13 Aprile 2024
Controstoria Fumetto d'Autore

Fascismo & Fumetto: Ulceda, il western autarchico

Il genere narrativo-popolare multimediale western ha radici lontane nelle cronache giornalistiche romanzate (molto romanzate!), ideate per informare (o per intrattenere) il pubblico delle grandi città della costa orientale nord-americana su ciò che accadeva nella cosiddetta Frontiera; questo soprattutto nel periodo delle Guerre Indiane, quando i Pellerossa, dopo la fine della Guerra di Secessione – il cui infausto esito avrebbe cambiato il futuro dei decenni a venire – furono definitivamente e quasi totalmente spazzati via dagli Stati Uniti d’America, manu militari, con l’impiego di ogni genere di armamento (comprese le innovative mitragliatrici Gatling) e arrivando persino a usare – inquadrati nei famigerati reggimenti dei Buffalo Soldierselementi di origini africane, testé “liberati” con gli editti lincolniani.

Una tipica dime novel americana ottocentesca
Una tipica dime novel americana ottocentesca

Siamo nella seconda metà del XIX secolo e su riviste e libretti in carta povera (le pagine venivano infatti realizzate materialmente dalla polpa di legno di scarsa qualità, da cui il termine inglese pulp, che oggi però tende a rimandare, dopo la cinematografia di Quentin Tarantino, a un ulteriore genere narrativo) e a basso prezzo (costavano generalmente dieci centesimi di dollaro, ovvero un dime, da cui la terminologia dime novel per identificare tali pubblicazioni) apparivano storie a profusione incentrate sugli “eroi” del Far West, sfornate anche da raffinati autori e giornalisti, ma molto spesso da pennivendoli aspiranti letterati. Con la fine dell’Ottocento la contemporanea invenzione di due nuovi mezzi di comunicazione – cinema e fumetto – avrebbe dato una spinta straordinaria alla diffusione internazionale del modo di raccontare, dei personaggi e degli scenari propri delle saghe western. Anche nell’Italia della prima metà del ‘900 il western si afferma e riscuote grande successo; nel Dopoguerra si assiste poi a una vera e propria esplosione, certamente in virtù della dilagante produzione straniera su celluloide, ma pure grazie alle realizzazioni autoctone e originali – con i fumetti della scuderia Bonelli (in primis) e successivamente con i film di Sergio Leone, Antonio Margheriti, l’appena scomparso Alberto De Martino, e vari epigoni. Addirittura si è arrivati ad affermare e a sostenere da parte di certa critica la paternità fumettistica (da Tex soprattutto) degli spaghetti-western, che avrebbero a loro volta ispirato, influenzato e ormai marchiato indelebilmente tutto il cinema western moderno – a partire dalle regie di Sam Peckinpah.

 

Una delle rare foto esistenti di Guido Moroni Celsi
Una delle rare foto esistenti di Guido Moroni Celsi

I segnali di fumo del salgariano

Abbiamo visto, dunque, che nel codice genetico dei filmwestern odierni di gran richiamo, come il tarantiniano Django Unchained (2012), grazie a tutta una catena di passaggi e scambi intermediali, c’è un ricco afflusso di sangue fumettistico italico! Il Tex Willer di Gian Luigi Bonelli e Aurelio “Galep” Galleppini nato nel 1948, uno dei pochi personaggi al mondo che può vantare di aver resistito ininterrottamente nelle edicole per un periodo così lungo (visto che ancora oggi esce, quasi 70 anni dopo!), ha i suoi bravi e indiscussi meriti. Ma già prima della Seconda Guerra Mondiale, in piena Era Fascista, un grande autore si era cimentato – pionieristicamente – con cavalli e selle, cappelloni e stivali, rivoltelle e asce, vaccari e Indiani!

Il primo "Albo di Salgari", serie nata nel 1938 per raccogliere le "avventure malesi" di Moroni Celsi (immagine tratta dal sito "collezionismofumetti.com"
Il primo “Albo di Salgari”, serie nata nel 1938 per raccogliere le “avventure malesi” di Moroni Celsi (immagine tratta dal sito “collezionismofumetti.com”)

Stiamo parlando di Guido Moroni Celsi, quello che molti considerano (insieme a Pedrocchi, Albertarelli e a pochi altri) il vero padre del fumetto italiano non umoristico (dunque western, ma pure avventuroso, fantascientifico, del brivido, storico, poliziesco, etc.). Moroni Celsi nacque a Roma nel 1885 (o nel 1888 secondo certe autorevoli fonti) e si spense nel 1962. La sua collaborazione al “Corrierino” (com’è stato sempre affettuosamente chiamato il “Corriere dei Piccoli”, emanazione settimanale giovanile del “Corriere della Sera” e prima pubblicazione a fumetti dello Stivale), di cui fu uno degli uomini di punta, andò avanti per oltre venti anni, dal 1913 al 1934. In questo periodo la sua firma apparve in parallelo un po’ dovunque su simili testate: su “Numero”, su “La Domenica dei Fanciulli”, sul concorrente romano “Il Messaggero dei Piccoli”, su “Il Cartoccino dei Piccoli”, su “Viaggi e Avventure”, su “Novellino”, etc.; di gran caratura le opere di Moroni Celsi apparse sul supplemento “Il Balilla” del quotidiano “Il Popolo d’Italia” e, sul prestigioso foglio “L’Avventuroso”, il racconto “coloniale” La prigioniera dei Ras. La fine del sodalizio con il “Corrierino” segna il definitivo ingresso di Moroni Celsi nelle fila delle Edizioni API (Anonima Periodici Italiani) Mondadori (“Topolino”, “Paperino” e “I Tre Porcellini”), per le quali, nei secondi Anni Trenta e fino allo scoppio del conflitto, realizzerà quelli che sono considerati i suoi capolavori: le riduzioni a fumetti del ciclo malese salgariano e la storia di fantascienza (la prima in Italia) SK1. E, ovviamente, Ulceda

 

Locandina originale del cartone animato "I Tre Porcellini" (1933)
Locandina originale del cartone animato “I Tre Porcellini” (1933)

Le praterie editoriali di Ulceda

Il 28 marzo del 1935 l’API Mondadori lanciava il settimanale “I Tre Porcellini”, come prodromo all’acquisizione da parte della casa editrice milanese dei diritti italiani per il fumetto disneyano, che era stato proposto per la prima volta nel Belpaese dal fiorentino Nerbini a partire dal dicembre 1932, con “Topolino” giornale: ne abbiamo già parlato qui su “EreticaMente”. I personaggi di punta del nuovo periodico erano – in adattamento a fumetti – i tre maialini protagonisti del cartone animato Disney The Three Little Pigs, uscito nei cinema nel maggio 1933 con la regia di Burt Gillett, premio Oscar e gran successo anche in Italia. Fu proprio sul neonato giornale mondadoriano – una delle pubblicazioni che, pur essendo nate per presentare in traduzione gli artisti americani, si sarebbero poi rivelate vere e proprie “palestre” artistiche per il nostro fumetto e i nostri autori – che apparve in venticinque puntate nel 1935 (iniziando con il n. 11 del 5 giugno) la storia intitolata Ulceda, la figlia del Gran Falco dellaprateria capostipite del fumetto western “all’italiana”, ispirata ai tre romanzi del ciclo che Salgari (del quale Guido Moroni Celsi era grande estimatore) aveva ambientato nell’Ovest americano.

