12 Aprile 2024
Archeologia Religione

Ex oriente lux, ma sarà poi vero? Quattordicesima parte

Di Fabio Calabrese

Da parte di diversi amici, mi è arrivata la sollecitazione a riprendere la serie di articoli “Ex oriente lux” che sembra aver suscitato un particolare interesse. Ora, bisogna dire che la mia intenzione al riguardo, era quella di riunire, da un dato momento in poi, tutti gli articoli di argomento antico, preistorico, protostorico, archeologico nella serie “Una Ahnenerbe casalinga”; in questo modo mi piace, ma – credetemi, con una certa dose di autoironia – definire le mie personali ricerche riguardo all’eredità degli antenati, e sempre sperando che il paragone con la Ahnenerbe nazionalsocialista non appaia troppo ardito, anche perché la leggenda della “luce da oriente” per quanto riguarda le origini della civiltà europea, non è il solo che occorre confutare, del pari due altre leggende che oggi passano per ortodossia scientifica vanno rigettate fra le falsità “politicamente corrette” che ci sono surrettiziamente imposte: quella dell’origine mediorientale degli Indoeuropei che la cosiddetta teoria del nostratico vorrebbe (ma guarda un po!) strettamente connessi alle genti semitiche, e quella della presunta origine africana (Out of Africa od OOA) della nostra specie.

Si tratta, non occorre nemmeno evidenziarlo, di tematiche strettamente connesse alla politica; infatti, tutte e tre queste leggende vanno a sminuire il ruolo avuto dal nostro continente e dalle genti di ceppo caucasico nell’incivilimento umano – guarda caso – proprio quando, per i fini del potere mondialista, occorre diminuire e incrinare la resistenza allo stravolgimento etnico e antropologico del nostro continente portato dalla cosiddetta immigrazione, il pietismo nei confronti della quale sembra, tra l’altro, aver sostituito presso la canaglia sinistrorsa, i cascami dell’ormai desueta e fallimentare ideologia marxista.

Tempo fa ho portato a termine un lavoro ambizioso, trasformare gli articoli apparsi in “Ex oriente lux” in un libro vero e proprio che ho intitolato Alla ricerca delle origini, ma non è possibile ipotizzare una pubblicazione in tempi rapidi, anche perché l’editore a cui l’ho affidato, Ritter, a fine aprile è stato vittima di un vilissimo attentato che ci conferma una volta di più che cosa i democratici antifascisti intendono per democrazia: tappare la bocca a chi la pensa diversamente da loro.

Recentemente, commentando un mio articolo (in termini piuttosto elogiativi, devo dire), il nostro grande Ernesto Roli ha scritto:

“Certe scoperte (…) non sono mai state prese in considerazione dagli archeologi. Ciò in quanto molto antiche, certamente più antiche delle così dette civiltà orientali; quasi a voler ignorare una possibile Civiltà Europea risalente a diversi millenni avanti Cristo. Secondo una certa “vulgata” archeologica, non può esistere una Civiltà Europea più antica di quelle orientali, altrimenti crollerebbe il castello dei luoghi comuni, come ad esempio Ex oriente lux”.

Il tema, come si vede, è sempre di attualità. Io al riguardo credo di aver trattato l’argomento in maniera piuttosto completa, ma poiché repetita iuvant, lo riprendiamo in mano. Non ho elementi nuovi, ma forse una sintesi di quanto già esposto non sarà priva di utilità.

Gli elementi di varia natura che suggeriscono, o se vogliamo, LE PROVE CHE MOSTRANO la priorità della civiltà europea rispetto all’oriente e al medio oriente, sono numerosi e difficilmente contestabili, ad essi infatti l’archeologia ufficiale, anch’essa emanazione dell’ideologia “politicamente corretta” imposta dal potere, non ha potuto rispondere con argomenti, ma solo avvolgendole in un muro di silenzio, impedendo che il grosso pubblico venga a conoscenza dei fatti che contraddicono le “verità” ufficiali pecorescamente snocciolate dai libri di storia.

