Punto numero 6 : la mia poesia “in me sto bene come il mare in un bicchiere / ma se sono confinato in questo calice / qualcuno mi può bere”, a cui si è ispirata Chiara Gamberale per intitolarci il nuovo libro uscito a fine giugno, è un simbolo gnostico, ed ha un significato opposto all’interpretazione datane da lei, che arbitrariamente attribuisce al terzo verso il valore di una possibilità positiva, mentre invece rappresenta un pericolo : il destino dell’anima che ama gli esseri del mondo ( il mondo è l’insieme di tutti gli oggetti ed esseri viventi superflui a cui si abbassa chi appartiene a, e che abbandona chi si sposta su o entra in rapporto con, più elevati livelli di realtà ), si fa assorbire dalla vita, ci resta intrappolata, rende irreversibile l’incarnazione, e muore insieme al corpo. Il titolo del mio articolo ha una duplice funzione : il riferimento alla canzone di Lucio Battisti “Una donna per amico” è un’allusione a Chiara ; ma per far ciò avrei potuto utilizzare uno qualunque dei quasi cinquanta versi del testo di Mogol, invece ho scelto proprio il primo per un motivo ben preciso : è una domanda a me stesso : perché vengo sempre frainteso ? È davvero tanto difficile capirmi ? Allora la prendo come una sfida, e stavolta mi spiego, e mi servo di un sistema sicuro : seguo il brano in cui lei parla di me, lo suono come fosse uno spartito musicale per voce solista al quale aggiungo il controcanto, e sollevo, punto per punto, un’obiezione ad ogni sua asserzione che mi riguarda, se non mi ci riconosco. Eccolo qui di seguito quasi integralmente riprodotto : “Se non riesco a rispondere alla mie persone preferite, quindi, figuriamoci se rispondo a chi ho perso di vista vent’anni fa e all’improvviso oggi mi sta tempestando di chiamate : Vittorio. La mia memoria ( nella maggior parte dei casi ) inutilmente prodigiosa mi ha fatto subito riconoscere sul display quel numero, anche se non è mai stato nella rubrica di un mio cellulare, perché è davvero da tempo immemore che non ci sentiamo : c’erano ancora i telefoni fissi quando, da quello della casa dei miei genitori, mi ritrovavo a chiamare quasi ogni giorno Vittorio.
Era il fratello più grande di un mio compagno di classe del liceo, ci eravamo conosciuti all’uscita di scuola. Io ero nel momento forse più drammatico della lotta contro me stessa, che in parte ho raccontato nel mio primo romanzo, Una vita sottile, dove non a caso in esergo c’è il verso di una poesia di Vittorio. Anche per lui infatti, come per me, l’unico rimedio all’esistenza sembrava essere la scrittura : e questo ci aveva subito attratti l’uno verso l’altra. Passavamo pomeriggi interi al telefono, lui mi leggeva le poesie di Rimbaud, di Montale, le sue, e io ascoltavo. Ci vedevamo pochissimo e ogni volta uscivo da quegli incontri esausta : perché eravamo davvero due disturbati. Ma come la sua cultura era più solida e lungimirante, mentre io ho sempre avuto la cultura dell’autostoppista, per dirla con Truman Capote, anche il suo malessere era più radicale, mentre il mio più cialtrone. Provo a spigarmi. Mi sono spinta spesso fino al pozzo sfondato al centro della mia confusione e della mia angoscia di vivere : ma su ciglio di quel pozzo, se alle mie spalle parte una musica strana, o arriva un odore sconosciuto e però familiare, passa un gatto senza coda, io mi giro. I paesi che ancora non ho visitato, le persone davvero originali che ho conosciuto, quelle che potrei conoscere, le persone che mi potrebbero ispirare, quelle che potrei aiutare, l’amore – ancora l’amore ? eh, sì : sempre l’amore – e soprattutto, forse, la possibilità di cazzeggiare su qualsiasi cosa, e un giorno perfino su quel precipizio, sono sempre state per me tentazioni potenti esattamente quanto quelle del Dentro di Testa. Così, anche quando arrivano quei brividi che mi lasciano senza luce, prima