Copertina del primo libro della Trilogia del West di salsari (Bemporad - Firenze, 1908)
Copertina del primo libro della Trilogia del West di Salgari (Bemporad – Firenze, 1908)

Stiamo parlando dei volumi (licenziati a Firenze da Bemporad) Sulle frontiere del Far-West del 1908, La scotennatrice del 1909 e Le selve ardenti del 1910. Questa prima incarnazione editoriale di Ulceda si presentava ai lettori nelle vesti di una singola tavola settimanale numerata, dotata di un suo autonomo “titolino”, montata su quattro strisce (mutuate dal formato americano delle daily strips), composte in media da tre vignette ciascuna (dunque una media di dodici vignette per tavola). Nel 1939 la Mondadori ristampò la storia suddividendola in tre puntate (con divisione a metà di ciascuna tavola) nell’effimera collana “Albi di Avventure”, sui numeri 5, 6 e 7. Nell’immediato dopoguerra i 25 capitoli che componevano l’avventura originale furono raccolti dalla Mondadori in unico fascicolo (nella serie settimanale “Albo d’Oro”, sul n. 16 del 24 agosto 1946). Stavolta il “rimontaggio” delle tavole fu davvero “drastico” e operato direttamente sugli originali, viste le più ridotte dimensioni del nuovo fascicolo rispetto al “gigantismo” de “I Tre Porcellini” (ciò era dovuto alla penuria di carta, che portò alla nascita dell’idea stessa di “pubblicazione tascabile”): dalle tre vignette per striscia e quattro strisce per pagina si passò infatti a tavole, sempre con quattro strisce, ma con solo due vignette (di media) per striscia (dunque da dodici a otto vignette per tavola).

Per far questo le vignette furono tagliate, allungate, ritoccate, etc., e per comprendere meglio questa situazione nelle immagini di corredo a questo articolo vi presentiamo rimontaggi di una tavola intera e di un frammento, rari superstiti, sopravvissutialla dispersione e alla distruzione degli originali degli archivi Mondadori. Un caso tristissimo (e ancora oggi non ancora indagato fino in fondo) di un patrimonio artistico del ‘900 andato nella quasi totalità irrimediabilmente perduto (se si escludono appunto le tavole e le copertine finite prima nei cataloghi dei commercianti e poi nelle collezioni private; emblematico il caso dei capannoni di Lavanderie di Segrate). La storia western di Moroni Celsi fu successivamente più volte ristampata; molto interessante quella “quasi anastatica” edita da Cartoon Museum (Rho, 1972).

Frammento originariamente appartenuto alla tavola  XVIII originale, rimontato per la ristampa in "Albo d'Oro" (collezione privata)
Frammento originariamente appartenuto alla tavola XVIII originale, rimontato per la ristampa in “Albo d’Oro” (collezione privata)
Rimontaggio della storia di Ulceda (dalle tavole XVI e XVII originali) per l'edizione degli "Albi d'Oro" del dopoguerra. Tavola originale da collezione privata (immagine tratta dal blog "Anni Trenta")
Rimontaggio della storia di Ulceda (dalle tavole XVI e XVII originali) per l’edizione degli “Albi d’Oro” del dopoguerra. Tavola originale da collezione privata (immagine tratta dal blog “Anni Trenta”)

La critica ha da sempre e meritoriamente “coccolato” Ulcedasia dal punto di vista artistico, sia “filosofico”. Antonio Faeti, per esempio, nel suo articolo Il West non è l’Ultima Frontiera apparso su “Comic Art” nel giugno 1988, scrive: Io sono sempre sulla soglia della Grande Prateria, da quando lessi Ulceda, il fumetto di Guido Moroni Celsi, l’amato fumetto delle limpide rocce, delle forre, delle grotte. E non a caso la raccolta in volume (con evocativa copertina di Pablo Echaurren) dei pezzi di Faeti proposti fra il 1986 e il 1990 sulla già citata rivista romana si intitolava La freccia di Ulceda… Molti, nel commentare il capolavoro di G. M. C. del 1935, stigmatizzano – secondo le proprie impostazioni culturali, condivisibili o meno che siano – certi connotati “sensibili”… Così, per il giornalista Carlo Scaringi, Ulceda era un racconto sostanzialmente fedele alla realtà storica, con scontri anche aspri fra cow-boys e pellerossa, ma nel complesso cavallereschi, con gli indiani che non erano i soliti “musi rossi” dell’iconografia cinematografica dell’epoca. Ulceda era una ragazza indiana che alla fine sposa l’eroe bianco della storia, dando un contributo notevole alla pacificazione razziale. E i super esperti del fondamentale blog “Fumetti Classici Anni Trenta” (che ci è servito anche come fonte iconografica) aggiungono: Ulceda è molto importante, perché è all’origine di una genealogia di fumetti italiani che passa per il Kit Carson di Rino Albertarelli e arriva a Tex Willer di Gian Luigi Bonelli e Aurelio Galleppini: tutti autori che si formano nell’Anteguerra, nelle redazioni della SAEV, di Nerbini e di Mondadori. L’eroe “bianco” è un italiano, “razza” oppressa da secoli nelle sue “naturali” aspirazioni nazionali, e l’incontro con la fiera “razza indiana” è da pari a pari: grande retorica para-fascista, naturalmente, ma è comunque significativo che i nativi americani non siano i “cattivi”. Guido Moroni Celsi è un grande artista, oggi di difficile comprensione, per il suo stile a prima vista attardato, ma già “moderno” per l’uso del linguaggio del Fumetto.

