10 Aprile 2024
Archeostoria

Il Triveneto preromano, celtico e megalitico, terza parte – Fabio Calabrese

Una struttura la cui origine celtica è quanto meno controversa, si trova a Polazzo in provincia di Gorizia è il cosiddetto Sass de San Belin, un enorme monolito calcareo che domina la sottostante pianura isontina e osservato da lontano ricorda la testa di un uomo. Controversa nel senso che è dubbio che si sia trattato, come vuole la tradizione locale, di un gigantesco altare dedicato al dio celtico Belenus (l’equivalente cisalpino di Lug, la maggiore divinità del pantheon celtico) o di una formazione naturale adibita a esigenze di culto in ragione della sua forma inconsueta, eventualmente con qualche adattamento a opera di mani umane, un po’ come il circolo megalitico tedesco di Externsteine.

È interessante notare quel San Belin che rimanda a una commistione sincretistica tra paganesimo e cristianesimo, con l’identificazione di divinità celtiche coi santi cristiani, rivelandoci che la cristianizzazione della nostra regione come del resto di tutta Europa, non è avvenuta in una volta sola, e che non sono mancati i compromessi con tradizioni di origine ben più antica.

A questo proposito, si può anche ricordare che il culto di Belenus sopravvisse a lungo alla colonizzazione romana. Belenus, il dio solare dalla testa raggiata venne naturalmente identificato con Apollo. In un bassorilievo del III secolo che raffigura l’assedio di Aquileia da parte di Massimino il Trace, si vede il dio dalla testa raggiata, divinità principale e personificazione della città, battersi sulle mura cittadine.

La stessa Aquileia, il centro più importante della regione per tutta l’età antica, e poi ancora in età medioevale durante il periodo del patriarcato (anche se in concorrenza con Cividale, sede del ducato longobardo), aveva origini celtiche. Secondo la testimonianza di Tito Livio, la colonia romana non vi fu condita (termine che si usava per indicare la fondazione di un insediamento ex novo) ma deducta, cosa che indicava che i coloni romani erano inviati a convivere con una popolazione preesistente. Il suo stesso nome sarebbe un etimo celtico, Akilis, parola che indicava un luogo ombroso.

Sempre nella nostra regione, nell’antica Iulium Carnicum, oggi Zuglio, si conservano le tracce di un antico santuario celtico. I reperti ritrovati si trovano oggi parte nel locale Museo Archeologico di Iulium Carnicum, parte in quello di Cividale. Essi sono stati studiati nel 2000 dal professor Leone Veronese. Essi comprendono una grande quantità di manufatti di non dubbia origine celtica: frammenti di vasi, fibule, Fra di essi si trova un gran numero di spade spezzate, il santuario era probabilmente oggetto di venerazione in particolare da parte di coloro che si dedicavano al mestiere delle armi, e le spade spezzate erano probabilmente ex voto di coloro che erano sopravvissuti a una campagna bellica. A un certo punto fra esse compaiono gladi di fattura romana, erano probabilmente armi di preda bellica oppure ex voto di guerrieri celti che dopo la conquista romana, avevano militato nelle legioni.

Il professor Veronese ha reso pubblici i risultati delle sue ricerche sul santuario di Zuglio nel corso del convegno organizzato a Trieste nello stesso anno dal circolo culturale “Il Bargello”.

Nei pressi di Aviano (Pordenone) si conserva un’ara sacrificale celtica con tre teschi scolpiti. Le riproduzioni di teschi o di teste umane sono frequento nell’arte celtica, e talvolta, del che abbiamo diverse testimonianze nel mondo transalpino, costoro inserivano nei pilastri e nelle architravi degli edifici teschi umani veri, in genere di nemici uccisi, come monito verso chi osasse sfidarli. D’altra parte, come suggerisce questa decorazione, i sacrifici umani erano tutt’altro che sconosciuti alla religione druidica, ed è questo il motivo per cui dopo la conquista romana, essa fu dai Romani aspramente combattuta.

La transizione fra tarda antichità e medioevo si situa temporalmente fuori dall’arco storico che andiamo considerando, tuttavia credo che non sarà fuori luogo, data l’importanza della cosa, un accenno alla testimonianza che la nostra regione conserva di quest’epoca semi-sconosciuta.

