13 Maggio 2024
Mitologia Musica

I Vibelunghi – Enrico Scotton

“L’idea del dominatore era concepita qui nella sua più ampia e potente significazione” – sono parole di Richard Wagner a proposito del suo progettato dramma sull’imperatore Federico Barbarossa, e citate da Ettore Lo Gatto al termine dell’introduzione al saggio wagneriano “I Vibelunghi”, pubblicato in Italia nel 1919 per i tipi de “L’Editrice Italiana”, e opportunamente riedito dalle preveggenti Edizioni di Ar in una collana dal nome quanto mai evocativo: “La Genealogia”.

Dunque, l’idea del dominatore; ed il dominio è la vena aurea che percorre il denso e affascinante scritto del Maestro di Bayreuth, dominio della storia, della carne e delle sue passioni, dominio spirituale oltre la storia, dominio del destino poiché suprema accettazione della voce che chiama, impone, il suo compimento, dominio infine in quanto “imperium” a-umano lungo le tracce che da Troia conducono al Kyffhauser attraversando lo snodo vitale della dinastia carolingia.

Il capitolo “Contenuto reale ed ideale del tesoro dei Nibelunghi” contiene un’affermazione decisiva, e l’esplicita al principio: “l’antichissimo mito tante volte citato raggiunge la sua affermazione più reale in una relazione di storia universale grandiosa e armonicamente unificantesi” (p. 63).

Mito, affermazione, storia universale, armonia: i temi evocano una crescita che è sprofondamento abissale e rinascenza, quasi attraverso lavacri di fuoco e bagni nel sangue tellurico del drago Fafnir. Siegfried è già qui, e già è Wotan nella consumazione del tempo e dello spazio per amore, per la Minne gloriosa.

Purificazione del tesoro, decantazione del residuo storico attraverso le redini della storia universale. La sicurezza del negare non garantisce ancora la forza della configurazione precorritrice che afferma e dà forma. E questa, a sua volta, non va valutata in base alle proporzioni di quella, bensì trova la sua grande legge nella storia – non semplicemente in ciò che è odierno.

L’inarrestabile presenza della stirpe regale è in marcia, e quale il nocciolo di tale carisma? Porre tutta la forza nel silenzio e nella contegnosa purezza, custodire la più intima quiete della risolutezza per far valere le più elevate necessarietà del mito in base alla più intima necessità e all’estrema pressione. Perseveranza del semplice sguardo per l’essenziale unico – il crescente potersi liberare da tutto, per rivestire ciò che la volontà fondamentale del mito segretamente ricerca; “e soprattutto quel dio proprio della stirpe, dal quale le singole schiatte derivavano direttamente la loro esistenza terrena, non è stato certamente abbandonato; giacché egli aveva con Cristo, figlio di Dio, la decisiva somiglianza di essere anch’egli morto e di essere stato compianto e vendicato; a quel modo che noi oggi vendichiamo Cristo sugli ebrei” (p. 67).

Dunque, Erlosung der Erloser, redenzione del redentore, rinascita del mito, il ricercare insieme alla risvegliantesi, eppure ancora disturbata, essenza super-umana e a-umana degli uomini discendenti dalla stirpe dei Vibelunghi.

La conclusione dello scritto wagneriano è monito e speranza dell’autentico tesoro – “nel monte lo aveva riportato il grande imperatore stesso, per custodirlo per tempi migliori” (p. 86).

L’opportunità, il kairòs che segna potentemente l’apparizione di questo scritto nei nostri tempi, è insieme sigillo e apertura del mito mai morto.

L’amico e discepolo del Maestro di Bayreuth, Friedrich Nietzsche, questo vide meglio di chiunque altro, e scrisse nell’opera che al Maestro dedicò: “il mito protegge dalla musica, e d’altra parte soltanto esso può darle la libertà suprema. In compenso la musica conferisce al mito, come dono reciproco, un così penetrante e convincente significato metafisico, quale parole e immagini, senza quell’unico ausilio, non potrebbero mai raggiungere; e particolarmente grazie a essa lo spettatore tragico è preso proprio da quel sicuro presentimento di una gioia suprema, a cui conduce il cammino attraverso la rovina e la negazione, sicché egli crede di sentire l’intimo abisso delle cose parlargli distintamente” (La nascita della tragedia, par. 21).

Enrico Scotton

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