Noi constatiamo, perché qui non è materia di discussione, ma di semplice prendere atto dei fatti, la priorità europea nella scoperta dei metalli (l’ascia di rame dell’uomo del Similaun è di cinquecento anni più antica del più antico analogo attrezzo mediorientale conosciuto), nell’allevamento bovino (come è dimostrato dal fatto che la capacità umana di assimilare il latte vaccino in età adulta è massima in Europa tra la Scandinavia e l’arco alpino, e decresce man mano che ci si allontana da quest’area), nell’invenzione della scrittura (le tavolette cosiddette di Tartaria ritrovate in Romania, e più antiche di mille anni dei più antichi pittogrammi sumerici).

Oltre a ciò, ci sono le testimonianze archeologiche inequivocabili, la diffusione in tutta Europa di imponenti costruzioni megalitiche che precedono di circa un millennio l’edificazione delle piramidi egizie e delle ziggurat; non c’è solo il più conosciuto megalitismo delle Isole Britanniche: Stonehenge, Avebury in Inghilterra, la stupenda e monumentale tomba di Newgrange in Irlanda, in Scozia il complesso conosciuto come “cuore neolitico delle Orcadi”. Abbiamo nell’Europa Continentale Carnac in Francia, Externsteine e Gosek in Germania, il quasi sconosciuto megalitismo italiano: la piramide di Monte d’Accoddi in Sardegna, il dolmen di Minervino in Puglia, fino ad arrivare agli imponenti e bellissimi templi dell’isola di Malta.

Il problema che ci dobbiamo porre, è semmai quali siano i motivi di questa sorta di etnocentrismo a rovescio, di auto-razzismo che induce a minimizzare l’Europa a favore di altre culture. Qui c’è da considerare prima di tutto il peso deformante sulla percezione che noi abbiamo di noi stessi, di un antico libro mediorientale considerato “sacro”, la bibbia. Guarda caso, i luoghi dove si suppone, dove ancora ci raccontano avrebbe avuto origine “la civiltà”, sono l’Egitto, la Mesopotamia, il Medio Oriente, i luoghi menzionati in questo antico libro scritto da chi dell’Europa non sapeva nulla.

I progressi fondamentali nelle varie scienze sono avvenuti affrancandosi dal peso dell’autorità biblica e del suo dogmatismo: Copernico e Galileo nelle scienze fisiche, Darwin nelle scienze biologiche, ma la storia sta ancora aspettando il suo Copernico, il suo Galileo, il suo Darwin.

Storici e archeologi negli ultimi due secoli hanno accumulato un’enorme massa di dati che hanno portato a ricostruzioni del passato sempre più dettagliate e precise, ma il paradigma di base è rimasto lo stesso, quello basato sulla narrazione biblica.

La ricerca, soprattutto in campo storico-archeologico, non è un semplice accumulo di fatti, il paradigma, cioè in ultima analisi l’idea che il ricercatore ha in testa, guida, influenza e determina la ricerca stessa; se è solo in Medio Oriente che si fanno ricerche archeologiche, potranno emergere solo “fatti” che confermano la priorità delle civiltà mediorientali.

Tuttavia, se il problema fosse solo questo, saremmo ancora fortunati.  Non dobbiamo dimenticare le conseguenze pesanti che ha rappresentato in ogni campo, e continua a rappresentare la sconfitta dell’Europa (dell’Europa e non dell’Asse, anche le potenze europee nominalmente vincitrici sono state di fatto sconfitte) nella seconda guerra mondiale (ma in realtà in entrambe le due guerre mondiali), conseguenze che non hanno interessato solo l’ambito strettamente politico; ci troviamo sotto il tallone dei vincitori di allora non solo nel dominio politico, ma anche culturale e psicologico.

