12 Aprile 2024
Scienza

Scienza e democrazia, quarta parte – Fabio Calabrese

Riprendiamo il discorso sulle “democratiche” falsificazioni del pensiero scientifico. Io vorrei in premessa ribadire un concetto che ho già espresso: se “la scienza”, quella che conosciamo per tale, le teorie e le istituzioni “scientifiche” del nostro mondo dominato dall’ideologia democratica, si attenessero realmente al metodo galileiano dell’osservazione e dell’esperimento per mettere alla prova le ipotesi, per formulare e, quando occorre, modificare le teorie, nulla vi sarebbe da obiettare contro di essa e, diciamolo pure, tutti coloro che hanno cercato una via alla conoscenza diversa dall’interazione reale con il mondo che ci sta attorno, sono in errore, fatta salva fino a prova contraria la buona fede di ciascuno.

Ma il punto è precisamente questo: “la scienza” come teorie e istituzioni, il più delle volte non segue affatto il metodo galileiano, ma subisce in pieno il peso distorcente dell’ideologia democratica che pretende che determinate cose siano presentate in un certo modo e non altrimenti, e che alcuni settori della ricerca, ad esempio la presenza di differenze razziali all’interno della specie umana, siano letteralmente tabù.

Io ho iniziato questa ricerca, ed era ovvio che fosse così, dalle tematiche che mi sono più familiari: della storia e dell’archeologia, campi nei quali lo sforzo della “scienza democratica” per minimizzare il ruolo della civiltà europea e preservare l’idea che la civiltà umana sia nata nella Mezzaluna Fertile mediorientale, ignorando i grandi complessi megalitici europei, da Stonehenge a Newgrange ai templi maltesi, e censurando scoperte come quella delle tavolette di Tartaria appartenenti alla cultura del Danubio che rappresentano la più antica scrittura conosciuta, è addirittura palpabile.

La seconda e la terza parte le ho dedicate rispettivamente alla psicologia e alla fisica, due campi lontani, ma accomunati dal fatto che in entrambi abbiamo forse i due esempi più vistosi di ciarlataneria pseudo-scientifica: Sigmund Freud e Albert Einstein (non senza rilevare peraltro la circostanza singolare che entrambi questi ciarlatani e plagiari appartenessero al sedicente “popolo eletto”).

Tuttavia, “in mezzo”, fra questi due estremi c’è tutta la gamma delle scienze umane e naturali. Possibile che al riguardo non vi sia proprio nulla da eccepire? E infatti, di cose da eccepire ce ne sono parecchie.

Cominciamo con un punto fondamentale: la differenziazione fra scienze naturali e scienze umane ha senso finché viene vista come una semplice suddivisione di competenze, giustificata dal fatto che nessuno può possedere tutto lo scibile, e che ciascun ricercatore si specializza in una determinata area, ma non ha alcun senso considerarle in termini di opposizione come due tipi di saperi contrapposti. Il sottinteso di questa contrapposizione è la convinzione che l’essere umano sia praticamente in toto un prodotto della cultura, dell’ambiente, dell’apprendimento, e che la natura, l’eredita biologica non abbia alcuna importanza.

Non si tratta di un problema confinato in ambito teorico, ma di una questione le cui ricadute pratiche si stanno oggi trasformando in un’autentica e gigantesca tragedia: se l’essere umano è in tutto il prodotto di fattori culturali, ecco allora che, sottoposto a una conveniente educazione/addestramento, un “colorato” del Terzo Mondo diventerà un perfetto europeo/occidentale, non solo, ma poiché la sinistra ha da sempre l’ambizione di rifondare ex novo il consorzio umano, e quelli del Terzo Mondo sono falsamente percepiti come vergini di un imprinting sociale e culturale, e poiché è sempre più facile costruire sul nuovo che rabberciare il vecchio, allora importiamone a milioni in Europa e facciamo scomparire quegli inutili residui del passato che sono le popolazioni europee native.

Qui gioca anche una delle leggende più fasulle che l’illuminismo ha iniettato nella cultura europea, quella del “buon selvaggio”, invenzione letteraria di Jean Jacques Rousseau priva del minimo riscontro nella realtà.

