10 Aprile 2024
Tradizione

L’olimpica confusione di Bachofen – Umberto Bianchi

Quello di Bachofen sul matriarcato, “Le madri e la virilità olimpica”, è un testo di rilevante importanza nell’ambito degli studi sulle interpretazioni dei miti e le loro conseguenti ricadute nell’ambito della storia di una determinata civiltà. Scritto attorno al 1861, questo testo faceva seguito al precedente Saggio sul simbolismo funerario degli antichi (1859) scritto a seguito di alcuni viaggi in Italia ed in Grecia ed avrebbe fatto da apripista ai successivi Il popolo licio (1862), La Saga di Tanaquilla (1870), concepita all’origine come risposta all’avversata Storia romana del Mommsen, sino alle Lettere antiquarie (1880 – 1886), scritta poco prima della morte avvenuta nel 1887. L’opera del Bachofen è tutta incentrata su uno studio di tipo socio-antropologico, dai forti risvolti esoterici, volto a dare dell’antichità dell’uomo, una ben diversa interpretazione da quella che i vari storiografi andavano elaborando, tra cui appunto il Mommsen, per quanto riguarda la storia romana. Il Bachofen interpreta la storia dei primordi dell’umanità in un’ottica di ciclica alternanza tra fasi nelle quali a dominare è decisamente l’elemento matriarcale ed altre in cui, invece, di converso, a dominare è quello patriarcale. Il tutto, corredato da una interpretazione esoterica dei vari simbolismi legati ai fenomeni della rinascita. Il “vulnus” dell’intera opera bachofeniana, sta nella rigidità e nell’eccessiva semplificazione concettuale, tipica di tutti quei pensatori ottocenteschi che da Darwin a Marx, passando per Freud, dalla obiettiva osservazione di alcuni dati incontrovertibili, hanno tratto delle sin troppo rapide e semplicistiche conclusioni. Una cosa è parlare di talune civiltà dell’ambito mediterraneo che, inizialmente conobbero una fase di ginecocratico predominio, altro è operare una netta ed incontrovertibile divisione tra due fasi di civiltà, arrivando ad immaginare due rigidi modelli a compartimenti stagni, per cui una determinata civiltà presenterebbe al proprio interno influenze direttamente derivanti dalla precedente fase, in un rigido e sin troppo schematico disegno. Ed in questo, si ravvisa tutta la cedevolezza della costruzione del Bachofen.

Dopo aver esordito con una prima classificazione tra le varie forme di ginecocrazia, amazzonica, eterica e quella più classica, il nostro parte alla carica, prendendo di mira tutte le civiltà che gli capitano a tiro. Così verremo a sapere che quella egiziana a causa della presenza della Dea Iside, era un civiltà ginecocratica o giù di lì, dimentico che, quella egiziana fu una civiltà impostata, tra l’altro, sul culto maschile e solare di Ra, il Dio-Sole. Con la stessa frettolosa impostazione si ravvisano elementi di ginecocratica influenza nell’area mesopotamica, anche qui dimentichi che, ad una fase di iniziale aderenza ad alcune forme di cultualità ctonie, basate sulla compresenza di Cielo/Terra ed Acqua in cui, però, già il Cielo aveva una parte di primaria importanza, sarebbero succedute forme di religiosità ancor più impostate sull’elemento uranico, come nello specifico caso della religiosità assiro-babilonese.

Ma, dove il Nostro si scatena e perde ogni freno, è nell’ambito della civiltà classica. Si comincia con i miti fondativi di Roma, tra cui quello di Tanaquilla, nel quale il nostro ravvisa nuovamente influenze da lui chiamate “asiatiche”, ovverosia ginecocratiche, conferendo, tra l’altro, al Vicino Oriente, una valenza assolutamente fuori da ogni realtà (…). Non solo. Tali sinistre e femminee influenze, addirittura si ravviserebbero in talune forme di ritualità, coinvolgenti le nobili ed altere matrone romane, dal nostro sospettate di essere delle etere sotto mentite spoglie. Sotto questa ottica, la Storia, per il nostro, diviene così un alternarsi tra forme di dominio femminile (negativo…), ravvisabili in espressioni quali la condivisione della proprietà, una concezione della vita legata a valori materiali, sino alla tanto aborrita rilassatezza di costumi, che ha in Dioniso, la propria figura centrale. Di converso, la concezione maschile è più uranica, spirituale e legata ad aspetti di vita concreti e “patriarcali” quali la proprietà privata.

E così abbiamo una Roma imperiale, maschile e solare, qua e là attraversata da pericolosi rigurgiti di femminea decadenza…di contro ad una Etruria, “asiatica” e mortifera…Ma la vera ciliegia sulla torta, il nostro la riserva al povero Pitagora che, bontà sua, ebbe la pessima idea di riservare dei ruoli di rilievo a personale femminile, all’interno della propria scuola, in tal modo attirandosi gli strali del Bachofen che, senza esitazioni, lo collocherà nella lista dei sospetti di sovversiva e decadente ginecocrazia. Che quella di Pitagora sia stata una figura complessa e di non facile interpretazione, è cosa risaputa, sin dai suoi tempi. Tant’è vero che, il pensatore fu fatto oggetto di alcuni feroci strali, da parte del burbero ed oscuro Eraclito, con un conseguente strascico polemico.