Gli Stati Uniti sono dominati dall’ossessione biblica, al punto che la maggioranza della popolazione americana è, ad esempio, creazionista. Archeologi americani cercano tuttora, oltre che l’arca di Noè (e perché non anche la slitta di Babbo Natale?) le tracce lasciate nel Sinai dalla peregrinazione degli ebrei guidati da Mosè, come se i resti di un fuoco di bivacco potessero permanere per tremila anni, e come se la zona non fosse attraversata da millenni da ogni sorta di carovaniere che vi avranno lasciato un numero enorme di tracce di fuochi di bivacco, tra le quali identificare quelle che si suppone lasciate dal “popolo eletto” durante la migrazione, ammesso e non concesso che quest’ultimo non sia un episodio leggendario, è di fatto impossibile.

Se in Europa continuano i trend attuali dal punto di vista demografico, c’è anche il rischio che al dogmatismo biblico venga a sommarsi o sostituirsi un altro dogmatismo ancora più rozzo, ottuso e ostile alla conoscenza, quello coranico.

Oltre a ciò, semplicemente ai nostri dominatori NON CONVIENE permettere lo sviluppo di quelle forme di conoscenza che potrebbero risvegliare negli Europei il senso della grandezza e l’orgoglio delle proprie origini, che potrebbero indurli a resistere al miserevole destino che ci hanno preparato: la sparizione per invecchiamento demografico e imbastardimento etnico. Tanto più, esse potrebbero dare fastidio alle zecche che oggi ci invadono.

Qualche anno fa, alla televisione svedese fu proibito di mandare in onda un documentario sull’Età del Bronzo scandinava, perché esso “avrebbe potuto offendere” la sempre più numerosa comunità islamica che oggi soffoca la Svezia.

Io vi ho raccontato che le mie ricerche presero avvio parecchi anni fa da una vivace discussione avuta con una collega in sala insegnanti durante uno di quegli intervalli che servono ai pargoli per rifocillarsi e a noi poveri docenti di riprenderci almeno un poco dallo stress. Non vi nascondo che sono stato io stesso il primo a sorprendermi di quanto viene fuori solo grattando un poco sotto le interpretazioni convenzionali e “politicamente corrette” spacciate dai libri di testo: non solo emerge in maniera incontrovertibile l’originalità e la creatività della civiltà europea fin dove è possibile risalire, fin dalla più remota preistoria, ma si ha la prova chiara che tutte le civiltà umane sono riconducibili a una base europide, caucasica, “bianca”.

Per quanto riguarda il Medio Oriente, ho trovato di estremo interesse  le indicazioni contenute in un libro davvero prezioso, Ricerche archeologiche non autorizzate di Marco Pizzuti. Testi scritti, pitture, statue, e per quanto riguarda l’Egitto soprattutto le mummie, ci raccontano qualcosa su cui storici e archeologi ufficiali “politicamente corretti” preferiscono stendere un velo di silenzio: le civiltà mediorientali, sia dell’Egitto sia della Mesopotamia sono state create da élite con caratteristiche fisico-antropologiche nettamente diverse dal tipo prevalente nella popolazione; fra esse sono frequenti i lineamenti di tipo europeo nordico, gli occhi chiari, i capelli biondi o rossicci.

Alla base delle grandi civiltà dell’Asia centrale e orientale, troviamo un antichissimo popolamento europide, man mano ibridato o soppiantato da elementi mongolici. Questo fenomeno è visibilissimo nella cosiddetta cultura dei kurgan: in questi grandi tumuli disseminati per le steppe eurasiatiche, vediamo la progressiva sostituzione di resti inumati dalle caratteristiche caucasiche gradualmente sostituiti da altri dai tratti mongolici, mente la facie culturale rimane pressoché invariata. Occorre ricordare che secondo l’antropologa Marija Gimbutas, proprio la cultura dei kurgan sarebbe stata la cultura madre dei popoli indoeuropei.