Bene, si vede molto chiaramente da dove nasce questa aberrazione, questa patologia del pensiero che è “l’essere di sinistra”, che avremmo tutti i motivi di ritenere una vera e propria malattia psichica se non sapessimo che è il prodotto di pesanti condizionamenti culturali e distorsioni cognitive: la contrapposizione natura/cultura e la svalutazione della natura a favore della cultura non sono altro che un ricalco, una versione laicizzata della contrapposizione cristiana fra corpo e spirito e il relativo disprezzo per il corpo. Il marxismo non è altro che una versione modernizzata e laicizzata del cristianesimo, che ha riscoperto l’afflato utopico e totalitario del cristianesimo delle origini, o se vogliamo, il cristianesimo è stato il bolscevismo dell’antichità, di cui quello moderno è degno erede. Del resto non stupisce di certo il fatto che i cristiani odierni, liberatisi con il Concilio Vaticano II di quella patina di europeizzazione che l’eresia ebraica del Discorso Della Montagna aveva acquisito a partire da Costantino, siano oggi apertamente complici della sinistra nella distruzione dell’Europa e dei popoli europei mediante l’importazione massiccia sul nostro suolo delle masse del Terzo Mondo.

Il grande Konrad Lorenz, che è stato probabilmente uno degli ultimi veri scienziati della nostra epoca (non è probabilmente un caso che Konrad Lorenz sia probabilmente l’ultimo a cui con la strana saggezza del linguaggio, ci si riferisce usando la parola “scienziato”, dopo di lui si usa il termine “ricercatore” che non ha soltanto una connotazione più modesta, ma sottintende uno spirito diverso), ricordava che “L’uomo è per natura un animale culturale”, cioè che è la sua natura, la sua biologia, la sua genetica, non altro, a permettergli di essere un creatore, un portatore, un fruitore di cultura, e che la contrapposizione fra le due cose è letteralmente un assurdo (assurdità che è letteralmente l’asse portante della mentalità di sinistra).

Questo discorso ha uno “spiacevole” corollario che spiega facilmente l’odio per nulla dissimulato che oggi Lorenz trova a sinistra (Ricordiamo ad esempio che non molto tempo addietro le pressioni della canea sinistrorsa sono riuscite a far sì che l’Università di Salisburgo gli togliesse postumamente la laurea honoris causa a suo tempo conferitagli): poiché la base genetica non è uguale in tutti gli uomini e in tutte le popolazioni umane, non lo sarà nemmeno la capacità di creare, trasmettere, usufruire cultura: si riapre inevitabilmente il discorso delle razze (ammesso che sia mai stato chiuso, tranne che sul piano della mistificante propaganda democratica).

Molto tempo fa (eravamo ancora nella prima metà del XIX secolo, Marx non aveva ancora scritto il suo mefitico Manifesto e l’Italia era un puzzle di staterelli più o meno direttamente controllati dall’Austria), un viaggiatore inglese giunto su un remoto arcipelago del Pacifico, le Galapagos, notò che gli animali che costituivano la fauna delle isole, tartarughe e fringuelli in particolare, erano non solo diversi da quelli del continente, ma presentavano delle variazioni di isola in isola e/o a diverse nicchie ecologiche e alimentari.

L’idea di Charles Darwin che le specie viventi, animali e vegetali, per effetto delle pressioni selettive dell’ambiente si modificano nel tempo, e che popolazioni isolate possono divergere da un antenato comune fino a diventare nuove specie, costituisce probabilmente la grande intuizione del  XIX secolo e dovrebbe essere la base della biologia moderna, dovrebbe essere, ma di fatto non lo è, perché della concezione del grande naturalista inglese è stata data una lettura appositamente deformata per farla coincidere con i dogmi democratici e progressisti.

La grande intuizione di Darwin è stata, si può dire, fatta a pezzi, enfatizzandone certi aspetti e tacendone certi altri, e anche mettendogli in bocca ciò che non ha mai asserito.

