14 Maggio 2024
Punte di Freccia

Ricordi e lamentazioni…

‘Puedo escribir los versos màs tristes esta noche…’, da Poesia d’amore dello scrittore cileno Pablo Neruda, ed. Nuova Accademia, 1966, acquistato però dopo l’estate del ’68. L’estate in cui m’ero recato a Monaco di Baviera, alla ricerca delle ‘antiche’ radici ove tanta storia del Novecento aveva avuto inizio e partecipare, al contempo, – ‘Noi siamo uomini d’oggi’, fieri e disperati i versi di Drieu – a quei venti del cambiamento di cui il volto sornione (un grosso e grasso gatto in apparenza bonario e appisolato su un tappetto orientale, ma dentro cattivo e aggressivo, lo immaginavo) del ‘grande Timoniere’ era artefice. Così non poteva mancare la visita alla Feldherrnhalle, una loggia su modello di quella dei Lanzi a Firenze. L’8 novembre 1923, all’interno della Buergerbraeukeller (la birreria ove il destino aveva imposto ad un modesto pittore di ergersi a signore della rinata Germania e, suo tramite, del mito dell’Europa), Adolf Hitler aveva proclamato ‘la rivoluzione popolare’. Il giorno successivo, con lui in prima fila, circa duemila dimostranti s’incolonnano per le vie della città; poi proprio all’altezza della Feldherrnhalle, nella Residenzstrasse, vengono fermati dalla polizia, che ordina di disperdersi ed apre il fuoco. Sedici sono i militanti nazional-socialisti che vengono uccisi; quattro fra le forze dell’ordine. Il loro sangue s’erge a simbolo nel rito della consegna delle nuove bandiere, rosse anch’esse ma di ben altra fattura rispetto a quelle della falce e martello. Il rosso dei martiri e degli eroi, il rosso di quei ‘Kameraden, die Rotfront und Reaktion erschossen, marschier’n im Geist in unseren Reihen mit’, come recita la HorstWessellied.

Monaco è, soprattutto, passeggiare nelle ore notturne, tante le caffetterie i marciapiedi ove gli artisti si davano appuntamento per gustare la parola fino all’alba, le stradine buie e strette di Schwabing. Vi è un non so che di civetteria e decadenza, simile a Vienna, anche se più sobria e austera. Eppure credo dovesse essere bello pensare in grande di letteratura pittura musica, magari con le scarpe rotte e i vestiti rivoltati. Prima della Grande Guerra era, dunque, il quartiere bohemien, in stile liberty. Qui avevano alloggio Thomas Mann e Franz Wedekind, i pittori Wassily Kandinski e Paul Klee. Non fu casuale che Hitler, ancora convinto potersi dedicare alla pittura, venisse qui. E forse Monaco gli fece intendere come politica ed arte tendano a coincidere nella ritualità di una visione totalitaria, in nome di quell’Impero dei mille anni che, pur fragile misura di appena dodici anni, s’è trasformato in eterno mito dal sapore demoniaco e demonizzato. Sempre a Schwabing Hitler volle la prima redazione del Voelkischer Beobachter. Una piccola libreria, una sorta di sottoscala, che s’affaccia sul marciapiede, di quella che allora si definiva ‘sinistra militante’, ha la vetrina in frantumi e sotto una pietra il cartello indica un attentato ‘fascista’. Mi sento legittimato a proseguire nella devastazione, mi approprio del distintivo dei viet-kong e di un poster tutto in rosso e con al centro i volti di Marx Engels Lenin e la scritta ‘Tutti parlano del tempo noi no!’ (slogan questo delle ferrovie tedesche). Farà la sua ‘porca’ figura in camera mia, in compagnia della celebre foto del Che febbricitante e il poster di Valle Giulia con il Merlino immortalato in atteggiamento guerriero (quanta libidine!). Poi, dopo il 12 dicembre, mia madre, spaventata, staccò tutto e tutto finì in qualche cassonetto dell’immondizia (come accade per tante vicende della storia privata e pubblica, del resto).

‘El viento de la noche gira en el cielo y canta’… E l’estate del ’68 fu anche Praga. Fummo, Riccardo ed io, i testimoni, involontari, della sua primavera e dei carri armati in piazza San Venceslao. Ne ho scritto e ne ho parlato così tante volte da rendermi noioso ripetitivo funambolo. Eppure come dimenticare il rumore dei cingoli che scendono, colonne senza fine, verso il centro della città nella notte afosa e privata d’ogni luce? E quei giovani e le ragazze in minigonna con tanta rabbia e disperazione nel volto e nei gesti, le bandiere al vento e, di contro, i soldati del Patto di Varsavia (solo i romeni si rifiutarono d’intervenire) muti rigidi forse impacciati nelle brutte uniformi sulle torrette dei mezzi… li osservavamo e nei nostri occhi, nella mente, ci appariva piazza Venezia piazza del Popolo via dell’Impero gli spazi verdi di Villa Borghese – bastoni barricate molotov lacrimogeni caroselli della celere e la parola magica di allora, di sempre, Rivoluzione. Breve magico momento, poi intruppati su dei pullman con i finestrini schermati il ritorno verso l’Occidente, borghese vile distratto. Addio Praga, addio Riccardo, addio sogni della nostra giovinezza inquieta e irriverente…