o poi istintivamente a me viene da cercare le vene del buio, come dieci giorni fa mi è venuto di chiedere aiuto al dottor R. Insomma, io ci credo che si possa stare meglio, addirittura bene. Vittorio no, e mi prendeva in giro se condividevo con lui le mie speranze, si faceva sprezzante, mi deludi, diceva, una persona intelligente non può non rassegnarsi alla pacchiana mancanza di senso del mondo e ostinarsi a parlare di guarigione, dove i cosiddetti malati si limitano semplicemente a a prendere atto dell’abominio per cui nessuno di noi chiede di nascere e invece suo malgrado viene scaraventato qui, nel sogno asfittico di un ubriaco. E poi : maledetti gli inadatti a far figli farfalle, diceva. Maledetti i genitori, tutti. Poveri figli. Non sopportava il contatto fisico con le persone, perfino attorno ai suoi familiari, in casa, per evitare di sfiorarli faceva slalom accurati come quelli che ora nei supermercati siamo costretti a fare tutti, non barattava niente della sua disperazione con l’occasione di passare almeno un giorno o un’ora così : a non pensarci. Dunque tutto quello che di lui mi affascinava allo stesso tempo mi respingeva : la paura del simile, la chiamavano Freud e Schnitzler nei loro immortali carteggi. Fatto sta che quando, dopo il liceo, mi sono trasferita a Padova per l’università, e ho attraversato un periodo particolarmente complicato, dove il pozzo sfondato rischiava di inghiottirsi tutto, la repulsione per il nichilismo senza sconti di Vittorio ha prevalso sull’attrazione. E ci siamo persi. Ma in quel mio primo romanzo ho sentito comunque il bisogno di celebrarlo : in me sto bene come il mare in un bicchiere ma se sono confinato in questo calice qualcuno mi può bere. Non ricordo più se Vittorio li avesse scritti proprio per me questi versi : giurerei di sì, ma perfino quando non abbiamo l’occasione di conoscerli personalmente a volte ci sembra che i poeti scrivano per noi, solo per noi. Quella breve poesia, a sedici anni, aveva lei spiegato a me chi ero : una persona insofferente a ogni limite contro cui il suo desiderio sconsiderato di assoluto era costretto a venire a patti.
E che non sapeva cosa farsene del primo di quei limiti : il suo corpo. Ma, suggeriva la poesia, quel corpo, quel bicchiere così ridicolo per contenere l’immensità del mare, è anche l’unica occasione che abbiamo per incontrare gli altri. E per giocare da capo, grazie agli altri e per colpa degli altri, la nostra partita con l’assoluto. Anche se nel frattempo ci tocca starcene stretti e scomodi in quel bicchierino. Mi pare che abbia scritto la poesia per me, Vittorio, perché, come dicevo, somiglia più alla mia visione della vita che alla sua : ed è addirittura una poesia profetica, perché a sedici anni ancora non potevo saperlo, ma di lì a poco i corpi degli altri si sarebbero rivelati la vera fonte di salvezza del mio, il più potente richiamo al Là Fuori, quando, scivolando dal Dentro di Testa, arrivo sul ciglio di quel buco. Che cosa vorrà Vittorio da me, adesso ? Non me lo chiedo nemmeno. So però che non ho bisogno di sentirlo. Sono troppo presa da [ … ] Dunque perdonami, Vittorio : anche se ti rispondessi, non credo che avrei da dirti qualcosa che ti potrebbe interessare.” ( ho saltato soltanto ciò che indubbiamente, come in effetti ha indovinato lei, non mi sarebbe potuto interessare ) Cominciamo dall’inizio : punto numero 1 : “Anche per lui infatti, come per me, l’unico rimedio all’esistenza sembrava essere la scrittura” ; qui, più che un’obiezione, è necessario un approfondimento, perché usando il verbo sembrare ammette lei stessa implicitamente che si trattava di una sua impressione ; io già leggevo opere come “A scuola dallo stregone” di Carlos Castaneda, “Corpo spirituale e terra celeste” di Henry Corbin, “Frammenti di un insegnamento sconosciuto” di Petr Dem’janovic Ouspensky, “I