"I Tre Porcellini" n. 11 del 5 giugno 1935, sul quale apparva la prima delle 25 puntate di Ulceda (immagine tratta dal blog "Anni Trenta")
“I Tre Porcellini” n. 11 del 5 giugno 1935, sul quale apparve la prima delle 25 puntate di Ulceda (immagine tratta dal blog “Anni Trenta”)

Di Ulceda si può leggere – come una sorta di sunto di quanto detto finora – anche in Eccetto Topolino (NPE, 2011), l’approfondito volume di Gadducci, Gori & Lama di cui abbiamo su queste colonne già parlato; nel 1935 Arnoldo Mondadori, con il varo dei suoi nuovi settimanali per ragazzi, decide di commissionare serie a fumetti di produzione italiana in grado di competere, almeno nelle intenzioni, con quelle statunitensi.

"Albi Avventure" n. 5, 1939. È il primo albo della prima ristampa di Ulceda (immagine tratta dal sito "collezionismofumetti.com"
“Albi Avventure” n. 5, 1939. È il primo albo della prima ristampa di Ulceda (immagine tratta dal sito “collezionismofumetti.com”

Il primo tentativo in assoluto è anche fra quelli più cospicui. Sul numero 11 de “I Tre Porcellini” del 5 aprile 1935 appare la prima puntata di Ulceda, la figlia del Gran Falco della Prateria, testi e disegni di Guido Moroni Celsi. Forse l’autore si ispira al successo del fumetto inglese Colomba Bianca, apparso su “Jumbo” nei due anni precedenti, così da mettersi in diretta concorrenza anche con la SAEV, o forse si rifà alle crudeli e fiere eroine Yalla e Minnehaha della celebre trilogia del West di Emilio Salgari, le cui opere rivisiterà di lì a poco. È evidente anche un tentativo di sfruttare il mito cinematografico hollywoodiano, ma il punto di vista è spostato in modo significativo sugli indiani: minoranza eroica e fiera, facilmente assimilabile a certa “mistica” fascista. Come esordio di Mondadori nel campo dei comics, e anche quale primo western nazionale, Ulceda ha una sua importanza storica notevole. È soprattutto un episodio che influenzerà profondamente il fumetto italiano: sia nell’immediato (con Kit Carson di Albertarelli) che nei decenni successivi, passando per Tex di Bonelli e Galleppini. Ma è notevole anche la sua qualità artistica, non solo dal lato grafico.

 

La prima ristampa del Dopoguerra: "Albo d'Oro" n. 16 del 1946 (immagine tratta dal sito "collezionismofumetti.com")
La prima ristampa del Dopoguerra: “Albo d’Oro” n. 16 del 1946 (immagine tratta dal sito “collezionismofumetti.com”)

C’era una volta in terra carioca?

Entrando adesso nel dettaglio, nella carne della storia, sorge spontanea una prima domanda: dove è ambientata l’avventura vissuta dalla giovane indiana Ulceda e dagli altri protagonisti?

La ristampa Cartoon Museum del 1972
La ristampa Cartoon Museum del 1972

Il riferimento spaziale dovrebbe essere ben preciso, visto che Nella foresta brasiliana è il chiaro “titolino” della prima puntata. Fin da qui si vede che è primaria l’intenzione, quasi la necessità (da parte dell’autore, e pure dell’editore), di staccarsi da alcuni dei maggiori canoni della narrativa western, già allora ben cristallizzati nell’immaginario collettivo.

L’ambientazione geografica viene così traslata dall’America del Nord e dalle Praterie degli Stati Uniti – entità politica che tanta responsabilità aveva avuto nello sterminio del popolo rosso e che per le sue impostazioni economiche e socioculturali liberaldemocratiche cominciava già adesso a essere sentita lontana dall’Italia fascista – all’America Meridionale.

In realtà questo spostamento avviene solo nominalmente, come vedremo, anche se vengono sapientemente mantenuti dall’artista romano alcuni elementi particolari (soprattutto correlati alla fauna) che potevano essere immediatamente avvertiti, se non come “brasiliani” puri, almeno come “sudamericani” originali, anche dai lettori meno attenti. Le bolas da caccia, innanzitutto, pesanti palle collegate da una corda che in più di un’occasione gli indigeni di Moroni Celsi roteano in aria e lanciano contro i loro nemici. Si tratta del ben noto strumento del gaucho, il buttero argentino cantato da Borges, che lo usava per catturare il bestiame. Dunque non propriamente qualcosa di carioca… ma poco ci manca! C’è da dire che queste bolas venivano adoperate in Patagonia dagli amerindi fin dalla Preistoria, e tracce di questo attrezzo sono state persino trovate negli scavi del sito paleolitico di Calico, in California. Ecco poi il condor, noto uccello rapace saprofago, autoctono dell’America del Sud, ma andino piuttosto che brasiliano (e con un parente californiano): va a sostituire il classico avvoltoio del Far West, che fa solitamente individuare a Sceriffi e Ranger, grazie al suo svolazzare in cerchio sulle zone desertiche, il luogo dov’è avvenuta una carneficina (indiani contro coloni, banditi contro postiglioni e passeggeri di diligenza, soldati contro indiani, etc.) o dove sta per morire qualcuno…

La prima puntata dell'avventura, come appariva su "I Tre Porcellini" n. 11 del 5 giugno 1935 (immagine tratta dal blog "Anni Trenta")
La prima puntata dell’avventura, come appariva su “I Tre Porcellini” n. 11 del 5 giugno 1935 (immagine tratta dal blog “Anni Trenta”)

Il favoloso serpente – quasi un drago mitologico – con il quale si scontra il capo indiano nel labirinto di grotte, per la sua lunghezza e corposità, potrebbe essere un anaconda verde, tipico delle foreste umide sudamericane. In una grotta attigua svolazzano i pipistrelli definiti “vampiri succhiatori di sangue”: sono i desmodus rotundos, diffusi in Messico e nell’America del Sud. D’un tratto compare anche un “pantera nera”. Il termine “pantera” è piuttosto generico, essendo sinonimo di “leopardo”, che a sua volta, nel Nuovo Mondo, può indicare (a seconda della varietà del mantello) il “puma” (il leone di montagna nordamericano, dal pelo color nocciola) e il “giaguaro”, ovvero la “lonza”, il grosso felino maculato che batte anche le foreste amazzoniche brasiliane. Ma il colore nero rimanda di solito con la fantasia all’Asia misteriosa, alle pantere nere propriamente dette, quelle che “infestano” il Bengala – e dunque, a un altro ambito salgariano, per rimanere nel cosmo di Moroni Celsi.

