Poiché i Celti rappresentano una frazione delle popolazioni indoeuropee, e la più antica cultura indoeuropea identificata è la cosiddetta cultura Yamna o Yamnaya stanziata sulla sponda settentrionale del Mar Nero, tra Ucraina, Russia meridionale e Kazakistan attuali, mi sentirei di avanzare un’ipotesi suggestiva di cui mi sento di assumere in pieno la responsabilità, che l’origine più remota degli Indoeuropei vada cercata nell’area di precoce civilizzazione che si era creata attorno al grande lago poi sommerso dal crollo della diga naturale del Bosforo, che i padri degli Indoeuropei ne fossero il ramo settentrionale così come i costruttori di Gobeckli Tepe ne erano il ramo meridionale. Questo spiegherebbe perché i tentativi di identificare l’Urheimat, la patria ancestrale degli Indoeuropei siano finora risultati vani, perché essa si troverebbe sommersa dalle acque di quello che oggi è il Mar Nero.
In questo contesto, comunque, appare chiaro il ruolo di trait d’union fra la scomparsa, chiamiamola cultura pontica, e il mondo indoeuropeo (cultura Yamna e tutto quel che segue) rappresentato da una cultura fra le più enigmatiche del nostro continente, la cultura di Varna.
La cultura di Varna, che prende il nome da questa località che si trova sulla costa bulgara del Mar Nero, risalente all’Età del Rame, tra il 4600 e il 4200 avanti Cristo, ci ha lasciato una necropoli con importanti tumuli funerari nei quali sono stati rinvenuti un gran numero di oggetti, armi e gioielli che testimoniano un’oreficeria sontuosa e stranamente avanzata per l’epoca. In uno di essi, la sepoltura di quello che è stato chiamato “l’uomo di Varna” per antonomasia è stato rinvenuto il corredo funebre più ricco che si conosca di epoca preistorica, che qualcuno ha accostato persino alla tomba di Tutankhamon.
E’ anche possibile ipotizzare una connessione con la cultura Vinca in Romania. Qui, nel sito di Turda sono state ritrovate le cosiddette tavolette di Tartaria (che in realtà nulla hanno a che fare coi Tartari), contenenti esempi di quella che è stata chiamata la scrittura del Danubio, la più antica scrittura conosciuta al mondo, più antica di almeno mille anni dei primi pittogrammi sumerici.
E’ però ora di cercare di capire meglio come si collocano i Celti nel contesto indoeuropeo.
La scoperta delle origini comuni e della sostanziale unità delle lingue indoeuropee è stata fatta dai linguisti tedeschi dell’ottocento. Costoro hanno scoperto che le lingue indoeuropee hanno un’origine comune, e che più si risale indietro nel tempo, più si somigliano, ad esempio nidus, nido in latino, la forma più arcaica era nisdus, molto simile al germanico Nest, oppure Mid-land, “nel mezzo della pianura”, è l’antico nome di Milano, è un etimo celtico, ma potrebbe benissimo essere germanico.
Si è dunque scoperta l’affinità profonda delle lingue parlate nella maggior parte dell’Europa (con qualche eccezione: l’ungherese, il finlandese, il basco), sull’altopiano iranico, nell’India settentrionale.
Il secondo passo è stato quello, risalendo indietro nel tempo attraverso i confronti fra le varie lingue, di ricostruire la lingua originaria, l’Ursprache da cui esse si suppone siano derivate, ma una Ursprache presuppone un Urvolk, un popolo originario che l’abbia parlata, e una Urheimat, una patria originaria in cui esso fosse stanziato, perché società multietniche o lingue il cui uso sia esteso a popoli completamente diversi, come avviene oggi per l’inglese, sono fenomeni moderni con poche eccezioni nell’antichità (il greco nell’età ellenistica, il latino nell’impero romano), e che comunque presuppongono organizzazioni sociali complesse impensabili nella preistoria.
E a questo punto le cose si complicano, perché questi linguisti commisero un errore fondamentale che avrebbe sviato per decenni tutta la ricerca. Essi identificarono l’Urheimat indoeuropea con l’India, a motivo del fatto che i più antichi testi scritti che si conoscano redatti in una lingua indoeuropea sono i Veda, i testi sacri della religione indiana, redatti in sanscrito. Ora, l’attribuzione indebita è palese: il fatto che il sanscrito dei Veda sia la più antica lingua indoeuropea di cui abbiamo una testimonianza scritta non implica necessariamente che esso sia stato la prima lingua indoeuropea a essere parlata. Ma bisogna considerare che di mezzo c’era (e c’è ancora per i ricercatori che a tutt’oggi seguono questa pista) il fascino morboso, insidioso e sempre fuorviante dell’oriente, quello strabismo orientale che ho più volte denunciato. Consideriamo che all’epoca vi erano state una più approfondita conoscenza del mondo egizio in seguito alla traduzione dei geroglifici, la scoperta delle antiche civiltà mesopotamiche, poi ancora scoperte eclatanti come quella dei tesori contenuti nella tomba di Tutankhamon che diffusero nei primi decenni del XX secolo una vera e propria egittomania. E’ impossibile sottovalutare l’impatto psicologico di tutto ciò. Ex Oriente lux, era il mito in cui tutti erano portati a credere.