grandi iniziati” di Edouard Schuré, “Il potere del serpente” di Arthur Avalon, “Il regno della quantità e i segni dei tempi” di René Guénon, “I maestri di saggezza” di John Godolphin Bennett, “Incontri con uomini straordinari” di Georges Ivanovic Gurdjieff, “La dottrina del risveglio” di Julius Evola, “La scienza occulta” di Rudolf Steiner, “La sintesi dello yoga” di Aurobindo, “Lo sciamanesimo e le tecniche dell’estasi” di Mircea Eliade, “Unità trascendente delle religioni” di Frithjof Schuon, “Uscite dal mondo” di Elémire Zolla ( non perché fossi speciale, ma perché lo erano il mio medico ( omeopata antroposofo ) e il mio professore di filosofia ( studente dell’ultimo autore nominato in elenco ) che me li suggerivano, e le cui indicazioni mi limitavo a subire senza che avessi altri meriti oltre a quello di accorgermi di aver trovato due meravigliosi mentori a dispetto del fatto che non ne avevo mai cercato manco mezzo, accettare che svolgessero nei miei confronti il ruolo che spettava loro, nonostante non ne sentissi neppure lontanamente l’esigenza, e non opporre la minima resistenza alla spinta generosa che gratuitamente ricevevo) ; e mi impegnavo ad applicare quanto apprendevo da quelle parole ( della riuscita o dell’insuccesso dei miei sforzi non sta a me giudicare ) ; non intendo sostenere che avessi raggiunto anche solo risultati relativi ( tantomeno realizzato alcunché di rilevante ) ma avevo comunque ottenuto qualcosa : avevo scoperto che esisteva qualcosa di ottenibile, e avevo capito che non era con la scrittura che lo si poteva ottenere.
Non lo stigmatizzato Padre Pio ma Gurdjieff ( il poco-di-buono né pezzo-di-pane né stinco-di-santo ) sosteneva che la sofferenza volontaria è uno strumento indispensabile per lo sviluppo della consapevolezza. La mia posizione sul problema dello stare male e dello stare meglio, non è che non si può – è che non bisogna stare bene ; perché chi sta bene si abbandona, chi si abbandona si addormenta, e durante il sonno un demone assetato ne approfitta per succhiargli l’anima. Ecco il punto numero 3 : “diceva, una persona intelligente non può non rassegnarsi alla pacchiana mancanza di senso del mondo e ostinarsi a parlare di guarigione” ; l’essere umano non si ammala di questa o quella malattia, ma nasce già malato di quell’unica autentica malattia congenita che è la mortalità, di cui le altre non sono che sintomi ; la sola guarigione che valga la pena di essere conseguita è l’ottenimento dell’immortalità ; ogni altra guarigione è un inganno che non risolve il problema ma lo sposta in avanti trasformando un sintomo in uno differente : ogni illusione diventa la delusione di una ricaduta, fin quando non venga affrontato il problema profondo, e definitivamente sradicato il tronco dal quale ricrescono i rami, mediante il superamento metafisico della mortalità. E adesso il punto numero 4 : “non barattava niente della sua disperazione con l’occasione di passare almeno un giorno o un’ora così : a non pensarci” ; Chiara confonde con uno starci-sempre-a-pensare la mia decisione di non distrarmi mai, il mio sforzo di essere sempre presente a me stesso, in una condizione di costante concentrazione, che è quella che Gurdjieff definisce il ricordo-di-sé, ma che chiamata con svariati altri nomi è descritta e dichiarata doverosa in ogni insegnamento, sia esso alchemico, ascetico, ermetico, esoterico, gnostico, iniziatico, magico, mistico, monastico occultistico, religioso, sapienziale, spirituale, e chi più ne ha più ne metta. E questo è il punto numero 5 : “la repulsione per il nichilismo senza sconti di Vittorio ha prevalso sull’attrazione” ; è un’etichetta che si può appiccicare a teologia negativa, apocalisse, apofatismo, catabasi, descensus ad inferos, nigredo o putrefactio nell’athanor dell’opus magnum, nirguna brahman del vedanta, mahapralaya del