La seconda puntata di Ulceda, come appariva nel settimanale “I Tre Porcellini”, nel giugno 1935 (immagine tratta dal blog “Anni Trenta”)

 

Ma le attinenze sudamericane, seppur dubbiose, si fermano praticamente qui. Per il resto i Pellerossa che appaiono nella storia (della fantasiosa tribù degli Owada) non sono certo gli Indios dell’Amazzonia o di altri panorami carioca: per caratteristiche, fisiche, per gli accessori, per gli abbigliamenti, per i simboli e così via… sono chiaramente individui delle popolazioni delle Praterie del Nord America, i Dakota e i Lakota (offensivamente definiti Sioux dai loro rivali), anche se l’autore preferisce (come usava all’epoca nella narrativa popolare, illustrata o meno) far indossare a tutti il copricapo dalle molte penne, nella realtà riservato al sakem (come Toro Seduto, Cavallo Pazzo e Nuvola Rossa) o a guerrieri particolarmente eroici; correttamente disegna invece le loro abitazioni nella foggia delle tende tee-pee a forma conica. Uno degli animali sacri per gli Indiani è l’orso, ed ecco che il Gran Falco si scontra con un grizzly, una sottospecie di orso bruno che vive nelle foreste di conifere nordamericane e solo occasionalmente nelle Grandi Praterie – sicuramente non in Brasile! Alcuni dei militari, chiamati “regolari”, infine, ricordano per i loro abbigliamento lo US Army e stazionano anche in un classico fortino di frontiera, uno di quelli con le palizzate di legno (mutuate dall’esperienza di Cesare in Gallia) che nei film western sono oggetto di fitto lancio di frecce incendiare! Altri, con le divise che portano, sembrano più i Rurales messicani, ovvero i volontari della Guardia Rural (sciolta nel 1914) che nella seconda metà dell’Ottocento si occupava di reprimere nel sangue le rivolte degli Apache (ma, del resto, anche i Rurales sono vecchie conoscenze del lettore e dello spettatore western!).

La XX puntata di Ulceda sul settimanale "I Tre Porcellini" (immagine tratta dal blog "Anni Trenta"
La XX puntata di Ulceda sul settimanale “I Tre Porcellini” (immagine tratta dal blog “Anni Trenta”)

Quanto alla collocazione temporale le cose si fanno ancora più curiose… Parrebbe di trovarsi, per la quasi totalità delle puntate e delle vignette, alla fine dell’Ottocento – negli anni Ottanta del XIX secolo, azzardiamo… Ma in una didascalia a metà della prima tavola si fa un chiaro appello all’Era Fascista, dove si dichiara che il protagonista bianco, Vittorio Ranghi, appartiene a quelle tempre d’individui che l’Italia d’oggi ha forgiato in poco più di un decennio. Dunque, visto il riferimento cronologicoaddirittura alla Marcia, siamo proprio nel 1935, anno d’uscita della storia. E questo potrebbe spiegare anche l’altro dei motivi che portarono autore ed editore alla collocazione brasiliana dell’episodio: il fatto che nel 1935 sarebbe stato ormai impossibile rappresentare i “modernissimi” e “avanzatissimi” Stati Uniti d’America, anche quelli delle piane centrali, con gli stilemi del western di ambientazione ottocentesca. Non ci avrebbe creduto nessuno! Al centro delle Praterie dell’Ovest nel Brasile (così recitava un’altra didascalia) poteva invece conservarsi in maniera abbastanza plausibile, ancora nel 1935, un pizzico di fascino esotico e di tempi andati e perduti… Dunque un Brasile tradizionale, rustico e “arretrato” in maniera romantica e affascinante, in un 1935 dove tutto il resto del mondo stava andando sempre più a capofittoverso il Duemila, e dove già da un anno, in Italia, c’erano trasmissioni televisive.

Elementi contemporanei (del 1935) in Ulceda: riferimenti all'Era Fascista e alla Marcia
Elementi contemporanei (del 1935) in Ulceda: riferimenti all’Era Fascista e alla Marcia

Ma il lettore, come abbiamo detto, doveva aver presente il fatto di trovarsi… nel presente! E così, nel dodicesimo episodio, nel buio di unantica caverna, Vittorio estrae dai pantaloni una lampadina tascabile elettrica contemporanea, non certo uno dei primi modelli di fine Ottocento!

Elementi del 1935 in Ulceda: la lampadina tascabile a batteria di Vittorio
Elementi del 1935 in Ulceda: la lampadina tascabile a batteria di Vittorio

Alla fine dell’avventura Guido Moroni Celsi strizza comunque ufficialmente l’occhio ai luoghi del western classico. Nell’ultima sequenza Vittorio Ranghi e Ulceda annunciano di volersi sposare, benedetti dal suocero e padre Gran Falco, e partono (non si capisce se in viaggio di nozze o per sposarsi) per l’Italia fascista (c’è un nuovo, chiaro, riferimento), salpando in transatlantico – non dalle coste brasiliane, ma da… Galveston, in Texas!

Elementi contemporanei in Ulceda: riferimenti all'Era Fascista nella XXV e ultima tavola
Elementi contemporanei in Ulceda: riferimenti all’Era Fascista nella XXV e ultima tavola

 

Dal Far West al Profondo Nord

Come abbiamo letto negli stralci di critica proposti, una delle particolarità di Ulceda è quella di divergere nettamente già nel 1935 dallo stereotipo dell’indiano “cattivo”, ladrone, ubriacone, bellicoso, superstizioso, etc., preponderante nel westerntradizionale internazionale (film, fumetti e romanzi) almeno fino alla fine degli anni Cinquanta. In Italia, per vedere un western così dichiaratamente e inequivocabilmente “moderno”, occorre attendere il 1961 – con la serie “Zagor”, ideata dallo sceneggiatore Guido Nolitta (nome d’arte di Sergio Bonelli, figlio del creatore di Tex, scomparso nel 2011, e padre di Davide, attuale timoniere della casa editrice milanese) e dal disegnatore Gallieno Ferri (tutt’ora in gamba). Ulceda precorre dunque i tempi di un’intera generazione! Le motivazioni sono qui però diverse, e non hanno niente a che fare con la “correttezza politica”. In Ulceda il bianco di origine europea Vittorio Ranghi pare allearsi con gli elementi migliori della tribù del Gran Falco della Prateria in nome di un’antica patria comune, una patria nordica, polare, iperborea, atlantidea – un’identica patria, dello spirito e non solo geografica. Solo un’idea, un’intuizione? Presso le popolazioni amerinde non si fa forse riferimento, nelle leggende sacre, ad ancestrali semidei dalla pelle chiara provenienti da settentrione? Non ci sono straordinarie attinenze, non solo sonore, m anche di significato, fra certi lemmi presenti nei linguaggi dei Pellerossa con alcune terminologie europee? Il Grande Spirito, il Padre di tutti gli Dei, quel Manitù chiamato Watan dagli Indiani delle Praterie, non sembra rimandare a Wotan, l’Odino del pantheon germanico? Il nome del fiume Potomac, derivato dal termine algonchino Patowmeck, non ricorda forse la parola greca potamos, che sta per “fiume”?