‘Y el verso cae al alma como al pasto el rocìo’… E l’estate del ’68 fu breve parentesi sulla costa di Romagna dove la mia famiglia, fin dall’inizio del Novecento, possedeva una villetta con il tetto simile a chalet e fregi stile liberty e il giardino dal pino il nespolo i cespugli di canne di bambù. Qui le mie sorelle videro passare i ‘liberatori’, bimbette spaurite ed affamate, ed uno di costoro gettò loro una tavoletta di cioccolata. La più grande ebbe appena l’attimo fuggitivo e dolce di assaporarne il gusto che mia madre le mollò uno schiaffo e le impose che nulla del ‘nemico’ dovesse essere raccolto. Mia madre, nata nel cuore di New York… (Quando ti ammalasti, ce ne disfacemmo per poterti tenere in casa e non relegarti in qualche clinica lontana). Nei giorni trascorsi conobbi tre sorelle di Verona e, con Manuela, si andava fino al promontorio di Gabicce, in autostop, a pescare grappoli di cozze (allora il mare non era ancora inquinato e l’onda s’infrangeva amica sulla roccia) che s’aprivano sulla spiaggia e le mangiavamo spremendoci sopra il succo del limone. ‘’T was only a flirt’, ma fu bello comunque. Mi facesti conoscere le poesie di Neruda e quelle di Jacques Prévert, mi regalasti Il vento cantato dai Dik-Dik con una dedica profetica e mi inviasti, ormai ero già a Regina Coeli, le foto di gabbiani in volo sull’Adige.

‘Y éstos sean los ùltimos versos que yo le escribo’… E l’estate del ’68 volgeva al termine. A Verona, unendo al privato dilettevole l’impegno della lotta politica, prendo contatto con ‘i compagni’ della rivista Lavoro Politico di studi sul marxismo-leninismo (Mao era prossimo alla loro mente e di più al loro cuore), che mi ospitarono in una sede al centro, nei pressi di piazza delle Erbe, un appartamentino ingombro di manifesti scatole di colla pennelli. Avrei dovuto diffondere la rivista a Roma, poi non se ne fece nulla. Ostico a troppe ‘chiacchiere’ ideologiche e rilevando la poca attitudine all’azione… Robert L., piccolo esile arguto lo sguardo ora ironico ora glaciale dietro occhiali dalla montatura sottile, ha combattuto nella Charlemagne, all’assedio di Kolberg, dove i volontari francesi tennero aperto un varco consentendo a migliaia di donne di vecchi di bambini di sfuggire alle orde mongole in marcia verso Berlino. Ora ha firmato una dichiarazione ove sposa la causa del Grande Timoniere, una sorta di prestampato, presso l’ambasciata di Berna della Repubblica Popolare Cinese – da entrambe le parti si prendono in giro e lo sanno, ma è il prezzo da pagare se si vuole essere nel tumultuoso fiume della storia (il nazimaoismo nostrano ne è stata la fotocopia confusa – ‘Hitler e Mao uniti nella lotta!’). Mi coinvolge; mi faccio coinvolgere. Mi fa da garante.

Ed ancora due versi: ‘La misma noche que hace blanquear los mismos àrboles/ Nosotros, los de entonces, ya no somos los mismos’… Qualche giorno fa chiudevo la conversazione con una psichiatra che aveva fatto il biennio di tirocinio a Trieste dove é partita la riforma degli ospedali psichiatrici (nel 1973 l’OMS definì Trieste ‘zona pilota’) ad opera del suo direttore, Franco Basaglia, promotore appunto della legge 180 che porta il suo nome, citando Mao. Negli anni del ’68 e dintorni si citava la sua affermazione di come ci fosse tanta confusione sotto il cielo. Aggiungevo come il cielo oggi non fosse più lo stesso di allora, ma c’è ancora tanta confusione… Mi sono tenuto per me la seconda parte della citazione per evitare d’essere tacciato di ‘malattia infantile’ (così Lenin indicava critico l’estremismo). Mao dice esattamente ‘grande è la confusione sotto il cielo, la situazione è dunque eccellente’. Non so se sia ‘eccellente’ (non vorrei confondere i miei pii desideri con i dati oggettivi della realtà), so però come essere testimone del presente non mi gratifichi, anzi alimenti l’inquietudine, il senso di vanità ed impotenza.

Descrivere il mondo è di per sé già attuarne il cambiamento, in risposta alla famosa tesi di Marx sui filosofi e l’azione, sosteneva Giovanni Gentile (il quale di Marx, secondo sempre Lenin, rappresentava la migliore interpretazione ‘borghese’). Sarà pur vero, ma ciò appartiene al mondo delle idee – anche se, va ricordato, come Giovanni Gentile attuasse l’unica autentica complessiva riforma scolastica in Italia (la ‘buona scuola’ sta lì!) e nell’aprile del ’44 fu assassinato da vile commando partigiano. Ed io sono, ormai da sei anni, un professore in pensione e non ho obbligo, dunque, di difendere la ‘mia’ categoria (nella quale non mi sono mai riconosciuto, essendo io un ‘maestro’ non un docente…). O, forse, quei bastoni e quelle barricate erano sogni e idee in cammino, promessa di una giovinezza da portare incontaminata ed entusiasta quale vessillo della Rivoluzione; oggi muoio di troppe chiacchiere (da tastiera e non) e quei bastoni e quelle barricate si sono trasformate in me velleità incapacitante… I vecchi e i loro ricordi e il loro piagnisteo…

4 Comments

  • Ezio Polonara 17 Luglio 2015

    Mi sa che sono rimasto “infantile” anche io secondo gli schemi di Lenin….

  • Ezio Polonara 17 Luglio 2015

    Mi sa che sono rimasto “infantile” anche io secondo gli schemi di Lenin….

  • mario michele merlino 17 Luglio 2015

    é una virtù, fattene una ragione… ahahah…

  • mario michele merlino 17 Luglio 2015

    é una virtù, fattene una ragione… ahahah…

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