sanatanadharma hindu, nirvana del nobile ottuplice sentiero, fana sufico, etc. come appaiono a sguardo profano ; ma io non lo ero neanche in questo senso, perché tutto ciò che è unilaterale è limitante, ed io non sono mai stato né assolutista né relativista, né monoteista né politeista, né monista né pluralista, né panteista né nichilista, ma sempre dualista, al modo di Basilide, Carpocrate, Cerdone, Cerinto, Dositeo, Mani, Marcione, Menandro, Saturnino, Valentino, nell’”Epistola di Eugnosto”, nell’”Ipostasi degli Arconti”, nei “Libri di Jeu” o “Gnosi del Dio Invisibile”, nel “Libro delle Figure”, nel “Libro dei Giganti”, nella “Parafrasi di Sem”, in “Pistis Sophia”, nella “Protennoia Trimorfica”, nelle “Rivelazioni Ricevute dall’Allogeno”, nel “Secondo Trattato del Grande Set”, nelle “Sentenze di Sesto”, nel “Tesoro di Vita”, nel “Trattato sulla Resurrezione”, nel “Trattato Tripartito”, nel “Tuono Mente Perfetta”, nel “Vangelo della Verità” ; e se dovevo stabilire a chi spalancare la porta della mia stanza, interrogavo il candidato così : “a quale mondo appartieni ?” intendendo “al Pleroma o al cosmo degli Arconti ? all’Iperuranio o al demiurgo Yaldabaoth ?”. Ho anticipato il penultimo punto, il punto numero 6, per farne l’incipit dell’intero articolo. Ma quello che ha dipinto nell’ultimo libro non è il suo primo mio ritratto : il protagonista del suo secondo romanzo non è un personaggio immaginario, ma è ispirato a me in modo così spudorato che sono io sputato, esteriormente, ma essenzialmente stravolto. Da Google Books : “Aleté, con la sua strana bellezza, porta con sé un dono maieutico che somiglia pericolosamente ad una maledizione.
La sua sola presenza evoca la verità, aiuta (obbliga?) i tormentati, i dubbiosi, i reticenti a dire la verità su se stessi e sugli altri. Confidando in questa virtù arcana, due genitori le chiedono di aiutare il figlio Paolo/Orfeo la cui intelligenza si è chiusa da tempo in un silenzio scontroso e misterioso”. A pagina 180 dell’edizione originale del 2001 c’è scritto “questo starei attenta anche a chiamarlo uomo perché non è propriamente un uomo è un cristallo con un uomo attorno” e questo è un parere espresso a mio riguardo che si trova in quarta di copertina del mio libro “I petali del tulipano dell’io” pubblicato nel 1999 ( dopo la citazione dal “Così parlò Zarathustra di Nietzsche” : “Luce io sono : ah, fossi notte ! Ma questa è la mia solitudine, essere cinto di luce. Io vivo nella mia luce, e ringhiotto le fiamme che da me si sprigionano. Io non conosco la felicità di chi prende, e spesso pensai che rubare dev’essere ancora più bello che prendere. O infelicità di tutti coloro che donano ! Eclissi del mio sole ! Mio desiderio di desiderare ! Essi prendono da me : ma tocco io la loro anima ? Vorrei far male a coloro a cui io faccio luce, vorrei derubare coloro a cui ho donato. La mia gioia di donare morì nel donare. È ghiaccio intorno a me, la mia mano si brucia su cose di ghiaccio ! È notte : ah, dover essere luce ! È notte, e come da una sorgente sgorga da me il desiderio di dire. Ora gridano forte tutte le fontane zampillanti. Anche la mia anima è una fontana zampillante.” ) inclusa nel seguente elenco : “Di Vittorio Varano hanno detto : “persino il dio dell’Olimpo mi ha teso una mano” ( Virginia M. ) “lui non è un uomo ma un libro. Anzi : non un libro, ma un numero illimitato di libri” ( Sabrina T. ) “lui è del tutto assente da sé. Lui è un cristallo con intorno un uomo ( Antonio C. ) “chi lo conosce lo ama” ( Giovanni A. ) “lo odio come odio la Verità” ( Luigi B. ) “mi viene in mente il metallo. Ma non un metallo arrugginito. No : un metallo lucente” ( Letizia F. ) “voglio bere lo sperma di un angelo” ( Emilio S. ) “non so se la parola sofferenza si possa riferire a uno come lui” ( Chiara G. ) “accetterei di essere il suo cane” ( Miriam L. )” ; ( a