Per inciso, mi permetto di ricordare che il sottoscritto sul sito dell’Associazione Culturale “Ereticamente” (ereticamente.net) ha dedicato ben 35 articoli raggruppati sotto il titolo Ex Oriente lux, ma sarà poi vero?, ad analizzare e sfatare questo mito della “luce da Oriente” e, a mio parere, l’argomentazione più forte e risolutiva sono proprio i grandi complessi megalitici europei: Stonehenge in Gran Bretagna, Carnac in Bretagna, Newgrange in Irlanda, e via dicendo, che precedono le piramidi egizie e le ziggurat mesopotamiche di secoli e millenni.
D’altro canto, basta esaminare una carta geografica per rendersi conto che l’India è la parte più marginale di un’area di diffusione delle lingue indoeuropee che fino al 1492 arrivava fino a Gibilterra, inoltre quando gli Aryas sono giunti nel subcontinente indiano, esso era già densamente popolato da una popolazione etnicamente e linguisticamente diversa, i Dravidi, e se guardiamo bene, tutto il sistema delle caste che è durato in India per millenni, è stato concepito allo scopo di impedire mescolamenti di sangue, di tenere separate le due popolazioni. Tutto ciò rende fortemente inverosimile l’India come Urheimat indoeuropea, e se ci pensiamo bene, lo stesso termine “indoeuropei”, con la preminenza accordata al subcontinente asiatico, è mal scelto. “Euro-Indo-Iranici” sarebbe stato più appropriato, anche se, fatta questa precisazione, mi atterrò all’uso invalso.
Ricostruendo i rapporti fra le lingue indoeuropee, per così dire il loro albero genealogico, è apparso chiaro che per prima cosa è avvenuta una suddivisione dell’indoeuropeo in due grandi rami, occidentale e orientale, che i linguisti hanno denominato del centum e del satem, secondo la forma assunta dal numerale cento. Nel ramo occidentale (centum) rientrano i linguaggi celtici, germanici, latini, il greco; nel ramo orientale (satem) le lingue slave e indo-iraniche.
C’è però quella che a prima vista parrebbe una notevole eccezione a questo schema. La regione dell’Asia centrale nota come Sinkiang, oggi politicamente cinese, e dai cinesi ribattezzata Xinjiang è abitata da un popolo di lingua turca e religione islamica, gli Uighur. Qui si trova uno dei deserti più aridi del nostro pianeta, il Takla Makan, che le popolazioni locali chiamano “il luogo dove si entra e da cui non si esce”. In questa zona, nei pressi della località di Cherchen sono venute alla luce diverse mummie, che non sono, come quelle egizie, prodotti di imbalsamazione, bensì mummie naturali, cadaveri che l’estrema aridità della zona ha mantenuto in uno stato di conservazione pressoché perfetto. Si tratta probabilmente dei resti di persone che vivevano qui quando il clima era molto diverso e più propizio all’insediamento umano. Le più antiche risalgono a 4.000 anni fa.
E qui arriva la sorpresa, perché queste mummie non presentano alcuna caratteristica cinese o mongolica: sono i resti di persone di alta statura, pelle chiara, lineamenti prettamente europidi, capelli biondi o rossicci, e i resti dei loro abiti e gli oggetti che formavano il loro corredo funebre hanno spinto i ricercatori a battezzarle immediatamente come mummie “celtiche”.
Cosa ci facevano dei Celti nel pieno dell’Asia centrale?
Con ogni probabilità costoro appartenevano all’antico popolo dei Tocari che un tempo popolava il bacino del fiume Tarim, ma detto questo, il mistero è tutt’altro che risolto, infatti i Tocari ci hanno lasciato dei documenti scritti, e sappiamo che parlavano una lingua indoeuropea, ma non, come verrebbe da pensare, appartenente al gruppo del satem, bensì a quello del centum.
Io penso che il mistero abbia un’unica soluzione. Questa popolazione deve essere stata il frutto di una migrazione relativamente tarda, comunque posteriore alla suddivisione dell’indoeuropeo in satem e centum, che ha percorso un cammino esattamente inverso a quello che sembra il solo che gli archeologi riescano a prendere in considerazione, spostandosi dall’Europa fino al centro dell’Asia, una popolazione “celtica” o perlomeno affine ai protocelti di Hallstatt.