Nell’Asia centrale, nella zona di Cherchen nella regione del Takla Makan che fa parte del Turkestan cinese o Sinkiang oggi indicato con la grafia cinesizzata di Xinjiang, nel bacino del fiume Tarim, è emerso un gran numero di mummie dai tratti prettamente europei, “celtici” secondo alcuni. Notevole, fra le altre, la mummia di una bambina dove i globi oculari sono stati sostituiti da pietruzze azzurre. Sebbene le autorità cinesi abbiano vietato le ricerche, temendo di dare esca allo spirito autonomista delle popolazioni locali, esse sembrano riconducibili all’antico popolo dei Tocari che ci ha lasciato nella regione le testimonianze scritte di una lingua indoeuropea del gruppo centum, lo stesso cui appartengono il greco, il latino, i linguaggi celtici e germanici.

I sorprendenti lineamenti europei e nordici di una ragazza kalash.
I sorprendenti lineamenti europei e nordici di una ragazza kalash.

Popolazioni relitto verosimilmente riconducibili allo stesso gruppo ancestrale, sono gli Hunza e i Kalash che abitano le alte valli del Pakistan e dell’Afghanistan, fra i quali sono frequenti le carnagioni chiare, i capelli biondi, i tratti inconfondibilmente nordici. Nonostante secoli di persecuzioni da parte degli islamici (la violenza è sempre l’argomento principale dei sermoni dei cultori del monoteismo), i Kalash rimangono anche testardamente pagani.

Per il Giappone si può fare un discorso analogo. Più che un mongolo, il giapponese si può considerare un caucasico fortemente mongolizzato dal  contatto e l’interscambio genetico con le popolazioni vicine, ma per tutto il periodo che va dalla più remota preistoria a tempi storicamente recenti, il tipo umano più diffuso nelle Isole Nipponiche è stato un caucasico, lo  Jomon. Affini agli Jomon sono ancora oggi gli Ainu dell’isola di Hokkaido. E’ senza dubbio questa impronta caucasica, occultata ma non cancellata, a fare sì che a dispetto della collocazione geografica, quella giapponese sia ancora oggi la più “occidentale” delle culture asiatiche.

E’ indubbiamente una cosa che può sorprendere, e sconcertare chi è abituato ad accettare supinamente la concezione storica convenzionale, ma lo stesso discorso si può fare tale e quale per le civiltà dell’America precolombiana; anche alla base di esse, troviamo un antico popolamento caucasico. E’ una scoperta emersa negli ultimi decenni, e che di certo non ci si è affrettati a far arrivare al grosso pubblico. Confrontando la più antica cultura litica americana, la cultura Clovis, con le industrie litiche del Vecchio Mondo, i ricercatori si sono accorti che essa non presenta nessuna somiglianza con quelle della Siberia da cui sarebbero venuti gli antenati degli Amerindi percorrendo la Beringia, l’area dell’attuale stretto di Bering che durante l’età glaciale è stata un ponte di terra emerso, e invece presenta una netta somiglianza con una cultura europea coeva o di poco precedente, quella solutreana.

L’ipotesi che i dati a nostra disposizione suggeriscono, è che durante l’età glaciale, quando il livello degli oceani era più basso di adesso e un’estesa banchisa artica congiungeva le coste dell’Europa settentrionale con l’Islanda, la Groenlandia e l’America, cacciatori solutreani abbiano potuto spostarsi su di essa a caccia di foche e balene come i moderni esquimesi, fino a raggiungere la sponda americana, prima degli antenati degli Amerindi che avrebbero raggiunto il Nuovo Mondo circa 12.000 anni fa.

A sostegno dell’ipotesi di una presenza “bianca” nelle Americhe, molto prima di Colombo o anche dei Vichinghi che hanno certamente preceduto il navigatore genovese, ci sono le leggende diffuse nelle culture precolombiane di eroi civilizzatori invariabilmente bianchi e barbuti: Quetzalcoatl, Viracocha, Gucumatz, ci sono soprattutto popolazioni “amerindie” stranamente bianche, estinte in epoca storica o ancora oggi esistenti: Mandan nell’America settentrionale, Aracani e Kilmes in quella meridionale. Gli Aracani, esistenti ancora oggi, in particolare, guarda caso, abitano la zona di Tihuanaco, dove esiste un complesso monumentale tra i più particolari dell’America precolombiana, “la Stonehenge del Sud America”, come è stato definito.