Per prima cosa, poiché essa contraddice apertamente la narrazione biblica sulla genesi degli esseri viventi, e questo fu senza dubbio l’aspetto di essa che colpì maggiormente i contemporanei dello scienziato inglese, di essa si impadronirono subito i liberi pensatori (che poi tanto liberi non sono), i progressisti, i democratici che sparsero la voce che essa fosse “una cosa di sinistra”. Karl Marx, che era uno che di scienza non capiva nulla (quella che riteneva fosse “scienza” credendo “scientifica” la sua idea di socialismo, era solo dialettica hegeliana mal digerita) scrisse in una lettera a Engels che L’origine delle specie conteneva “I fondamenti naturalistici del nostro modo di pensare”, e non avrebbe potuto sbagliarsi di più.

In secondo luogo, l’idea darwiniana fu etichettata come “evoluzione” (termine che Darwin non amava e che in tutto L’origine delle specie usa una sola volta), al punto che è diventato d’uso comune parlare di evoluzionismo darwiniano. Ma attenzione, quello che più conta, è che con questo termine Darwin intende semplicemente la trasformazione delle specie nel tempo, e non “sviluppo ascendente”, così come gli è stato attribuito facendo coincidere il concetto di evoluzione con quello di progresso, ignorando l’enorme differenza della scala dei tempi fra un fenomeno biologico che ha i ritmi lenti della geologia e una discutibile elaborazione dell’osservazione da alcuni fenomeni della società umana nell’arco di un paio di secoli. Una mistura eterogenea che serviva a dare un avallo “scientifico” a idee “progressiste” e “rivoluzionarie”.

Oltre ad avergli messo in bocca quello che non si è mai sognato di dire, sono altrettanto notevoli gli aspetti della teoria darwiniana che con un abile gioco di prestigio sono stati fatti scomparire alla vista almeno del grosso pubblico.

L’idea centrale di Darwin, la sua innovazione veramente rivoluzionaria, infatti non è l’evoluzione, cioè il fatto che le specie si modificano nel tempo, cosa notata già prima di lui, appena si cominciarono a studiare i fossili, da Buffon, Lamarck, nonché da suo nonno, Erasmus Darwin (lo scienziato inglese apparteneva a una famiglia di naturalisti, e un altro importante ricercatore di quest’epoca, Francis Galton era suo cugino), ma la selezione naturale che agendo sulle variazioni casuali ed eliminando spietatamente i deboli e i mal riusciti, poco per volta costruisce i tipi superiori. La selezione, la lotta per l’esistenza in una natura “Rossa nei denti e negli artigli” che non solo elimina gli incapaci ma, attraverso l’accumulo delle variazioni favorevoli “costruisce” i forti, i sani, gli adatti.

Lo si voglia o no, è la resurrezione su basi scientifiche moderne di un pensiero molto più antico, quello di Eraclito:

“La guerra è madre e regina di tutte le cose. Di alcuni fa degli uomini, di altri fa degli dei”.

Si vede bene che ciò va nella direzione esattamente opposta di quello spirito di livellamento che è la base comune di cristianesimo, marxismo e democrazia. La sua traduzione in termini politici implicherebbe invece la creazione mediante una selezione rigorosa di nuove élite e nuove aristocrazie. Che io sappia, un solo regime europeo fra le due guerre mondiali si è mosso apertamente in questa direzione, e ha avuto molto poco tempo, solo dodici anni, di cui sei di guerra, ciò nonostante, quel che è riuscito a fare, è sbalorditivo. Si capisce molto bene dunque l’esigenza da parte dell’ortodossia che ci viene imposta dalla tirannide democratica, di presentare una versione deformata e castrata del pensiero di Darwin.

All’epoca in cui il naturalista inglese presentava al mondo la sua concezione, non si sapeva ancora nulla della genetica, tuttavia egli intuì molto bene che la tendenza insita in ogni vivente (ma che l’uomo può pervertire come ogni altra cosa) è quella di trasmettere nelle generazioni successive la propria impronta biologica.

Tradotto in termini politici, si capisce bene che ciò va in direzione esattamente contraria a tutte le utopie cosmopolite e internazionaliste, a favore di quello spirito identitario che privilegia la propria identità etnica come continuità di sangue.