Ma un fatto del genere, non può autorizzare nessuno, a ridurre la figura di uno dei più importanti e complessi pensatori della Storia, ad un propalatore di strampalati stili di vita, ben lontani da quelle che, invece, erano le rigorose regole che sovrintendevano la vita delle varie scuole pitagoriche. E questo ce la dice lunga sulla faciloneria e sugli evidenti limiti del pensiero del Bachofen che, di questo passo, finisce con il dare del mondo antico un’idea sin troppo schematica, divisa in “maschi” e “femmine”, in buoni e cattivi, compartimentata per generi tali, da dar luogo ad una vera e propria forma di innaturale e fuor di luogo, bigottismo maschilista, totalmente dimentico della natura variegata e poliedrica delle varie espressioni del politeismo mediterraneo.

I richiami a figure divine femminili ed a ritualità a queste riferentesi, non debbono per forza essere interpretati quali rimasugli di precedenti fasi matriarcali, bensì possono ben essere inquadrati in un più ampio lavoro sia di sintesi e sincretismo tra differenti fasi culturali, operato nel nome dell’accettazione di una realtà aperta al molteplice. Qui maschile e femminile, convivono nel nome di un tutto armonico, in cui a sovrintendere è il principio di ananke/necessità, per il quale ogni polo attrae il suo opposto. Il maschio attrae la femmina, il bianco il nero, il bene il male e viceversa, in un’infinita e ciclica catena di interazioni e concause. E così, mentre accanto al Faraone egizio, siedono regine splendide e sorridenti, prive di timori o complessi di inferiorità,di sorta, mentre splendide figure di dee, ma anche sacerdotesse, regine o nobildonne fanno la loro figura nei rilievi mesopotamici, tutti i pantheon indoeuropei, dall’India alla Grecia, passando per il Latium Vetus, vedono convivere, l’uno accanto all’altro, Dei e Dee superbe; qui il femminile è parte costitutiva ed integrante del creato, in quanto interagisce e, senza remora alcuna, opera attivamente all’interno del Kosmos e sulle umane vicende. L’antica predominanza matriarcale di alcune società, ora si stempera in favore di una più vasta ed articolata concezione dell’Essere, ora sempre più aperta a quel Molteplice che, del Politeismo costituisce la caratteristica portante. L’Essere, in quanto molteplicità di espressioni del numinoso, contempla al proprio interno il femminile. Il nostro Bachofen finisce, invece, per dare del politeismo mediterraneo, greco romano in particolare, un’immagine distorta, conferendo a quest’ultimo una valenza di bigotto maschilismo, frutto delle influenze della Svizzera calvinista e protestante. Un bigottismo misogino ed ottuso, che sfiora l’esaltazione di quella forma di pederastia mentale, che aleggia e sovente pervade di sé tutte e tre le espressioni del Monoteismo abramitico.

Tutto da buttare, quindi, il nostro Bachofen? Tutt’altro. Il suo contributo è stato tutt’altro che irrilevante. L’idea di un uso del mito, al fine di interpretare le società al quale esso è riferito, al pari dell’idea di una fase matriarcale che nella psicologia del profondo, corrisponde all’indistinzione della personalità, precedente il momento dell’individuazione di quest’ultima (Erich Neumann Wilhelm Reich ed Erich Fromm, oltrechè in primis, Freud e Jung…), o, anche da un punto di vista più propriamente politologico, sia da destra con autori come Julius Evola, Ludwig Klages, Alfred Baeumler, sia da sinistra con Walter Benjamin, al pari di Karl Marx e Friedrich Engels, rappresentano delle intuizioni di non poco conto. Il tutto, senza voler contare la sua influenza, nel campo delle ricerche storico-antropologiche di studiosi come Marja Gimbutas. L’idea di una impostazione del sapere legata alla “complessità”, quale ora si va prefigurando, sta definitivamente mettendo all’angolo o , quanto meno, ponendo sotto una ben diversa luce, molte delle intuizioni scientifiche del 19° e del 20° secolo.

Una realtà aperta, estroflessa, dai molteplici ed inaspettati aspetti, va prefigurandosi, in contrapposizione al grigiore ed all’uniformità del sapere globalizzato, e questo, in tutti i campi del sapere. Un confronto, il cui esito per ora, non è scontato, né ci è dato supporne la conclusione. Restano aperti e validi, i motivi di riflessione sull’inattualità di certe intuizioni scientifiche, come nel caso qui trattato.

 UMBERTO BIANCHI

 

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