Tra il dicembre 2007 e il marzo 2008 la certamente non vasta località di Attimis (Udine) ha strappato la palma di capitale archeologica regionale a centri ben maggiori; essa ha infatti ospitato la mostra “Goti, dall’Oriente alle Alpi”, che è stata visitabile dall’8 dicembre al 2 marzo presso il municipio cittadino, e un convegno di studi internazionali sul medesimo argomento. Il motivo ovviamente c’è: la scelta di questa località friulana come sede di una mostra e di un convegno fra i più importanti che in questi decenni sono stati dedicati all’Alto Medioevo, non è stata per nulla casuale: a differenza delle “fare” longobarde, gli insediamenti gotici in Italia sono pochi ed assai poco conosciuti; ebbene, proprio nei pressi di Attimis, nella località di Colle San Giorgio abbiamo i resti di un insediamento gotico che presenta caratteristiche uniche, poiché si tratta di un sito fortificato che presenta analogie con altri insediamenti dell’area alpina, in Svizzera ed in Austria, ma unico in Italia.

Queste popolazioni barbariche, che furono protagoniste delle migrazioni più ampie, e che costituirono estesi regni in Italia (Ostrogoti), in Gallia e nella Penisola Iberica (Visigoti) sono ancora oggi assai poco conosciute, vengono a cadere in una specie di “buco nero” a cavallo tra l’età tardo-antica e quella alto-medievale, quella specie di “nulla” di scarsa conoscenza e mancanza di documenti dei secoli che separano Attila dai Longobardi, e la mostra e il convegno sono stati anche un’occasione per gli studiosi per fare il punto sulle ricerche in merito.

Nelle vicinanze di Trieste, fra l’autoporto di Fernetti e Monrupino, si trova un luogo noto ai triestini come i druidi o la dolina dei druidi. Vi si trovano grandi archi in pietra, e al centro una lunga tavola anch’essa litica (oggi infranta) circondata da una serie di scranni e un maestoso trono.

L’effetto, quando vi si arriva attraverso l’area carsica boschiva, è considerevolmente suggestivo, pare di essere entrati in un mondo incantato, in un luogo percorso da potenti magie, ci si aspetta quasi di vedere un possente stregone o magari il re degli elfi sedersi sul trono attorniato dalla corte dei suoi proseliti.

Questo luogo fu scoperto dal commerciante triestino Luigi Rossoni Stark negli anni ’50 del XX secolo che aveva acquistato il terreno, e a lui si deve l’attribuzione ai celti e ai druidi di queste costruzioni misteriose. Rossoni, che non era uno storico, per essere precisi, parlava del “popolo dei druidi”, ma i druidi, lo sappiamo, non erano un popolo, bensì la classe sacerdotale celtica.

La realtà però parrebbe essere alquanto diversa: queste suggestive costruzioni avrebbero un’origine molto più recente, sarebbero di età rinascimentale, e sarebbero state realizzate dai membri di una famiglia nobile triestina dedita in segreto a culti neopagani.

Tuttavia, il reperto o monumento celtico più notevole che si è conservato nel Friuli – Venezia Giulia è forse l’ipogeo celtico di Cividale. Così come Aquileia, Cividale è una città la cui modesta estensione attuale non farebbe sospettare l’importanza che essa ha avuto per la nostra regione in passato. Essa fu chiamata dai Romani Forum Iulii (il riferimento al forum, alla piazza centrale dell’insediamento, è frequente nei nomi delle città fondate dai Romani, basti pensare a Forlì, Forum Livii e a Forlimpopoli, Forum Livii Pompilii). Forum Iulii, “piazza di Giulio”, perché la colonia è stata, a quanto pare, fondata da Giulio Cesare.

In seguito, con la conquista longobarda essa divenne la capitale di uno dei più importanti ducati longobardi. Diversi duchi friulani salirono sul trono regale. Il nome di Forum Iulii, Friuli, si estese all’intero ducato. Per distinguerlo dal territorio circostante, l’abitato era chiamato Civitas, “la città”, da cui il nome moderno di Cividale. Cividale conserva anche un pregevole tempietto longobardo, che però chiaramente esula dai limiti temporali della nostra trattazione.

L’ipogeo celtico è una grande camera sotterranea da cui si snodano tre bassi cunicoli. Vi si riconoscono tre mascheroni in pietra nel classico stile celtico delle tetes coupées, sono presenti mensole, sedili e panche scavate nella pietra. L’ipogeo era con ogni probabilità destinato a funzioni religiose. Quali riti vi si svolgessero non lo sappiamo, e al riguardo le ipotesi non mancano. Io personalmente propenderei per dei riti di iniziazione. Era convinzione dei Celti che ogni cosa, a cominciare dalla vita umana iniziasse e finisse nell’oscurità (sappiamo ad esempio che i calendari celtici fissavano il trapasso della giornata al tramonto), sarebbe stato logico quindi che nell’oscurità iniziasse anche la nuova vita dei giovani caratterizzata dall’assunzione delle responsabilità dell’adulto.

Resta a ogni modo un ambiente carico di forza suggestiva dove pare davvero di entrare in contatto con dimensioni “altre”.

