11 Maggio 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, ventiquattresima parte – Fabio Calabrese

Ricominciamo l’analisi delle novità riguardanti la nostra eredità ancestrale a partire dai primi di maggio.

C’è da segnalare la comparsa di un nuovo sito dedicato anche, ma non esclusivamente a queste tematiche, rubrics.it, che ha esordito il 29 aprile con un articolo a firma di Massimo Izzo, Falsi archeologici, matriarcato neolitico e Grande Dea.

La questione sollevata è intrigante: è veramente esistito quel matriarcato preistorico di cui ci hanno parlato Bachofen, Gordon Childe, James Mallaart e soprattutto l’antropologa lituana Marija Gimbutas?

Secondo Izzo, questa convinzione riflette convinzioni moderne, femministe e New Age piuttosto che la reale situazione neolitica. Come è noto, essa è basata soprattutto sul ritrovamento di un gran numero di statuette femminili generalmente interpretate come dee madri, ma, ci dice l’autore, questa è una vera e propria deformazione statistica, infatti sono state ritrovate un numero all’incirca uguale di statuette maschili o di sesso indefinito, che non sono state prese in considerazione.

Queste dee madri appaiono spesso consunte da un uso intenso (non sappiamo quale, ma potrebbero essere state i giornali porno dell’epoca?) per essere poi gettate in discariche o latrine, talvolta presentano, oltre all’obesità e all’esagerazione degli attributi sessuali, ci dice Izzo, segni espliciti di vecchiaia e di morte. Inoltre, ci informa l’autore, bisogna osservare il contesto in cui furono ritrovate, non un contesto religioso che autorizzi l’idea di una loro venerazione, ma di tipo del tutto profano. Ad esempio, una fra le più famose, la figura di donna obesa assisa su un sedile affiancato da due leoni rinvenuta nella località anatolica di Catal Huyuk non fu trovata in un tabernacolo, ma all’interno di un contenitore di granaglie.

Io non vorrei dare in proposito un giudizio definitivo, ma mi sembra quanto meno prezioso l’avvertimento dell’autore a non guardare al passato con i pregiudizi e i paraocchi di oggi.

Come credo di avervi spiegato più di una volta, i gruppi facebook, anche quelli “nostri” e anche laddove si occupano di tematiche attinenti la nostra eredità ancestrale, rappresentano qualcosa che, a meno che non sollevino questioni di grandissima rilevanza, è meglio ignorare.

Probabilmente, il fatto di poter scrivere “in rete” e quindi di potersi rivolgere a un uditorio teoricamente illimitato (anche se in pratica questi gruppi non sono seguiti che da qualche centinaio di persone, un numero inferiore di almeno due ordini di grandezza a quello dei lettori di “Ereticamente”), genera un falso senso di onnipotenza.

Nella pratica, noi abbiamo visto da parte di costoro non soltanto l’assenza di una qualsiasi gratitudine per la “cassa di risonanza” loro offerta, ma puntigliosità e litigiosità estreme.

Il peggio è che tali atteggiamenti talvolta saltano fuori all’improvviso là dove meno te li aspetti.

Un caso emblematico è quello di una certa signora che all’improvviso mi ha chiesto di non essere più nominata nei miei scritti, sebbene non mi fossi mai riferito a lei se non in termini positivi. E fin qui, non avrei avuto difficoltà ad accontentarla, ma ha anche preteso la cancellazione di qualsiasi riferimento a lei da tutti i miei articoli già apparsi su “Ereticamente”.

Quello che mi ha dato veramente fastidio non è stato tanto l’atteggiamento sgarbato e minaccioso assunto all’improvviso da una persona che credevo amica (per la cronaca, se esiste il reato di diffamazione, non mi pare proprio che ci sia quello di lode a mezzo stampa), ma la seccatura che si sono dovuti assumere gli amici di “Ereticamente” per espungere il nome della signora dai miei pezzi, perché gli articoli da me finora pubblicati su “Ereticamente” sono qualche centinaio, uno a settimana, 52 all’anno.

Non basta, perché poi la suddetta è tornata alla carica polemizzando con me su di una faccenda non marginale, riguardo alla quale vorrei dare un chiarimento non per dare soddisfazione a lei, ma per permettere a voi di avere le idee ben chiare in proposito.

L’assunto che gli Europei di qualche decina di migliaia o di qualche migliaio di anni fa, avessero la pelle scura, sebbene oggi si tenda a presentarlo come un fatto “scientificamente accertato” (anche a mezzo di falsi, come la fantasiosa ricostruzione dell’uomo di Cheddar), in realtà è semplicemente un corollario del dogma dell’Out of Africa.

Questa è “scienza” americana, perché i ricercatori russi, liberi da preoccupazioni ideologiche, sono di opinione affatto diversa (oggi, in campo scientifico, sembra di assistere a una sorta di guerra fredda a parti invertite).