Sleeping Bearm capo dei Brulé, fotografato nel 1898
Sleeping Bear, capo dei Brulé, fotografato nel 1898

Secondo i Lakota Brulé, una “sottotribù” dei Sioux Teton, il fatto che tutti gli Indiani d’America (in realtà appartenenti a 500 nazioni diverse, ognuna con i loro peculiari linguaggi, usi e costumi e anche aspetti fisici diversi) abbiano un’unica origine asiatico-mongolide, è una falsità, una trappola moderna, che considera solo una seconda e tardiva ondata migratoria nel Continente americano, che ha lasciato tracce soprattutto fra gli Inuit: molti Brulé hanno infatti la pelle chiara, non hanno gli occhi a mandorla e vantano altezze corporee fino oltre i 190 cm. – caratteristiche incompatibili con le loro presunte ascendenze “gialle”. Recentemente è tornato sull’argomento Gianfranco Drioli, con il suo Iperborea (Ritter, 2014), ma – saltando d’un balzo migliaia di pagine di decine di autori che nei decenni hanno indagato tale questione – si può risalire a 80 anni prima, fino all’epoca stessa in cui veniva elaborata da Moroni Celsi la trama di Ulceda, e leggere gli eccellenti e rivelatori passaggi vergati da Julius Evola nel suo fondamentale Rivolta contro il mondo moderno, nel terzo capitolo della seconda parte (Hoepli, 1934 – il testo qui riportato è ripreso dall’edizione 2010 di Mediterranee): La tradizione costante circa le origini che si ritrova in America, fino al Pacifico e alla regione dei Grandi Laghi, parla della terra sacra del “lontano Nord”, posta presso le “grandi acque”, da cui sarebbero venuti gli antenati dei Nahua, dei Toltechi e degli Aztechi. (…) Il nome prevalente di questa terra, Aztlan, comprende anche – come lo shveta-dvîpa indù – l’idea di bianchezza, di terra bianca. Ora, nelle tradizioni nordiche, sussiste il ricordo di una terra abitata da razze gaeliche, vicina al Golfo di San Lorenzo, chiamata Grande Irlanda o Hvitramamaland, cioè “paese degli uomini bianchi”, e i nomi di Wabanakis o Abenikis, che gli indigeni verso quelle parti si danno, vengono da Wabeya, cioè da “bianco”. Senonché alcune leggende dell’America centrale menzionano quattro antenati primordiali della razza Quiche che vogliono ancora raggiungere Tulla, la regione della luce. Vi trovano invece il gelo, il sole in essa non appare. Allora si dividono e passano nel paese dei Quiche. Questa Tulla o Tullan, che è la patria d’origine dei progenitori dei Toltechi, i quali probabilmente trassero da essa il nome, e che andarono a chiamare parimenti Tulla il centro dell’Impero da loro successivamente fondato sull’altopiano del Messico, – questa Tulla era stata appunto concepita anche come la “Terra del Sole”. Essa, è vero, viene talvolta localizzata ad oriente dell’America, cioè nell’Atlantico; ma ciò si deve verosimilmente all’interferenza del ricordo di una sede successiva, la quale riprese, per un certo periodo la funzione della Tulla primordiale (a cui forse più particolarmente corrisponde l’Aztlan), ove venne a regnare il gelo e non si trovò più il sole: Tulla, che equivale visibilmente alla Thule dei Greci, sebbene questo nome, per ragioni di analogia, fu applicato anche ad altre regioni.

Tex nei panni di Aquila della Notte (disegno di Fabio Civitelli)
Tex nei panni di Aquila della Notte (disegno di Fabio Civitelli)

Tali suggestioni, dopo il 1935 di Ulceda, si ritroveranno spesso nella terra fumettistica italica fecondata dall’avventura, creatrice di un filone, ideata da Moroni Celsi. La saga di Tex è ricca di trame nate su commistioni fra antiche leggende amerinde e realismo western; e tra l’altro lo stesso personaggio di Willer, nella mitologia della collana, non è soltanto un Texas Ranger, ma è soprattutto Aquila della Notte, capo bianco – “pari fra i pari” – di un nucleo di Navajo, dei quali in giovane età sposò la figlia Lilith del precedente sakem; donna che, prima di morire precocemente assassinata, gli diede un figlio, Kit, che insieme all’invincibile padre, al canuto Carson e al fiero indiano Tiger Jack forma un ben noto quartetto della letteratura disegnata. Come vediamo, ritornano in Tex molti degli elementi umani, germogliano molti dei semipiantati daUlceda.

La questione dell’origine “bianca”, “iperborea”, “polare”… dei popoli chiamati oggi “nativi americani” viene affrontata ancor più profondamente nelle pagine di “Zagor”, un fumetto western talmente atipico che forse – come ha affermato più volte l’attuale curatore e sceneggiatore principe della serie, Moreno Burattini – non è nemmeno tale. L’orrore, il mistero, la fantascienza, il macabro, etc. sono infatti elementi portanti (e non solo casuali) dell’epopea zagoriana. E in anni recenti, proprio con una serie di episodi disegnati su testi di Burattini, il bocciolo di Atlantide è rifiorito negli albi del personaggio creato da Nolitta. Infine, come Tex, anche Zagor è un bianco, di madre irlandese (il vero nome è Patrick Wilding), che ha una grandissima influenza sulle tribù indiane dell’immaginaria Foresta di Darkwood (sita nella parte orientale degli Stati Uniti, intorno al 1830, con un lavoro che ricorda quello dello pseudo-Massachussets di Lovecraft), da loro rispettato come un soprannaturale Spirito con la Scure, e che lui difende dall’espansionismo occidentale (militare e civile), rischiando più volte la vita. Un particolare, piccolo e curioso, collega ancor più strettamente Zagor all’opera di Moroni Celsi. Più volte Zagor è stato definito dalla critica fumettistica come un “tarzanide”, ovvero un personaggio che per certe sue caratteristiche “atletico-scenografiche” deve molto al Tarzan nato nel 1912 dalla fantasia dell’americano Edgar Rice Burroughs. Tarzan, enfant sauvage, una volta salvato, allevato e cresciuto dai primati, diventa un “capo bianco fra popolazioni e animali esotici in terre esotiche” – come Zagor; fa molto conto sulla fisicità corporea per affrontare certe situazioni estreme, proprio come Zagor.