La cosa potrà sembrare sorprendente, ma l’ipogeo celtico di Cividale è forse l’unico monumento preromano della nostra regione che ha acquisito una rinomanza internazionale. “Ancient Origins”, il noto sito e rivista on line irlandese che si occupa dell’archeologia soprattutto nei suoi aspetti poco noti e misteriosi, gli ha recentemente dedicato un lungo e corposo articolo.

Tuttavia, evitiamo parzialità, la nostra regione non è la sola del Triveneto a presentare fenomeni megalitici, testimonianze di un passato spesso sconosciuto ai più. Un articolo de “L’Arena” di Verona del 5 maggio 2015 a firma di Lino Benedetti ci informa della presenza di un castelliere in terra veneta, precisamente il castelliere delle Guàite.

L’articolo ci informa anche della presenza di altri castellieri lessinici, Benedetti infatti spiega che:

“Il Castelliere della Guàite, risalente alla tarda età del Bronzo (XV – XIV secolo avanti Cristo), molto più antico quindi del Castelliere del Purga a Velo e di Sottosengia a Breonio, quest’ultimo distrutto nel 1973 per coltivarvi una cava”.

Un esempio di questo genere di incuria vandalica verso le testimonianze del nostro passato, non è purtroppo cosa rara. Abbiamo ricordato due anni fa il caso veramente vergognoso della piramide di Nizza distrutta per fare posto a uno svincolo autostradale.

L’articolista ci informa che il Castelliere della Guàite:

“Scoperto da Guglielmo Benedetti, appassionato e benemerito ricercatore di Verona, fu oggetto di scavi tra gli anni 1961 e il 1963 da parte di Francesco Zorzi, direttore del Museo civico di storia naturale di Verona”.

Il castelliere è stato oggetto di un recente lavoro di ripristino, perché:

“Se si escludono brevi scavi effettuati tra il 1995 e il 1998, l’importante manufatto è rimasto abbandonato a sé stesso, per cui era cresciuto un bosco, rendendo invisibili tutte le strutture”.

“Un monumento, dunque, importantissimo”, conclude, “Che gli antenati lessinici hanno potuto realizzare per la presenza in sito della Pietra di Prun (nelle vicinanze ci sono ancora delle cave attive), o Scaglia Rossa, geologicamente collocabile nel Cretaceo Superiore, un materiale facilmente estraibile e lavorabile”.

Parlando di megalitismo, abbiamo già visto l’anno scorso, ci si riferisce o a grandi monoliti o a costruzioni di pietra comunque imponenti. Dei semplici graffiti su pietra altrimenti non lavorata non rientrano, strettamente parlando, in questa tematica, ma quando i graffiti diventano letteralmente un ciclo ampiamente esteso che ci racconta la vita dei nostri remoti antenati, è possibile ignorarli? Se ricordate, l’anno scorso ci eravamo posti il problema relativamente alle incisioni rupestri della Val Camonica.

È un fatto sorprendente e certamente ignorato dai più, ma abbiamo una Val Camonica anche in Veneto, ignorata e trascurata quanto quella lombarda è famosa, la Val d’Assa. Riguardo a essa, di informazioni se ne trovano poche, pochissime. Personalmente, la più esaustiva fonte d’informazione che sono riuscito a reperire, è un articolo di Sergio Frigo, Alla scoperta dei più antichi abitanti del Veneto, pubblicato da “Airone” nel 1983, il che è come dire una vita fa. D’altronde, l’articolo dedica la maggior parte dello spazio ai Cimbri dell’altopiano di Asiago che certamente non sono stati i più antichi abitanti del Veneto, e che probabilmente non hanno nulla a che fare nemmeno con i Cimbri sconfitti da Caio Mario ad Acquae Sextiae, ma sono invece i discendenti di coloni germanici insediatisi nell’altopiano in età medioevale.

Comunque, ecco ciò che riferisce riguardo alla Val d’Assa:

Prima di tutto ci sono i numerosissimi graffiti della Val d’Assa, che rappresentano figure antropomorfe, simboli solari, arnesi, armi, coppelle e animali. Poi molte scritte e croci di epoca più recente, fino alle firme dei soldati austro – ungarici di Francesco Giuseppe (…).

Si va dalle armi alle figure umane, dai classici labirinti (che rappresentano il percorso della vita) alle capanne, agli animali (…).

E’ splendida, fra tutte, la raffigurazione di una divinità con le mani enormi, un gonnellino, simbolo di potenza, e due cerchi ai lati della testa di cui uno solo contornato, l’altro scalpellato più profondamente, a rappresentare il giorno e la notte. Molto bella anche un’immagine di donna incinta, riconoscibile da una figura inserita nel triangolo pubico: scrupolosi sacerdoti cristiani, probabilmente medievali, hanno aggiunto due corna ai lati della testa, cosicché la Madre preistorica ha assunto l’aspetto di un diavolo, secondo l’iconografia classica (…).

