11 Aprile 2024
Cinema Tradizione Romana

Il Primo Re, di un’altra qualche tradizione – Giacomo Petrella

Il Primo Re è un film decisamente italiano. E con il termine “italiano” dovrebbe intendersi quel complesso di cultura nazionale squisitamente moderno. Da un punto di vista cinematografico risulta infatti piuttosto autoreferenziale, noioso, lento, ridondante: tipicamente italiano, insomma, nella sua pesante impostazione intellettuale. Il neo-post-vetero-realismo pseudoscientifico e pseudo-archeologico del regista (vi ricordate i cartoni animati di pedagogia diffusa?) fa così al pari con una trama raffazzonata, per nulla epica, ricolma di moralismo e seppur capace di strizzare l’occhiolino a famose produzioni anglosassoni (300, Spartacus, Vikings), in buona sostanza del tutto sterile nel trasmettere una qualche emozione od intuizione.

E qui siamo costretti a snodare il punto più fastidioso dell’opera di Matteo Rovere. Affrontare il tema della fondazione di Roma senza alcun approccio convinto alla romanità o per lo meno alla tradizione indoeuropea in senso più lato, porta ad un risultato artistico imbarazzante: questo Primo Re con Roma c’entra davvero poco.

Il debole, patente, buono, sacrificabile e giudizioso Romolo, una palla al piede colossale, capace di snervare ed infastidire la più fervente delle casalinghe nella sua insignificanza virile, assomiglia più ad un novello Frodo Beggins, portatore dell’anello, portatore qui di un fuoco assai moralistico e fideistico, che ad un guerriero-sacerdote dell’ottavo secolo avanti cristo.

Il brutale Remo, fratello rozzo e stupido, prototipo nichilista di una SS in abiti da Cromagnon, ricorda piuttosto il Boromir che, sotto l’influsso del potere, si allontana dalla luce di Dio. Non è un caso che il mitico auspicio, unica parte della leggenda riportata nel film, venga distorto completamente; strappato dalle mani dei due gemelli sacri (la diade aristocratica del Re Sacerdote posto sul Palatino e del Re Guerriero posto sull’Aventino), viene affidato ad una strana figura, più somigliante ad una maga-papessa che ad una Vestale e capace di imporre ai due protagonisti una qualche volontà divina non dissimile dalla giudaica prova del sacrificio di Isacco. “Uccidi tuo Fratello”.

Roma sembra così fondarsi su quella strana dialettica religiosa fra empietà, giudizio morale, peccato, fede e idolatria che se perfettamente legittima in riferimento alla cultura giudaico-cristiana della modernità, appare ridicola se applicata al mito di Roma e della sua diade. Sarebbe bastato assai poco per rendere omaggio ad alcuni concetti non così complessi, ed epici, ossia il Fato sopra ogni cosa, il divenire costante e non morale fra bene e male, i Numina quali elementi del divenire stesso; sarebbe bastato poco per rendere lo sforzo artistico degno di un tema tanto importante. Ne avrebbe sicuramente giovato l’opera, assai più nella ricerca di un significato meno scontato che nell’arrogante ricerca linguistica del protolatino.

Giacomo Petrella

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