Il "tarzanide" Zagor, che si sposta velocemente nella Foresta di Darkwood grazie a volteggi fra le liane (disegno di Gallieno Ferri)
Il “tarzanide” Zagor, che si sposta velocemente nella Foresta di Darkwood grazie a volteggi fra le liane (disegno di Gallieno Ferri)

E come Zagor si serve delle “vie aree” per spostarsi in foreste e boscaglie, dondolandosi nel fitto groviglio di possenti liane. Nel primo e secondo capito di Ulceda, il nostro Vittorio Ranghi usa proprio le liane per liberarsi da un cappio teso come trappola da ignoti cacciatori e spostarsi – “alla Tarzan” – da un punto all’altro della macchia!

 

Edificando le fondamenta del western a fumetti italiano

Ulceda, la figlia del Gran Falco della prateria, come abbiamo visto, è fondamentale nella storia del fumetto nostrano per svariati motivi. Innanzitutto per aver introdotto, prima in assoluto, un nuovo genere fumettistico nel Belpaese; e in secondo luogo per aver rappresentato nel 1935 la figura dell’Indiano d’America in maniera radicalmente diversa rispetto al passato (e anche rispetto ai due decenni futuri, almeno!), ponendolo alla pari con l’uomo bianco europeo – nella fattispecie italiano – magari in virtù di una gemella sorgente primeva del sangue.

Questo per quanto riguarda “l’anima” del capolavoro di Guido Moroni Celsi. Se scendiamo su un piano più “materiale” – prettamente figurativo, scenografico, e di svolgimento della trama – vediamo come l’artista romano riesca a inserire, in un’avventura dopotutto breve (ha lo stesso numero di vignette di una cinquantina di pagine di un albo di “Tex”, ovvero di appena mezzo fascicolo bonelliano), quasi tutti quelli che diventeranno ben presto i canoni e gli stilemi propri del fumetto western, elementi della narrazione per immagini – già qui belli che pronti e cristallizzati – con i quali tutti gli sceneggiatori e i disegnatori nei decenni a venire dovranno necessariamente confrontarsi.

Elementi wester: l'indiano, furtivo, il cow-boy... (tav. I)
Elementi wester: l’indiano, furtivo, il cow-boy… (tav. I)

Il primo capitolo, Nella foresta brasiliana, presenta di per sé già moltissimi “oggetti” western. C’è l’indiano in agguato, con il suo bel copricapo piumato da gran guerriero, che si aggira furtivo nella boscaglia, raffigurato in nera silhouette; lancia un raccapricciante grido di guerra (yo-ho-hee! Yo-ho-hee!), piuttosto attinente in quanto a sonorità a simili vocalizzi in simili occasioni nella realtà storica. Il bianco è Vittorio Ranghi, un italiano che da tre anni vive lontano dalla Patria, presso uno zio, che ha una fazenda quasi al centro delle praterie dell’ovest, nel Brasile, e con un fratello minore d’età; Vittorio veste alla cow-boy, con cappellone a larghe tese, fucile, cartucciera, rivoltella nella fondina, coltello, accetta, etc. – tutto un insieme di parafernalia che possono anche in parte richiamare l’iconografia degli eroi di celluloide coevi di Tom Mix, ma che sono il prototipo di quello che sarà l’abbigliamento “standard” per il western a fumetti. Si intravede anche il “ranch” dello “zio d’America”, con due figure che saltano in groppa ai destrieri, sellati di tutto punto. È quasi inutile sottolineare come il Far West – anche quello letterario – non esisterebbe senza il cavallo! Ranghi incappa subito in un laccio, una trappola tesa per la cattura delle belve: nel fumetto di Frontiera, centrali saranno le figure dei trapper – uomini rudi e solitari, a metà strada fra il cacciatore e l’eremita, che vivono per mesi nelle foreste e sulle montagne al fine di procacciarsi pellame da rivendere nei “punti di scambio” (i cosiddetti trading post) oppure negli annuali rendez-voussportivo-commerciali organizzati insiemi ai colleghi. Pensiamo al nostro “Ken Parker”.

Fermo immagine da un film western americano degli anni Dieci (epoca del muto). Il classico abbigliamento precipita nei fumetti fin da subito!
Fermo immagine da un film western americano degli anni Dieci (epoca del muto). Il classico abbigliamento precipita nei fumetti fin da subito!

Nel secondo capitolo, Un grido umano!, Vittorio (come avevamo accennato), usa le liane della foresta per spostarsi; incontra anche una feroce pantera nera, alla quale spara con una carabina, centrandola; la fiera, che si immagina moribonda, salta in un cespuglio, e subito si leva in aria un grido di orrore. Ecco dunque, in questa seconda tavola, entrare in gioco altri elementi western – oltretutto anticipatori, come avevamo scritto sopra, di un certo innovativo western a fumetti degli anni Sessanta: l’agilità del protagonista, che pare imitare il bambino ferino di Burroughs; l’animale feroce, simbolo stesso dell’asprezza naturale del Nuovo Mondo; il fucile, fedele compagno del Pioniere, dell’Avventuriero e del Colonizzatore (have gun, will travel – “con il fucile andrai lontano” – era uno dei più celebri motti della Frontiera); qualcuno in pericolo, in necessità di soccorso.

Il dono del Pellerossa è il titolo del terzo capitolo. Vittorio Ranghi salva dalle fauci della pantera nera un capo pellerossa, il Gran Falco della Prateria. L’indiano minaccioso dell’inizio, con un sapiente colpo di scena, diventa adesso un alleato. Fra i due viene infatti suggellato un ferreo patto d’amicizia con il dono all’italiano di un coltello sacro con il manico in corno inciso dalla dolce fanciulla Ulceda, figlia del sakem. L’arma bianca è anche una sorta di talismano riconosciuto da tutte le tribù della zona, una sorta di lasciapassare per Vittorio. L’oggetto magico che da solo vale mille parole e che aiuta a superare le incomprensioni dovute alle barriere culturali e linguistiche è un elemento ricorrente nel fumetto western italiano: basti pensare alla fascia rituale, il wampum, che Tex si stringe alla fronte quando veste nel suo villaggio i panni di Aquila della Notte; tale wampum è riconosciuto anche fuori dallo stretto ambito navajo, ed è un vero e proprio documento di riconoscimento, dotato di indiscussa autorità. In questa stessa tavola vengono introdotti finalmente quelli che saranno i compagni d’avventura di Vittorio: il fratellino Vico, anche lui armato e ben addestrato alla vita delle Praterie (ricorda molto da vicino il Kit Willer della saga di “Tex”) e il “meticcio” Kamoto, una sorta di ponte in carne e ossa fra due mondi (come sarà il texiano Tiger Jack).