Ma la storia non finisce qui. Nelle alte valli del Pakistan e dell’Afghanistan troviamo una popolazione bianca ed europide suddivisa nelle tribù dei Kalash e degli Hunza. Non solo presentano caratteri prettamente europidi, ma si mantengono testardamente e coraggiosamente pagani in un mondo islamizzato, ragion per cui nei secoli sono stati vittime di feroci persecuzioni da parte dei loro vicini mussulmani, persecuzioni che non sono cessate neppure oggi. L’analisi del DNA ha dimostrato una costituzione genetica di tipo europeo, con affinità con i tedeschi e gli italiani.
Secondo una nota leggenda, costoro sarebbero i discendenti di una legione perduta di Alessandro Magno. Improbabile, perché quando Alessandro giunse nella regione, costoro vi erano già presenti. L’ipotesi che mi sento di avanzare, è piuttosto che essi siano discendenti degli antichi Tocari, che il progressivo inaridimento del Takla Makan, oggi trasformatosi nel tremendo deserto che conosciamo, ha costretto a migrare altrove. Celti perduti, potremmo dire, ai quali vorremmo essere vicini in ogni modo, anche per la loro resistenza contro la più fanatica e intollerante delle religioni.
Non finisce qui, perché Felice Vinci, l’autore di Omero nel baltico, nel suo nuovo libro, I misteri della civiltà megalitica ci dà notizie di un’altra popolazione europide dell’Asia centrale oggi politicamente cinese, i Wendat. A pagina 308 del libro è riportata la foto di un gruppo di Wendat, e si resta impressionati dai lineamenti prettamente europei della gente che vi si scorge. Io mi sentirei di ipotizzare che anche i Wendat traggano origine dall’antica migrazione tocaria.
Se dunque partiamo dal presupposto che i Tocari siano stati il frutto di una migrazione di indoeuropei occidentali centum verso il centro dell’Asia (per quanto il concetto di una migrazione da occidente verso oriente sembri impossibile da mandare già per gli archeologi accademici pesantemente afflitti da strabismo orientale), il quadro che ci si presenta è piuttosto chiaro. Rimane un’importante questione sul tappeto: nell’ambito del gruppo indoeuropeo del satem, chiarire il rapporto fra slavi e indo-iranici.
Coerentemente con l’ipotesi, a mio parere del tutto infondata, di un’origine indiana o indo-iranica degli indoeuropei, si è voluto vedere negli slavi il frutto di una migrazione proveniente dal subcontinente indiano o dall’altopiano iranico. Ancora adesso, se si consulta Wikipedia, si vede che le popolazioni dell’antichità che possiamo considerare proto-slave come i Sarmati e (forse) gli Sciti, sono indicate come indo-iraniche. Wikipedia è oggi forse la rassegna più vasta che esista del sapere mondiale, ma questo non esclude la possibilità di trovarvi anche delle sciocchezze.
Si tratta sempre dello strabismo orientale, del fascino insidioso dell’Ex Oriente lux che condiziona e fuorvia la ricerca delle nostre origini, una volta di più, i ricercatori hanno girato il binocolo dalla parte sbagliata.
E’ invece probabile che l’altopiano iranico e il subcontinente indiano siano stati invasi da una popolazione affine agli Slavi proveniente dall’angolo sud-orientale dell’Europa.
Una recente ricerca genetica (2020) ha dimostrato fra le classi alte dell’India (bramini e ksaytria), cioè quelle che si suppone discendano più direttamente dagli aryas conquistatori, una concentrazione di geni “europei” significativamente più alta di quella della popolazione indiana in generale.
E’ interessante notare il fatto che i media indiani hanno presentato al pubblico i dati di questa ricerca interpretandoli esattamente al contrario, come una negazione della realtà storica dell’invasione ariana dell’India che invece questa ricerca dimostra. Sicuramente hanno ritenuto che il pubblico avrebbe trovato disturbante il fatto di sapere che la propria cultura deriva da un’invasione. Ma quel che la gente pensa non ha il potere di modificare la realtà: per secoli gli uomini hanno pensato che la Terra fosse piatta (c’è anche chi lo pensa ancora), ma questo non ha appiattito la sfericità del globo terrestre nemmeno di un pollice.
Torniamo ai nostri Celti: noi possiamo concludere che le lingue e le popolazioni celtiche rappresentano una diramazione del ramo occidentale, centum, degli indoeuropei, che si è distaccato dal satem che è probabilmente quello più ancestrale, migrando verso occidente a partire dall’Europa centro-orientale. Abbiamo visto anche che le strutture megalitiche, passando da quelle più antiche alle più recenti, compiono un’analoga “migrazione”, che è anche nello stesso tempo un’evoluzione che partendo dalle semplici forme a terrapieno del roundel, arriva man mano ai grandi complessi megalitici di Stonehenge, Avebury, Newgrange (lascerei qui da parte il grande campo megalitico bretone di Carnac, che non ha una struttura particolarmente complessa, sono lunghe file di “semplici” menhir allineati, probabilmente con un uso funerario, ciascuno di essi pare contrassegnare una sepoltura).