coniare quella definizione di me era stato l’autore della quarta di copertina del mio libro precedente : “Questo libro non sanguina e non significa : freddo ed impassibile di fronte alla sua stessa cruda raffinatezza, il poeta è come un nobile facchino dalla faccia bianca, comandato da nessuno, o comandato a distanza. La semplicità del linguaggio solidifica distrattamente l’atonia, senza escludere da sé la complessità logica di un’agghiacciante lucidità di pensiero. Il suo scritto è un inganno, e la sua definizione non può essere posta né in un titolo né in un vocabolario, ma solo in una lapide : ogni poesia è la fine del libro, e le due finte sezioni in cui questo risulta diviso, sono in realtà separate da un’unica pagina. L’ordine alfabetico dei testi carica il tutto di un peso ( il vuoto delle relazioni ) dissolto soltanto dalla continuità di uno stesso identico ritmo, a cui l’autore è riuscito a mantenere vincolate le morbidezze e le folgorazioni, gli svaghi e le deduzioni filosofiche di alcune poesie, in un’atmosfera solitaria, rassegnata e rassicurante, in cui tutto continua a finire” ) ; ciascuno di coloro che avevano pronunciato quelle frasi sapevano di chi era alter-ego il Paolo/Orfeo di “Color lucciola”, che come me si rifiutava di mangiare insieme agli altri membri della sua famiglia ( soppressi i miei 3 fratelli per ragioni narrative e ridotti ai soli genitori ) da cui si faceva portare i pasti su un vassoio nella camera in cui viveva un po’ come un criminale condannato all’ergastolo in cella d’isolamento in un carcere di massima sicurezza, un po’ come un malato mentale con la camicia di forza in quella luminosa con le bianche pareti imbottite di un manicomio, un po’ come un eremita in quella gelata oscura e umida di un monastero. Ma chi dovesse dedurne che quel suo romanzo sia la versione letteraria della storia della nostra relazione andrebbe totalmente fuori strada. Infatti quell’elenco è lacunoso, ha un elemento mancante : “io e lui siamo asola e bottone, albero e terra, acqua e sete e tutte le cose che si cercano” ( Yasmine M. ) che io non ho inserito, e che lei, a cui l’avevo riferito, ha riportato a pagina 127 mettendo tale affermazione in bocca o dentro la desta ad Aleté, che non è alter-ego di Chiara ( la cui opinione, da me non omessa in quella lista, è un’altra ) ma di Yasmine, che lei conosceva perché frequentavano lo stesso liceo e la stessa scuola di teatro. Se qualcuno trova inverosimile che uno sfacciato sprezzante superbo strafottente, che esibiva con ostentazione le sue conquiste, in fase di correzione di bozze ci abbia ripensato e tolto un trofeo, e si chiede per quale motivo, la risposta è : per delicatezza, per discrezione, per pudore, perché Yasmine era la mia fidanzata, ed io ne ero innamorato. Questo preambolo non è un assembramento di spettri spettegolanti, ma serve a due scopi : innanzitutto a supportare la mia interpretazione evidenziando che non è un’ipotesi infondata ma suffragata da sufficienti prove indiziarie ; inoltre per fornire una chiave di lettura : la trama è la storia di un disvelamento, ma a scriverla non è stata la donna che a quell’individuo inquietante si era accostata abbastanza da scioglierne l’enigma, ma un’altra, quella che non essendogli arrivata altrettanto vicino non ha saputo/potuto/voluto vederlo, e non avendolo veduto, l’ha inventato. Paolo è qualcuno che vuole diventare qualcos’altro perché si è specchiato, e si è visto verme ( Paolo = piccolo ) e come una crisalide si chiude nella sua camera-bozzolo per trasformarsi in farfalla ( il riferimento esplicito è un capitolo del suo primo romanzo ( “Una vita sottile” che si apriva con la mia poesia sul mare nel bicchiere in esergo ) che consiste in un titolo ( Vittorio ) una pagina lasciata bianca, e in fondo il mio verso “dannati gl’inadatti a far figli farfalle” ).