Elementi wester: il coltello-talismano che il Gran Falco dona a Vittorio
Il coltello-talismano-lasciapassare che il Gran Falco dona a Vittorio (tav. III)

La foresta iniziale, piena di misteri, trabocchetti e animali feroci – che ricorda la dantesca Selva Oscura nella quale l’Alighieri è disperso all’inizio della “Commedia” – viene abbandonata per le sconfinate distese di erba alta, lasciando spazio ad altre situazioni prettamente western nel quarto e quinto capitolo, La fattoria in fiamme e L’agguato nella prateria. La fazenda brasiliana del ramo americano della famiglia Ranghi è stata data alle fiamme dagli indiani dopo avere sottratto il bestiame che vi era allevato; alcuni di questi incursori cavalcano destrieri bianchi “a pelo”, senza sella, altri con regolare montatura di cuoio. A differenza dei loro colleghi del Nord, tali strani pellerossa delle praterie carioca non tirano solo frecce, ma anche lazos e bolas! I tre pard Vittorio, Vico e Kamoto partono all’inseguimento e li vediamo – classicamente – sparare all’indietro con la carabina, pur continuando a galoppare in avanti, stringendo i fianchi del cavallo con le ginocchia – piedi ben saldi nelle staffe.

Ogni sforzo difensivo dei due bianchi e del meticcio viene ben presto vanificato, e i tre cadono preda della tribù: Prigionieri degli Owada è infatti il titolo del sesto capitolo. Vediamo dunque il gruppetto legato ai tradizionali “pali della tortura” in attesa che si compia il loro destino. Il capitolo VII, Kamiola, il traditore, è dedicato al complotto e – in parte – anche a un intermezzo passionale. Appare infatti per la prima volta Ulceda, la bellissima squaw figlia del Gran Falco, che si intuisce essere una sorta di capo supremo di tutte le tribù della prateria (in una vignetta, infatti, vediamo un tale “capo degli Owada”, che dunque non dovrebbe essere il Gran Falco; oppure quello in cui sono segregati i Ranghi, è un campo secondario, con una specie di vice-capo al comando; rimane insondabile questo piccolo mistero di sceneggiatura). Tutti gli uomini validi dell’accampamento sono stati richiamati al “quartier generale” e Vittorio Ranghi si erge subito a difensore di Ulceda contro le mire del viscido Kamiola, vice-capo (o vice-vice-capo!). Guido Moroni Celsi ricorre adesso alla figura della “damigella in pericolo”, tema narrativo antichissimo: si cristallizzò con il Ciclo del Graal e con la letteratura cavalleresca ed è poi stato sfruttato ovunque e comunque, fino a imporsi nel cinema (pensiamo alla eptalogia di “Guerre Stellari”, che non esisterebbe senza l’elemento scatenante della Principessa Leila in pericolo) e nel fumetto “di genere” (avventura, fantasy, horror, fantascienza, etc.) – e ovviamente nel western.

Il rapimento di Ulceda da parte del viscido traditore Kamiola (tav. VIII)
Il rapimento di Ulceda da parte del viscido traditore Kamiola (tav. VIII)

La gelosia e l’odio, oltre all’avidità, portano l’infido Kamiola alla vile azione del rapimento: nell’ottavo capitolo (Verso il tesoro segreto) sequestra Ulceda e la conduce lontano dalle tende per farsi indicare dov’è nascosto l’oro della tribù, custodito dal Gran Falco, che evidentemente lo dispensa con un certa qual parsimonia. Entra ora in gioco il coltello sacro che il Gran Falco aveva donato a Vittorio: mostrandolo agli Owada ottiene la libertà, per sé e per i suoi compagni – così da partire per le montagne all’inseguimento di Kamiola. Ecco dunque inserite altre costanti del western all’italiana, che spesso ama mischiare i generi, come abbiamo detto: il talismano invincibile, la religiosità magica dei Pellerossa, il messaggio rivelatore (con il quale Ulceda mette sulle sue tracce i suoi salvatori) e il fascino del tesoro celato. Si alzano potenti ricordi delle leggende e dei miti di Eldorado, delle Sette Città di Cibola e – per rimanere in ambito europeo, dove la storia è stata pensata e realizzata – dell’Oro del Reno. Infine, ecco l’ennesimo cambio di panorama: abbiamo visto la foresta, la fattoria, la prateria, l’accampamento indigeno… Ora tocca alle montagne e alle caverne, che saranno le protagoniste scenografiche assolute da qui fin quasi al termine dell’avventura.

La gola fra le rocce, con i massi che bloccano i passaggi, con le pietre che cadono rischiando di travolgere gli esploratori, fanno bella mostra di sé nel nono e nel decimo capitolo (rispettivamente La terra trema e La terribile avventura di Kamoto); abbinando anche l’undicesimo episodio (La lotta contro i condor) assistiamo a emozionanti momenti di puro alpinismo, con le corde che dovrebbero servire per catturar vitelli usate per issarsi su spuntoni e vette rocciose. Simili situazioni, nel western più puro, le ritroviamo solitamente nella Monument Valley o nel Grand Canyon. Il predatore alato andino è una sorta di sostituto letterario dell’avvoltoio nordamericano, come abbiamo già sottolineato; soprattutto nelle sue prime storie, Tex Willer ne fa fuori a centinaia a revolverate, per allontanarli dai cadaveri di malcapitati su cui si stavano abboffando. E lo stesso accade qui, con Vittorio e Vico che, a furia di fucilate, impilano un bel mucchio di carcasse di tali pennuti.

Arrampicate sulle rocce (in stile Monument Valley) e condor (che sostituiscono gli avvoltoi del western)
Arrampicate sulle rocce (in stile Monument Valley) e condor (che sostituiscono gli avvoltoi del western) nella tav. XI

All’interno della lunghissima sequenza montana c’è una sorta di sottotraccia sotterranea, che parte con il dodicesimo capitolo, La porta nel macigno. Si entra così in uno degli aspetti più cupi del western all’italiana (che G. L. Bonelli e seguaci rispolvereranno più volte, in futuro, a partire da quando, nella saga texiana, debutta l’arcinemico Mefisto, amante dei foschi nascondigli). Nel ventre della terra è come ritornare alle origini della vita. Viene subito in mente Viaggio al centro della Terra di Jules Verne. Sotto le rocce, inoltre, in una delle più straordinarie avventure della serie a fumetti “Blake & Mortimer” di E. P. Jacobs, capolavoro immortale della Linea Chiara franco-belga insieme al “Tintin” di Hergé, i protagonisti viaggiano per cunicoli e grotte per numerose tavole, senza mai vedere la luce del Sole e l’azzurro del cielo (L’enigma di Atlantide, 1957). La porta che chiude l’ingresso della camera del tesoro è un macigno cubico che si muove su cardini: un incredibile monolito che rimanda a ere lontane e che insieme a una lunga scalinata scolpita nelle rocce e alla botola lignea che copre il tesoro del Gran Falco fa pensare ad architetture concepite da avanzatissime, seppur perdute, popolazioni ancestrali. Davanti alle gemme preziose, Kamiola e Vittorio lottano (tredicesimo capitolo, Nel mistero della caverna), in uno scontro che per il momento vede l’eroe soccombere davanti al malfattore. Il traditore e ladro chiama l’avversario “maledetto bianco” e lo colpisce vigliaccamente al volto con una torcia accesa, infuocata e fumante, mentre Vittorio, in quel momento, era armato solo della sua “avveniristica” lampadina a batteria.