Ora, riguardo a questo tema, avevo riportato (L’eredità degli antenati, sedicesima parte) la notizia, ripresa dal sito russo antropogenez.ru, che l’esame del DNA dei resti di un cacciatore siberiano risalenti a 45.000 anni fa rinvenuti nella località di Ust’-Ishim, ha evidenziato i geni per la depigmentazione, ossia la pelle chiara e gli occhi azzurri.

La suddetta signora mi ha attaccato contestando l’autenticità della notizia, ma se c’è qualcosa di campato in aria, privo di fondamento, è proprio questa contestazione, perché dell’uomo di Ust’-Ishim parla anche Wikipedia, che riferisce trattarsi del più antico fossile umano il cui DNA completo è giunto intatto fino a noi. L’analisi del DNA è stata compiuta presso l’Istituto Max Planck per l’antropologia evolutiva di Lipsia.

Indipendentemente dal caso specifico rappresentato da questa signora, abbiamo l’occasione di ribadire un concetto fondamentale: contrariamente a quanto tendono a insinuare tutte le favole out-of-africane, i fatti ci dimostrano che gli Europei si rivelano essere sempre stati europei fin là dove è possibile scorgere le loro tracce. Domani, a causa di immigrazione e meticciato, rischia di non essere più così, ma questa è decadenza, sostituzione etnica, delitto contro la nostra gente.

Come vi ho spiegato altre volte, parlare dei lavori di altri collaboratori di “Ereticamente”, riesce problematico perché da un lato c’è il rischio di creare attorno a qualche divergenza interpretativa, conflitti interni alla nostra redazione, dall’altro quello di creare un doppione di cose già presenti altrove sulle nostre pagine. Tuttavia, è forse impossibile, vista la tematica affrontata, non dire qualche parola di commento a proposito del nuovo articolo di Alessandro Daudeferd Bonfanti apparso sulla nostra testata il 9 maggio, L’origine dei Siculi e la loro migrazione fino in Sicilia.

Se vi ricordate, vi ho già detto alcune parole di commento circa il precedente articolo di questo nuovo collaboratore: L’Urvolk della cultura megalitica e del bicchiere campaniforme: un’Europa indoeuropea ab imis, articolo che, a parte il tema specifico, è stato un po’ il biglietto da visita di Bonfanti, di cui è impossibile non rilevare il notevole spessore culturale e l’approfondita preparazione, e il suo arruolamento nelle nostre file, se vogliamo, è una dimostrazione in più del fatto che in questi anni “Ereticamente” è riuscita non solo a presentare e a rappresentare una certa visione del mondo, ma a fare cultura nel senso pieno del termine.

Veniamo all’argomento dell’articolo: i Siculi. Costoro non vanno associati all’idea che molto spesso non è che un cliché, uno stereotipo che trova poco riscontro nei fatti anche riguardo ai Siciliani di oggi, di individui bruni, tarchiati e possibilmente muniti di coppola. I Siculi erano un antico popolo indoeuropeo le cui remote origini si possono rintracciare nell’Europa centrale, che scesi in Italia soggiornarono a lungo nel Lazio e nelle parti centrali della Penisola, fino a spingersi a sud, fino appunto alla Sicilia sotto la pressione di altre popolazioni.

Bonfanti fa altresì notare che la loro impronta etnica permane presso i Siciliani attuali. Si ritrova infatti frequentemente nella Sicilia interna il tipo umano a pelle chiara e cranio dolicocefalo (Bonfanti usa il termine “ellissoide”) che si riferirebbe a questa antica presenza piuttosto che a immigrazioni più recenti.

Io penso ricorderete che già in precedenza vi avevo fatto notare il fatto che in Sicilia si incontrano fisionomie settentrionali, pelle chiara, capigliature rossicce o bionde con una frequenza che non è spiegabile facendo riferimento, come di solito si fa in questi casi, ai Normanni giunti nell’isola in età medioevale al seguito degli Altavilla, perché questi ultimi rappresentarono una componente davvero troppo esigua, e che bisogna perciò rifarsi a un più antico popolamento di origine centro o nord europea, con ogni probabilità proprio quello dei Siculi. Considerazioni che Bonfanti conferma in pieno.

E naturalmente, non si può tacere il fatto che l’articolo presenta una delle rassegne più esaustive che mi è capitato di vedere, delle altre popolazioni della Sicilia pre-ellenica: Sicani, Elimi, Morgeti, e altre ancora, di cui perlopiù moltissimi, anche presunti esperti, ignorano l’esistenza.

Essendo ben chiaro che questa mia breve sintesi non vi esenta assolutamente dalla lettura dell’articolo di Bonfanti, ampio, corposo, ricco di preziosi riferimenti, a margine si può costatare che i concetti ivi esposti collimano precisamente con quanto esposto in La storia dei Siculi fin dalle loro origini di Claudio D’Angelo, di cui io feci a suo tempo un’ampia recensione sempre sulle pagine di “Ereticamente”.