Paolo decide di sbarazzarsi del nome con cui l’hanno battezzato, e comincia a farsi chiamare Orfeo. Siccome Chiara non concepiva una Verità che non coincidesse con la semplice realtà fattuale, Paolo, ridotto a fallito e fuggiasco, rappresenta il debole e vigliacco che rifiuta il mondo materiale, dove risulta sconfitto, e si rifugia in quello delle metafore, che lo difende come un grembo materno, all’interno del quale si sente protetto e sicuro ; e gli viene contrapposta Aleté, personificazione di una Verità esclusivamente esistenziale, appiattita ad empiria. “Color lucciola” sarebbe stato il corrispettivo de “L’angelo della finestra d’occidente” se Chiara avesse intravisto, dietro la maschera della poesia, il volto dell’orfismo ( invece equivale all’ “Amo, dunque sono” di Sibilla Aleramo concernente il mago del gruppo di Ur ) perché le sue cognizioni non soltanto non reggevano il confronto con quelle ermetiche di Gustav Meyrink, ma non erano neanche, accontentandoci, all’altezza di quelle sull’alchimia che hanno consentito a Maguerite Yourcenar di scrivere “L’opera al nero” ; ma si salva l’intuizione che l’ha guidata nella scelta dei nomi, perché quel Vittorio che non voleva più essere un Paolo, col disfarsi della propria identità anagrafica come di un abito ormai non più adattato a lui ma diventato d’un tratto troppo stretto, era come se dicesse “non sono più io che vivo ma è Orfeo che vive in me”, lo gridava, col suo gesto, nello stesso senso in cui San Paolo, che non voleva più essere Saulo di Tarso, spogliandosi dell’uomo vecchio per rivestire l’uomo nuovo, diceva “non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” ; invece che soltanto di un denudamento o di una trasformazione psicologica ( un cambio di personalità e comportamento limitato all’ambito biografico ) avrebbe dovuto essere piuttosto il resoconto di un tentativo di trasfigurazione, non finito ( rettifico la raffigurazione fuorviante effetto del suo fraintendimento di me : non sono affatto uno che si è arreso ! ) – ma ancora in corso… Lei non ha mai avuto la più pallida idea di cosa combinassimo là dentro, di quali esperimenti si compissero, e quali incidenti ci capitassero. Faccio un esempio : una volta io, Antonio, uno dei miei fratelli minori e una nostra amica ( ne avevamo fatto insieme la conoscenza a una lezione domestica, organizzata da un adepto della Golden Dawn che si era messo in proprio e invitava a casa tutti quelli che assistevano alle sue conferenze pubbliche, dove spiccava talmente sullo sfondo formato da armadi e da tavoli e dalle persone che a paragone suo parevano mobili anch’esse, che ci eravamo avvicinati a lei con moto sincrono pronunciando la frase di circostanza per presentarci tutti e tre con una sola voce ) volevamo fare un rituale, ma subito prima, proprio nel momento in cui stavamo lì lì per cominciare, Antonio ( che pure teneva su una mensola del suo scaffale “Magick” di Aleister Crowley ) improvvisamente preso da un’inspiegabile paura, indeciso se procedere o tirarsi indietro, non riuscendo a trovare il coraggio di prendere una posizione netta ( l’errore è sempre il non saper scegliere tra il sì e il no ) si è messo al collo un rosario per farsene scudo, e poi abbiamo iniziato ; a rituale concluso, s’è accorto che era andato in pezzi. Non era certo qualcosa di adatto ad essere detto ad una adolescente anoressica che mi parlava sempre e solo del sogno che nutriva di diventare una scrittrice e dell’incubo di dover alimentare oltre la sua fantasia anche la sua fisicità e l’impulso irresistibile a ficcarsi il dito in gola per costringersi a vomitare ogni volta che cedeva all’esigenza di aprire le labbra per ingerire cibo invece che per farne sgorgare qualcosa, non importa se parole o un miscuglio di succhi gastrici e pezzi di ciò che aveva appena mangiato, per lei l’essenziale era che il fatto che il suo esofago non fosse un tubo di scarico ma la sua bocca una sorgente. Un giorno un amico, in cui mi ero imbattuto agli incontri di una sorta di strana setta ibrida che sembrava l’incrocio tra due bestie di due specie diverse o l’innesto della chioma di una pianta sul tronco di un’altra ( simile a una Madrasa fecondata da un corso