14 Maggio 2024
in memoriam

Petali di ciliegio: Franco Francesco Stefano…

Posso considerarmi fortunato se, dalla notte dell’ultimo dell’anno, sono in uno stato di disagio fisico – con tutti i segni dell’influenza, senza però la soddisfazione di un bel febbrone a giustificare lo stato di malessere il bisogno di starmene a letto i brividi e i dolori alle ossa… Direi di sì e, ovviamente, in merito a quanto mi accingo a scrivere. Tendenze al masochismo, fatalismo e decadenza, nichilismo sono oggetto di riflessione, ma ho detto sovente e in modo esplicito come il denunciare la decadenza ed essere un decadente non sono la medesima cosa, anzi… e Nietzsche insegna, nonostante i ronzini abbracciati in piazza Carlo Alberto nella ‘sua’ amata Torino e gli undici anni di follia muta.

Così ho trascorso la sera del 7 gennaio tra il letto un libro e la tastiera del computer. Sì, se mi fossi sentito in forze, sarei stato al Foro Italico, sotto l’obelisco Mussolini, con quei cinquanta-sessanta amici e camerati di vecchie battaglie e qualche occasione da ritrovarci nell’oggi. Tengo a precisarlo. Perché la scelta di un gesto di discontinuità e la sua motivazione l’avevamo decisa insieme e così certa sobrietà del comunicato proprio per non essere fraintesi in una sorta d’ennesima lacerazione. Pollicino mi ha postato tre minuti di filmato della cerimonia svoltasi appunto sotto l’obelisco, quel richiamare tre volte ‘i camerati assassinati’ e salutare con il braccio piegato sul petto e la mano a pugno. Se fossi stato là, io stesso…

Non sono certo in grado – e, forse, mi cura poco saperlo – di valutare se e quanto questo gesto sia stato rettamente inteso o frainteso o caduto nell’oblio o in facile ironia (la più comoda economica forma per chi, per dirla con Nietzsche, ‘tutto sa di porco’!). E, dunque, scrivo per collocare la mia riflessione, significativa o ‘vaghe stelle dell’Orsa’ che sia (da Charles Baudelaire: ‘il Poeta non è di alcun partito, in caso contrario, sarebbe un semplice mortale’ tanto per mantenere un profilo basso e modesto), su queste pagine affinché non restino simili a muri puliti o pagine bianche di un diario mai scritto… di un vecchio acciaccato che s’è rintanato in casa rancoroso e catarroso.

Dall’Ecclesiaste traggo come l’uomo sia preda del tempo e delle circostanze, per cui il suo valore è soggetto ad altro – la storia l’economia la biologia – così che Carlo Marx può considerare la coscienza, del resto egli è pur se laicizzato voce di certo profetismo ebraico, subordinata allo status sociale. Le cose del mondo vanno, dopo Copernico, seguendo leggi eterne ed immutabili come le leggi del profitto, a quanto pare. L’astuzia hegeliana della ragione o i rapporti di classe si differiscono solo per chi privilegia l’uno rispetto all’altro. Del resto troppa filosofia e dintorni s’è giocata la primogenitura, la scienza delle scienze, difendendo il principio di necessità, la sua universalità, respingendo ai margini lo scarto del particolare (gli amici quali Max Stirner e Nietzsche s’è diffidato di loro e se si poteva parlare di un loro filosofare)… Ma questi sono gli appunti da professore, modesto, di qualche liceo ove ex cathedra ognuno si sentiva un re. Oggi – lo confesso – mi spingono allo sbadiglio.

I vivi – non i morti – subiscono l’incuria dell’oggi che, resosi nel tempo passato, li trasforma in icone del puro nulla, privi cioè del tratto proprio, oppure li ricopre della mefitica coltre dell’ottenebramento o ancora dell’ingiuria. I morti non hanno parola… Non possono raccontarci se avessero preferito vivere più a lungo e magari ritirarsi nel grigio quotidiano dell’esistenza borghese lavoro famiglia sfilacciando i sogni e gli ideali di cui s’erano nutriti convinti incoscienti per caso o per destino. (Stefano Recchioni, mi raccontava uno dei suoi amici più cari, era in partenza per il servizio militare e in questa partenza, mi sembra nei paracadutisti de La Folgore, vi era anche una sorta di addio alla militanza scuola riunioni manifesti scontri. Erano a cena in una trattoria di via Panisperna, forse aleggiava fra loro un sottile velo di mestizia di abbandono, quando arriva la notizia che ad Acca Larenzia le zecche hanno aperto il fuoco, ci sono camerati al suolo, sangue dappertutto, si va, boia chi molla, la rabbia monta l’adrenalina corre veloce pareggiare il conto, che faccio? Mi tiro indietro? Non è più la mia storia? No, cazzo, non mollo certo ora, vado ed incontro un colpo di pistola di un capitano dei carabinieri, di quelli che faranno carriera anche sul mio corpo di escremento fascista, di esule ovunque… E la pozza del mio sangue sull’asfalto un lavacro ove Franco Anselmi vi immergerà il passamontagna del camerata Mantakas. Rito barbaro premessa di altre morti di altro orrore…). (Il fratello di Franco studiava al liceo Francesco d’Assisi (vi insegnerò dalla fine degli anni ’80 a quando andrò in pensione), zona Centocelle, istituito dal 1968 – data fatidica –, con l’orgoglio stupido e inane d’essere una scuola ‘rossa e democratica’, come mi ribadivano sovente i presunti colleghi, ormai stagionati a proteggere il proprio fallimento. Qui si formò una colonna BR, coinvolta nel rapimento Moro (Germano Maccari), qui si fecero notare altre figure dell’album ‘anni di piombo’ e dintorni. Chissà se vi fu una connessione fra i due fatti? Il tempo e le circostanze hanno disperso quelle storie quei giovani i particolari d’allora. Una professoressa di filosofia, che da studentessa frequentava i coetanei di questo liceo ha forse, involontaria, prestato il suo cognome all’ingegner Altobelli?). Inutili domande, risposte inevase…