Furono i Cimbri medievali, comunque, i primi scopritori delle incisioni tracciate sulle pareti della Val d’Assa, e ne ebbero paura. Non a caso, molte leggende cimbre di streghe e orge sabbatiche sono ambientate in questa stretta gola boscosa”.

“Infine, sulle cime circostanti sono stati individuati monumenti megalitici, altari sacrificali, un dolmen e due menhir (…).

Un capitolo a parte, ancora del tutto da studiare, è quello degli altari sacrificali e dei monumenti megalitici scoperti a Campo Rosà, alle falde del monte Kaberlaba e a Mezzaselva: uno di questi ritrovamenti è costituito da

un’unica enorme lastra di pietra dal peso di circa 70 quintali con una scanalatura nel mezzo che probabilmente serviva per raccogliere il sangue di qualche animale sacrificato agli dei”.

A questo punto, non resta che sobbalzare d’indignazione pensando al fatto che un simile tesoro archeologico è stato e continua a essere sostanzialmente ignorato.

Nella terza delle nostre tre regioni, il Trentino – Alto Adige troviamo in area altoatesina nell’Alpe di Siusi una curiosa formazione monolitica, le “sedie delle streghe” dello Sciliar, due blocchi di pietra che possono ricordare dei sedili, che sono da tempo oggetto di una controversia: secondo alcuni si tratterebbe di niente altro che di una curiosa formazione naturale, secondo altri, di oggetti lavorati dalla mano dell’uomo, e taluni ipotizzano che si trattasse di are sacrificali celtiche.

L’ipotesi che si tratti soltanto di una curiosa formazione geologica mi sembra da escludere, sia perché queste “sedie” hanno un aspetto troppo regolare, sia perché in una località poco distante, alla Bullaccia, si troverebbe una formazione analoga, “le panche delle streghe”.

L’anno scorso ci siamo soffermati su quella particolare tipologia megalitica rappresentata dalle statue-stele o statue-menhir. Abbiamo visto che esse sono con ogni probabilità la testimonianza di una cultura pre-etrusca e pre-celtica le cui tracce più antiche risalirebbero al 3.000 avanti Cristo. Sono note soprattutto le statue-stele della Lunigiana (zona di transizione fra la Liguria e la Toscana, ma abbiamo visto che esse sono diffuse in realtà su un’area molto più vasta che comprende la Lombardia, la Sardegna, il Piemonte, il Canton Ticino e anche il Trentino – Alto Adige.

Sulle statue-stele del Trentino, Wikipedia da scarse informazioni che vi riporto testualmente:

Fino ad oggi sono state ritrovate in Trentino – Alto Adige dodici statue-menhir. Di un’altezza compresa fra i 60 cm e i 2,75 m, sono decorate anche sul lato posteriore: con motivi astratti e armi (pugnali e asce) per quanto riguarda quelle maschili, con gioielli quelle femminili. Proprio queste incisioni hanno permesso di datarle come risalenti all’età del rame. Si sono inoltre rivelate di grande importanza per i recenti studi sulla mummia di Similaun”.

Sono infatti dell’Età del Rame e coeve di Oetzi. Naturalmente, qualche informazione in più sarebbe stata gradita, soprattutto riguardo ai luoghi di rinvenimento. Un’ulteriore ricerca mi ha permesso comunque di verificare che almeno otto di esse provengono da Arco di Trento e che nel 2015 sono state oggetto di una mostra al MAG, il Museo dell’Alto Garda di Riva del Garda, denominata “Uomini di pietra”.

Abbiamo fatto un lungo viaggio, siamo partiti da Stonehenge, abbiamo attraversato il fenomeno megalitico delle Isole Britanniche, poi quello dell’Europa continentale, della Penisola italiana, fino a ritrovarci in casa nostra, perché il nostro passato siamo noi stessi. Abbiamo visto però che fino troppo spesso le testimonianze del nostro passato, oltre che essere sconosciute ai più, sono abbandonate all’incuria, e che la storia ufficiale, quella che viene insegnata nelle scuole dalle elementari all’università, e anche il sistema divulgativo mediatico, mentre continuano a riempirci le orecchie con l’Egitto e la Mesopotamia, salvo rare eccezioni, ignorano del tutto la nostra storia più antica: europea, italiana e triveneta.

 

NOTA: Nell’illustrazione, ipogeo celtico di Cividale.

 

2 Comments

  • Paolo G 6 Dicembre 2021

    Articoli molto interessanti, ma mi sono perso la parte seconda: dove posso trovarla? I complimenti a Fabio C.

  • Fabio Calabrese 6 Dicembre 2021

    Caro Paolo G, La seconda parte la puoi trovare sempre su “Ereiticamente” alla categoria “archeostoria”.

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