Io credo di avervelo già detto, e l’avrete comunque notato, credo di avere una cultura ad ampio spettro ed essere sostanzialmente un apripista, e quando si tratta di confrontarsi con il lavoro di uno specialista in un campo specifico, ho sempre il timore che salti fuori qualche svarione in cui posso essere incappato, ed è invece per me fonte di sollievo e soddisfazione constatare come esso collimi con le cose da me a suo tempo asserite, e questo vale per questo nuovo articolo come per il precedente L’Urvolk della cultura megalitica

Nel libro di D’Angelo ci sono comunque alcune estrapolazioni un po’ troppo ardite che i nostri sagaci lettori hanno subito “beccato”, ma di ciò la responsabilità è dell’autore, non mia, e d’altra parte, come si può desumere da un’attenta lettura della recensione, da esse avevo già preso le distanze, pur nell’esigenza di riportare un’interpretazione degna di interesse del remoto passato non solo della Sicilia, ma di tutta la nostra Italia.

“Ansa.it” dell’11 maggio ci segnala una notizia importante ripresa da “Nature Ecology & Evolution” e “Nature”.  La stessa notizia è poi stata riportata anche da Rai News.

Un team di ricercatori dell’Istituto Max Planck per l’Antropologia Evolutiva, tedesco e dell’italiana Università di Bologna, in particolare Helen Fewlass e Jean-Jacques Hublin del Max Planck (quest’ultimo nome suona più che altro francese) e l’italiana Sarah Talamo hanno portato a termine l’analisi al radiocarbonio dei resti umani (in verità alquanto scarsi: un dente e cinque frammenti ossei) rinvenuti nella grotta di Bacho Kiro in Bulgaria.

Bisogna però notare che oltre ai resti ossei nella grotta sono stati ritrovati anche manufatti in avorio e osso e ornamenti in denti d’orso (traforati per formare una collana), ma questo di per sé non aggiungerebbe tantissimo, perché sono un tipo di manufatti che ritroviamo anche presso gli uomini di Neanderthal e altre popolazioni più antiche.

Ebbene, si tratterebbe di resti umani “moderni” risalenti a 45.000 anni fa.

Ora poniamoci una domanda: se noi volessimo attribuire qualche credito all’Out of Africa, come faceva la nostra specie a essere presente in Europa già all’epoca della sua presunta uscita dalla “culla” ancestrale al disotto del Sahara?

D’altra parte, non è nemmeno vero che, come asserisce “Ansa.it”, questi di Bacho Kiro siano i più antichi resti umani “moderni” finora ritrovati in Europa. E la scoperta di Apidima del 2019 è già stata dimenticata, cancellata, posta all’indice?

In questa grotta greca, ricorderete, è stato trovato un cranio umano “moderno” risalente addirittura a 230.000 anni fa, quasi un quarto di milione di anni.

Non c’è niente da fare: la posizione odierna dei paleoantropologi somiglia molto a quella degli astronomi dei secoli XVI e XVII, che quanto più cercavano di salvare il dogma tolemaico del geocentrismo, tanto più accumulavano elementi che lo smentivano.

Forse mi direte che una differenza c’è, che oggi a smentire i dogmi ufficialmente ammessi, quello out-of-africano in primo luogo, non si rischia di cadere sotto le grinfie dell’inquisizione, non si rischia la vita.

Bene, se lo pensate, andate a raccontarlo al professor Poulianos che, “stranamente” ha subito un attentato dopo aver scoperto la straordinaria antichità – 700.000 anni – dell’uomo di Petralona.

Noi dobbiamo essere consapevoli della partita che qui si gioca. Bisogna ricordare che, oltre alla – passatemi il termine – Out-of-Africa paleoantropologica, ne esiste, ne è stata sviluppata in questi anni un’altra che non riguarda le origini remote della nostra specie, ma quelle della nostra civiltà, la civiltà europea che ci si vorrebbe far credere sia stata “colorata” o meticcia fin dalle origini, attraverso le falsificazioni denunciate da Mary Lefkowitz nel libro Not out of Africa (Si veda la quattordicesima parte de L’eredità degli antenati). In altre parole, si sta mettendo in campo una mistificazione enorme della nostra storia, il cui scopo è deprimere l’idea che gli Europei hanno di sé stessi per diminuire le resistenze alla sostituzione etnica, per spingerci a credere che nel meticciato che lentamente uccide la nostra gente, ci sia qualcosa di positivo.

Noi possiamo e dobbiamo rispondere, non solo contestando la falsità di simili assunti e delle mistificazioni della “scienza” democratica, ma tenendo duro sui principi della nostra visione del mondo, e non abbassando mai la guardia.

NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra una “Venere” preistorica, la Venere di Dolni Vestolnice. Queste figurine raffiguravano davvero delle divinità? Al centro: ricostruzione del volto di un cacciatore paleolitico siberiano. Costoro presentavano già 45.000 anni fa i geni per la depigmentazione, erano cioè uomini bianchi. A destra, la necropoli sicula di Pantalica (Dall’articolo di Alessandro Daudeferd Bonfanti).

 

 

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