A questo punto, considerando il parallelismo dei due “movimenti”, degli uomini e delle pietre, non mi pare esista più nessun motivo ragionevole per mettere in dubbio la stretta connessione fra i monumenti megalitici e la cultura celtica.
Tuttavia, sarà il caso di sottolineare che questo movimento da est a ovest è un movimento interno all’Europa e riconoscerlo non ha nulla a che fare con quello strabismo orientale di cui vi ho detto. L’Austria, ad esempio, dove è emersa la cultura di Hallstatt, ad esempio, si trova certamente a est rispetto ai grandi complessi megalitici atlantici: Stonehenge, Carnac, Newgrange, ma nessuno la confonderebbe di certo con l’Oriente favoloso (e la cui sontuosità probabilmente è esistita solo nelle favole) delle Mille e una notte.
Tuttavia lo strabismo orientale continua a colpire, o meglio a farci sbagliare il tiro, a spingerci a cercare le nostre radici dove certamente non sono, in Egitto, in Medio Oriente, in India.
Nel gennaio 2006 i giornali “Il Piccolo” di Trieste e “Il Messaggero Veneto” di Udine iniziarono la pubblicazione dei volumi di un’enciclopedia tematica del Friuli Venezia Giulia redatta in collaborazione con il Touring Club Italiano. Quello che ci interessa in particolare è il secondo volume dedicato alla storia della regione. A pagina 42 leggiamo:
“In questo periodo, come già sottolineato, la regione che si estende dal fiume Livenza alle Alpi Carniche era occupata stabilmente dai Celti, popolazione nomade di probabile origine mesopotamica”.
Ohibò, e da dove salta fuori una castroneria del genere? I Celti erano (e sono) fuori da ogni possibile dubbio una popolazione europea: le lingue celtiche fanno parte del ceppo occidentale delle lingue indoeuropee (ceppo del centum), assieme alle lingue germaniche e romanze, al latino ed al greco; le loro più antiche sedi conosciute si trovano nella Gallia (odierna Francia), nelle Isole Britanniche e in Germania, e nulla, assolutamente nulla li ricollega alla Mesopotamia od al Medio Oriente.
Ora, come certamente chi di voi ha seguito in questi anni le conferenze che ho tenuto al Triskell ricorderà che mi sono occupato di vari argomenti riguardanti il mondo celtico e la cultura celtica, dal Ciclo Bretone e il mito del Graal di cui mi sono occupato nel 2015, alle due dedicate alla narrativa di heroic fantasy di cui vi ho parlato l’anno scorso, che è, potremmo dire, una diretta filiazione o resurrezione nell’età moderna, del mondo fantastico dei Celti, basta pensare per tutti al Signore degli anelli, il ciclo narrativo ideato da John R. R. Tolkien, tuttavia avrete facilmente riscontrato che il tema del megalitismo è quello che ho trattato con maggiore ampiezza. Ho cominciato nel 2016 con una conferenza su Stonehenge, per passare poi nel 2017 ad esaminare il fenomeno megalitico nelle Isole Britanniche, nel 2018 mi sono dedicato all’Europa continentale, soffermandomi in particolare sull’ancora oggi assai poco conosciuto megalitismo dell’Europa dell’est. Nel 2019 è stata la volta dell’Italia, e nel 2020 vi ho portati ancor più in casa nostra, parlando del megalitismo triveneto, e il motivo di ciò è precisamente il fatto che le costruzioni megalitiche, spesso ben più antiche di qualunque cosa sia stata costruita in Medio Oriente o altrove, sono una prova lampante dell’antichità e della priorità della cultura europea.
Nel 2021 e l’anno scorso sono poi passato a occuparmi di altri argomenti, ma non è che dal 2016 a oggi acqua sotto i ponti non ne sia passata, e che la ricerca scientifica anche in campo archeologico non abbia progredito. La prossima conferenza, cui vi do appuntamento già adesso, Ritorno nel mondo dei megaliti, sarà appunto un aggiornamento delle tematiche megalitiche con le novità che sono nel frattempo emerse.
La conferenza Ritorno nel mondo dei megaliti, di cui vi ho già presentato una versione sintetica, l’ho poi effettivamente tenuta la domenica seguente, e replicata nel 2024.
NOTA: Nell’illustrazione, uno dei più noti siti megalitici italiani, la piramide-altare etrusca di Bomarzo.