Ecco: l’ho scritto all’inizio e, qui, lo ripeto. La salute inadeguata mi ha tenuto a letto, sarei andato al Foro Italico, in alternativa non sarei andato in alcun momento della giornata del 7 gennaio. Qualcuno ha scelto di compiere comunque un gesto sobrio e silenzioso, recandosi fuori dal coro – o dai cori? -, nei luoghi ove sono caduti ‘i nostri’ nel corso di quegli anni (grazie per essersi ricordato di Riccardo Minetti deponendo un fiore fuori delle mura di Regina Coeli). Io non ci ho pensato, me ne dolgo, mi sento troppo stanco… C’è una differenza tra solitudine e isolamento, come m’insegnava il teologo esistenzialista Johannes Lotz; c’è una differenza tra comunità e società come evidenziava l’amico Antonio Saccà.

Gennaio 2013, antistante il portone della sezione. Mio figlio mi ha ritrovato su youtube. Cito a memoria da una breve intervista richiestami al momento. Nel febbraio 1945 un pilota suicida di ventidue anni, caduto in combattimento con il suo monoplano imbottito di esplosivo (kamikaze), prima di decollare per l’estrema sua missione, lasciava il seguente haiku di commiato ‘se solo potessimo cadere – come i fiori di ciliegio in primavera – così puri, così luminosi!’… Nel cielo triste e grigio di Roma, tra i casermoni di questo quartiere popolare, anche Franco Francesco Stefano volteggiano sopra di noi. Tutto il resto conta poco o nulla. Non è così, nonostante l’invito alla leggerezza cantato da Brasillach, l’Occidente s’è nutrito dello spirito di gravità, della pesantezza, e la danza del dio Dioniso rimane per pochi folli e disperati. E il corpo di Franco Francesco Stefano si sono schiantati al suolo, non certo la loro anima nobile di giovani eroi, per alimentare il gioco delle parti del settarismo di quei ‘duri e puri’ che nulla riconoscono di ciò che nell’esistenza si richiede della durezza della purezza. E, sul portone di quella sezione, sgrammaticati annunci modello mensa dei poveri comunicano l’orario del ‘presente!’ ora degli uni ora degli altri… indecenti e servili. (Si racconta come un cavaliere crociato ed uno saraceno si sfidassero nell’elogiare la maestria e la potenza delle loro rispettive spade. Il primo calò un gran fendente su una sbarra di ferro e la spezzò in due, cosa che la scimitarra del secondo s’infranse. Costui, però, con un agile ruotare dell’arma recise un cuscino di seta, mentre lo spadone del primo vi affondava senza portare danno).

La pesantezza, dunque, non la lievità… E quei giovani corpi straziati, abbandonati, di fatto mai vendicati – e non solo in senso militare – rinnovano il grido di dolore sempre più rivolto al cielo muto all’arida terra. Noi, tutti, complici del loro rinnovato assassinio. Coloro che accorsero in quella maledetta sera di gennaio, poi tutte le generazioni successive sempre più protese a misurarsi fra loro a contarsi a distinguersi a giocare un osceno ‘asso piglia tutto’. Morirono per questo, Franco Francesco Stefano? Forse ogni risposta possibile sa ora di retorica, ma ‘ho riposto la mia causa sul nulla’ s’accetta solo tardivamente quando, con i vent’anni, si scolorano i sogni s’ammainano gli ideali e, appunto, si nobilita la solitudine sull’isolamento l’appartenenza a un mero stare insieme (nelle celle di Villa Triste non mi sentii mai solo, ad esempio).

Comunque, sì, posso considerarmi ‘fortunato’ se la salute mi ha trattenuto a casa. Non è una vittoria e non vi è alcun merito, lo so. Riporre la propria causa sul nulla e, in questa fossa comune, avvertire esserci anche l’urlo strozzato di quei giovani, no, non è certo una vittoria… né posso farmi tronfio con Nietzsche quando sentenziava ‘io vivo in esilio per dire la verità’ perché, qui, non alberga verità alcuna…

4 Comments

  • Carlo Tominetti 14 Gennaio 2015

    Presente! Nobis!

  • Carlo Tominetti 14 Gennaio 2015

    Presente! Nobis!

  • Luciano 15 Gennaio 2015

    Grazie !

  • Luciano 15 Gennaio 2015

    Grazie !

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