di una classe di una Scuola di Quarta Via, o qualcosa del genere ) con a capo un tale Al Farid che si latinizzava Alfredo, mi ha convinto a mettermi in contatto con Gabriel Mandel Khan, allora Califa della Dergha italiana della Khalwatiyya ( khalwa = isolamento-dal-mondo/ritiro-spirituale ) Jerrahi, e io gli ho mandato per posta elettronica una domanda di affiliazione alla Tariqa, ma lui mi ha risposto che quello che gli avevo scritto mostrava che ero più adatto alla via della gente del biasimo ( i Malamatiyya ) e l’ha respinta. Tempo dopo, senza alcun motivo apparente, mi ha proposto di partecipare ad un giro-turistico/pellegrinaggio in Turchia ( moschee, tombe di santi, e la casa madre della confraternita ) con campo base a Istanbul. Siccome non lavoravo non avevo soldi per comprare il biglietto del viaggio in aereo né per pagare la permanenza ( vitto e alloggio per una settimana : pernottamento in albero e pasti al ristorante ) mi sono consultato con il mio mecenate Antonio che si è immediatamente offerto di accompagnarmi e coprire le spese per entrambi, ma lo Shaykh, a cui ho sottoposto problema e soluzione, mi ha specificato che lo scopo dell’invito non era quello di aumentare il numero dei componenti del gruppo, e mi ha ribadito che restava riservato a me perché a me era stato rivolto. In cuor mio ci avevo già rinunciato ma la mattina successiva Antonio, sconvolto, mi ha raccontato il sogno che aveva fatto quella notte : gli era apparso un tipo in caftano e turbante ordinandogli di finanziarmi la trasferta altrimenti l’avrebbe obbligato a farmi percorrere quella distanza galoppando a dorso di un cavallo.
Mi sono unito al resto della compagnia quando il volo proveniente da Milano ha fatto scalo a Fiumicino, e insieme ai suoi due discepoli romani che abitavano ad Anguillara Sabazia sul lago di Bracciano, sono salito anch’io, l’unico intruso. Ho preso posto, e il Maestro mi ha chiesto se trovavo che il suo comportamento nei miei confronti fosse stato contraddittorio, come lo giustificassi, se ero curioso di sapere per quale ragione aveva cambiato idea sulla mia idoneità – ovviamente sì ! Gli era apparso in sogno il fondatore Zahir al-Din ’Umar al-Khalwati ( o il riformatore Nurettin Jerrahi ? ) per comandargli di trasmettermi la Baraka ; e mi ha imposto il nome Mansur Al-Haqq ( Allah è Vittorioso e Veritiero ). Questo episodio ha avuto un esito tragico : Antonio l’ha interpretato come l’ennesima conferma di una convinzione, consolidandola graniticamente, che aveva gradualmente concepito, e che formulava in questi termini tremendi : “il prisma che rifrange la luce solare bianca scomponendola nello spettro dei 7 colori dell’arcobaleno, è la pietra filosofale che noi ci sforziamo di fabbricare, è l’elisir della panacea di cui tentiamo la distillazione, è il sacro Graal del quale andiamo brancolando vagabondi alla ricerca noi – non tu che già ce l’hai ” ; si è messo in testa che io fossi un Afrad, Avatara, un Bodhisattva, un Trulku, che fossimo io un eletto e lui un reietto, io un pneumatico e lui un ilico, io un prescelto e lui un predestinato alla dannazione, e gli è venuta meno ogni speranza di salvezza, si è lasciato andare all’accidia, alla gelosia, all’indolenza, all’invidia, alla rabbia, lentamente logorandosi alla lunga il suo equilibrio si è esaurito, scalciando sotto il peso da cui si sentiva schiacciato senza poterlo sollevare al di sopra di sé per scagliarlo in un luogo lontano, con l’anima ormai intossicata dallo scuro fumo di cui un fuoco non spento ma soffocato sotto uno spesso strato di cenere riempiva la sua atmosfera mentale senza illuminarla né riscaldarla, non all’altezza di affrontare la visione del fallimento che come un finale fatale gli profilava all’orizzonte un evento che mai avrebbe evitato, si è buttato dal balcone. Lo shock del suo suicidio ha segnato la sorte di quel nostro cenacolo giovanile decretandone lo scioglimento. And last but not least ( dulcis in fundo aut in cauda venenum ? ) punto numero 7 : dunque perdonami, Chiara : anche se ti avessi chiamata quasi ogni giorno vent’anni fa, non credo che avrei avuto da dirti qualcosa che ti potesse interessare.
Vittorio Mansur Paolorfeo Al-Haqq Varano