oggi nel mondo appaiono capaci di strategia sono democratici? Altra domanda critica è: quale sistema politico sembra idoneo ad arginare il fenomeno di gran lunga più grave della nostra epoca, ossia la catastrofe climatico-ambientale? Attualmente l’unico Paese al mondo che ha saputo assumere decisioni drastiche ed efficaci a favore dell’ambiente e che mantiene la copertura forestale del territorio ad oltre il 60% di esso è il Bhutan. Non si tratta di una democrazia ma di un regno, con buona pace degli ambientalisti filomarxisti.

Enzo Caprioli

1 Comment

  • Pierluigi Pittoni 16 Gennaio 2020

    Condivisibile ma disperante …

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