E’ veramente una sciagura della storia il fatto che la scoperta e la decifrazione del DNA non siano avvenute ottant’anni prima, prima della vittoria e dell’universale imposizione della tirannide democratica, quando ancora si poteva parlare liberamente di etnie e di razze.

Sempre partendo dal presupposto della totale costruibilità dell’essere umano a partire dall’ambiente e dagli stimoli condizionati pavloviani (abbiamo visto nella seconda parte a quale livello di ciarlataneria si trova quella che passa per scienza psicologica), per buona misura l’ortodossia democratica ha imposto una serie di mistificazioni riguardanti la nostra storia remota, mistificazioni che puntano tutte in un’unica direzione, quella di deprimere l’idea che noi Europei sconfitti (tutti quanti, anche quelli schierati nominalmente dalla parte vincitrice) nel secondo conflitto mondiale, possiamo avere di noi stessi.

A una concezione storica inadeguata perché di fatto ricalcata sulla concezione biblica, che vede la civiltà umana sorgere in Medio Oriente, ignorando i grandi complessi megalitici europei che sono di millenni più antichi delle piramidi egizie e delle ziggurat mesopotamiche (è una questione che ho trattato tante volte e che ora non approfondisco), si sono aggiunte altre due fole, quella dell’origine mediorientale degli indoeuropei, e l’Out of Africa, cioè la presunta derivazione di tutta la specie umana dai neri africani.

A parte la prima che si smentisce da sé appena si considerino opportunamente i fatti (e che resta tuttavia la versione graziosamente ammannita dal sistema scolastico e dai media divulgativi), le ricerche sul DNA antico hanno bocciato senza appello le altre due. La prima perché è ormai provato che l’85% del DNA degli Europei attuali deriva da antenati presenti in Europa fin dal paleolitico, e  per la seconda, l’Out of Africa, le ricerche di Omer Gokcumen e Stefan Ruhl dell’Università di Buffalo che sono venute clamorosamente a confermare quanto già sostenuto a questo riguardo dai genetisti russi Anatole Klysov e Igor L. Rozhanskij.

E’ una tendenza umana, molto umana quella di rifiutare le prove dei fatti quando contraddicono i propri pregiudizi, così ad esempio il “Corriere della sera” ad agosto ha riferito una dichiarazione memorabile di una professoressa di Cambridge, Mary Beerd secondo la quale “il DNA non basta” per ricostruire la storia (qui si trattava di una questione un po’ diversa, la presenza di presunti elementi africani nelle legioni romane di stanza in Britannia, anch’essa smentita dalle ricerche sul DNA, ma il principio è lo stesso). Beh, devo ammettere che nel riferire il caso, anche stavolta l’ottimo gruppo facebook MANvantara del nostro amico Michele Ruzzai è arrivato prima di me.

E’ una situazione che ricorda molto quella vecchia barzelletta del tale che sorpreso dalla moglie a letto con l’amante, le dice: “Ma a chi credi, a me o ai tuoi occhi?”. Allo stesso modo, la signora Beerd e chissà quanti altri “compagni” come lei, vorrebbero che credessimo a loro piuttosto che ai nostri occhi, cioè alle prove inoppugnabili portate dalla genetica.

Ma bisogna capirli: sono persone che a partire da Jean Jacques Rousseau e passando per Claude Levi Strauss, sono state “educate” a quello che non si può definire altro che un masochismo etnico, a vedere qualcosa di buono solo in ciò che non è europeo a compiangere le “povere vittime” della presunta cattiveria “bianca” dalle crociate all’età coloniale, a credere alla bontà civilizzatrice del meticciato e ad altre sciocchezze simili prive del minimo appiglio nella realtà.

Noi però, al di là di tutte le mistificazioni democratiche, sappiamo che ci incombe la difesa intransigente dell’Europa e dei suoi popoli, che non significa solo difendere le nostre etnie e la nostra cultura, la nostra identità storica, ma un patrimonio fondamentale per l’intera specie umana.

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