L’intreccio si complica con Il diabolico piano di Kamiola (XIV capitolo). Dopo il furto delle pietre preziose, il giuda degli Owada, per intorbidire le acque contatta prima il Gran Falco e incolpa i bianchi – che avrebbero rapinato il tesoro indiano con la complicità di Ulceda. Poi si reca presso il comandante dei Regolari impegnati a reprimere le rivolte rosse e lo sguinzaglia sulle tracce del Gran Falco. Doppio, triplo gioco: un classico scenario del western fumettistico, e dell’avventura in genere. Il climax dell’inganno, prima del chiarimento generale, viene raggiunto con il XV capitolo, La collera del Gran Falco, ambientato nella camera del tesoro. Poi, nella puntata successiva (La caverna assediata) il piano di Kamiola crolla miseramente: il Gran Falco ritrova il giovane colono che l’aveva salvato dalla pantera e capisce da uno sguardo che sua figlia non poteva averlo tradito. Tutto è spiegato! Ma come in ogni classica leggenda, ogni antico tesoro è vegliato da un drago invincibile. L’anima degli antichi mostri uccisi dai cavalieri nelle saghe si manifesta sotto le spoglie di un gigantesco biscione (forse un anaconda, come avevamo accennato), che impegna duramente i Nostri per altre due tavole: La lotta del serpente (cap. XVII) e La gran porta di pietra (cap. XVIII).

Il lato horror e macabro del wester fumettistico all'italiana: la lotta contro i pipistrelli-vampiro nel budello di rocce sotterranee (tav. XIX)
Il lato horror e macabro del wester fumettistico all’italiana: la lotta contro i pipistrelli-vampiro nel budello di rocce sotterranee (tav. XIX)

Il rettile non è l’unico mostro che gli eroi dovranno affrontare via via che si spingono più in fondo nel budello pietroso, varcando tutta una serie di porte lapidee, nella speranza di sfuggire ai Regolari che li braccano. Nei capitoli XVIII e XIX (La battaglia contro i vampiri) appaiono infatti i giganteschi pipistrelli che si nutrono di sangue e che ben si sposano con le atmosfere da oltretomba della sequenza sotterranea di Ulceda. Il vampiro zoologico, infine, rimanda immediatamente al mostro antropomorfo del folklore slavo e romeno, che ha nel “Dracula” di Bram Stoker il suo principale precursore letterario e che nel 1931 era stato con grande successo riadattato per il grande schermo dal regista Tod Browning e dall’attore Bela Lugosi. Minacciosi e giganteschi chirotteri svolazzano un po’ dovunque nel “Tex” e nello “Zagor” bonelliano, nelle avventure dalle più forti tinte macabre.

Con il ritorno della luce solare, i quattro capitoli da XX a XXIII (Il Gran Falco si cala nell’abisso, Il Gran Falco e l’orso nero, La sorpresa dei regolari e I pellirosse alla riscossa) vedono come unico protagonista il capo indiano, che lotta, corre, e spara in gran solitario, mentre gli altri personaggi (Vittorio, Vico, Ulceda e Kamoto) attendono pazienti la salvezza su uno spuntone di roccia. È questo poker di tavole una sorta di avventura nell’avventura, anche qui molto innovativa: Guido Moroni Celsi elegge come nuovo eroe della sua storia il fiero capo indiano il cui nome compariva dopotutto nel titolo, mentre la bella Ulceda (come una donnina d’altri tempi) rimane per tutta la storia silenziosa e passiva, pronunciando un’unica battuta (Mio padre!, esclama nel XVI capitolo). Fra gli elementi strettamente western di queste quattro settimane, troviamo il già menzionato grizzly nord-americano, il fumo che sale all’orizzonte di un bivacco (dei Regolari), l’inseguimento a cavallo con gran fracasso di fucili, il guado di un fiume, le grida di guerra indigene…

Il XXIV e penultimo capitolo celebra La cattura di Kamiola, il traditore delle sue genti. Singolarmente sia il “quartier generale” del Gran Falco, sia quello delle truppe regolari brasiliane hanno un unico aspetto: quello del fortino del Far West. E i comandanti dei Regolari, nella penultima vignetta della tavola, sembra prioprio ufficiali dello US Army ottocentesco!

Penultima tavola (XXIV): nelle singolari praterie brasiliane di Moroni Celsi spuntano i classici "fortini" del Far West, sia come "quartier generale" degli indiani del Gran Falco (con tanto di tee-pee all'interno) sia come sede del comando dei Regolari (i cui ufficiali vestono con divise simili a quelle dell'US Army dell'800)
Penultima tavola (XXIV): nelle singolari praterie brasiliane di Moroni Celsi spuntano i classici “fortini” del Far West, usati sia come “quartier generale” degli indiani del Gran Falco (con tanto di tee-pee all’interno), sia come sede del comando dei Regolari (i cui ufficiali vestono con divise simili a quelle dell’US Army dell’800)

La storia si chiude con La condanna del perfido Kamiola (XXV capitolo), con un classico lieto fine, che si distacca, per un certo suo romanticismo, dalla rudezza (quasi misogina) di tanti fumetti western successivi precedenti agli anni Sessanta. Il cattivo Kamiola viene condannato e esiliato in cima a una montagna, con pochi viveri; Vittorio e Ulceda annunciano il loro matrimonio; il Gran Falco, come dono di nozze (non si capisce se già celebrate, in terra indiana, oppure no) regala ai due ragazzi alcune casse di gemme preziose del tesoro tribale; infine, nell’ultima vignetta, i due fidanzatini (o sposi novelli) salpano da Galveston verso l’Europa, per un lungo soggiorno nella grande Italia rinnovata.

E qui chiudiamo il nostro tentativo analisi di questa affascinante storia degli anni Trenta. Sarebbe però interessante approfondire, in un futuro articolo, quello che è (in senso più strettamente tecnico) il linguaggio narrativo fumettistico di Ulceda. Vedremo!

Francesco G. Manetti

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