Come se non bastasse, negli ultimi anni è arrivata inequivocabile la prova del DNA. Nel genoma degli Amerindi c’è un terzo di geni caucasici, più esattamente risalente a quel gruppo di cacciatori paleolitici denominato “eurasiatico settentrionale” che rappresenta circa l’87 per cento degli antenati degli Europei.

D’altra parte, è facile rendersi conto che fare una riprova a contrario, è fin troppo semplice: là dove un’influenza europide non è ipotizzabile, non solo l’Africa nera, o come si dice oggi, subsahariana, ma anche per esempio l’Australia o la Nuova Guinea, vediamo bene che le popolazioni locali non si sono schiodate di un millimetro dal paleolitico fino all’arrivo dei coloni europei negli ultimi secoli.

Noi dobbiamo avere ben presente tutto ciò, essere consapevoli che la nostra eredità caucasica, “bianca”, indoeuropea, europea, è un deposito prezioso da difendere a qualsiasi costo, specialmente oggi di fronte all’invasione/aggressione mondialista mascherata da immigrazione.

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  • Daniele Bettini 23 Luglio 2015

    Da Mosè al sionismo: una storia «inventata»
    di Paolo Mieli – 06/10/2010

    Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]e Arianna Editrice

    Fin dalla prima infanzia i bambini israeliani vengono a «sapere» che il popolo a cui appartengono esiste dal momento in cui gli fu data la Torah sul Sinai. Quei bambini sono convinti di essere discendenti diretti delle genti che, uscite dall’ Egitto, si stanziarono, dopo averla conquistata, nella «terra di Israele», promessa, come tutti «sanno», da Dio per fondarvi lo splendido regno di Davide e Salomone, poi separatosi a formare quelli di Giuda e d’ Israele. Crescendo quei bambini apprenderanno che questo popolo, dopo il glorioso periodo monarchico, ha conosciuto l’ esilio per ben due volte: una con la distruzione del Primo Tempio nel sesto secolo a.C.; la seconda dopo quella del Secondo Tempio nel 70 d.C. Impareranno poi che il loro popolo, il più antico di tutti, ha errato in esilio per circa duemila anni, nel corso dei quali non si è mai lasciato integrare né assimilare. Che ha raggiunto lo Yemen, il Marocco, la Spagna, la Germania, la Polonia, angoli remoti della Russia riuscendo sempre a mantenere stretti legami di sangue con le comunità più lontane, preservando di conseguenza la propria unicità. In realtà è molto improbabile che le cose siano andate davvero così. Anzi, Shlomo Sand, storico ebreo, docente all’ Università di Tel Aviv, in un libro, L’ invenzione del popolo ebraico, di imminente pubblicazione per i tipi di Rizzoli, sostiene che si tratta, appunto, di una «invenzione». Questa storia non sta in piedi, afferma Sand: così come ad esempio non c’ è continuità tra gli antichi elleni e i greci di oggi, non c’ è una linea diretta che colleghi gli ebrei di duemila anni fa a quelli attuali. Per di più questo racconto non è andato formandosi spontaneamente; «sono stati invece abili manipolatori del passato che dalla seconda metà del XIX secolo, strato dopo strato, hanno elevato questo cumulo di ricordi servendosi soprattutto di frammenti di memoria religiosa ebraica e cristiana, da cui la loro fervida immaginazione ha ricostruito un’ ininterrotta genealogia del popolo ebraico». Quando, nel 2008, il libro di Sand è stato pubblicato in Israele si è scatenata, come era ovvio che fosse, una grande polemica (ne ha dato conto in modo esauriente, su queste pagine, Davide Frattini il 29 marzo di quello stesso anno). Ma molti storici israeliani, primo tra tutti Tom Segev, hanno difeso Sand e il suo libro che – a dispetto delle accuse piovutegli addosso – ha avuto un grande successo di pubblico. Shlomo Sand racconta di essere stato consapevole, allorché si accinse alla stesura di questo testo, dei rischi che correva: «Mi aspettavo di essere accusato dai miei detrattori di non possedere un’ adeguata conoscenza della storia ebraica, di non essere in grado di cogliere l’ unicità del popolo ebraico, di ignorare ottusamente la sua origine biblica e di negare la sua eterna coesione». Ma, aggiunge, «mi sembrava anche che passare il mio tempo all’ Università di Tel Aviv, in mezzo alla sua ampia collezione di volumi e documenti sulla storia ebraica, senza prendermi il tempo di esaminarli, sarebbe stato un affronto alla mia professione». Con una qualche malizia nei confronti degli altri professori del suo stesso ateneo, Sand dice poi che «è sicuramente piacevole viaggiare in Francia e negli Stati Uniti in qualità di affermato docente per raccogliere materiale sulla cultura occidentale, godendosi il potere e la quiete dell’ ambiente universitario». Però, aggiunge subito dopo, «come storico che contribuisce a modellare la memoria collettiva della società nella quale vive, sentivo fosse mio dovere dare un contributo diretto a questa impresa tanto delicata». Dopodiché, sostiene Sand, «sarebbe stato meglio se il volume fosse stato realizzato da un’ équipe di ricercatori anziché da uno storico solo». Purtroppo, aggiunge non senza una buona dose di perfidia – ancora una volta – nei confronti dei suoi colleghi, non è stato possibile dal momento che non ha trovato qualcuno che fosse disposto a «collaborare a quest’ azione criminosa». Sand è esplicito nel puntare l’ indice contro la maggioranza degli storici del suo Paese: «Vorrei sottolineare che quelle a cui ho attinto sono state quasi esclusivamente fonti che erano già state scoperte in precedenza da storiografi sionisti e israeliani»; «quello che più lascia stupiti è che molte delle informazioni utilizzate per questo saggio erano note da sempre in alcuni circoli ristretti di ricercatori, ma finivano invariabilmente per perdersi per strada quando si trattava di renderle note alla pubblica opinione o di innestarle nella memoria trasmessa dal sistema educativo»; «alcuni elementi erano stati trascurati, altri immediatamente nascosti sotto il tappeto degli storiografi e altri ancora “dimenticati” perché non si confacevano alle necessità ideologiche di una identità nazionale in fieri». Conclusione: «Sfortunatamente pochi dei miei colleghi – gli insegnanti di storia in Israele – ritengono loro dovere intraprendere la pericolosa missione pedagogica di denunciare le tradizionali bugie che si dicono sul passato». Quanto a lui: «Non avrei potuto continuare a vivere in Israele», afferma, «se non avessi scritto questo saggio». Reso omaggio e manifestato il suo debito nei confronti dei grandi studiosi del passato, che hanno dimostrato come sia sempre stato il nazionalismo a generare le nazioni e non viceversa – in particolare Ernest Renan con Che cos’ è una nazione? (Donzelli), Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger con L’ invenzione della tradizione (Einaudi); Ernest Gellner con Nazioni e nazionalismo (Editori Riuniti) e Marcel Detienne con Essere autoctoni. Come denazionalizzare le storie nazionali (Sansoni) – Sand ricostruisce come quella della continuità del popolo ebraico dai tempi biblici a quelli odierni sia un’ «invenzione» molto recente. In principio fu Giuseppe Flavio lo storico ebreo di lingua greca che nel primo secolo dopo Cristo raccontò la Guerra giudaica a cui aveva partecipato e scrisse delle Antichità giudaiche (Utet). Poi per tutto il Medioevo non è attestata nessuna forma di storiografia degli ebrei. Sand nota come trascorsero più di milleseicento anni prima che Jacques Basnage (1653-1725), teologo ugonotto originario della Normandia ma residente a Rotterdam, decidesse di riprendere il racconto della Storia degli ebrei dai tempi di Gesù Cristo ad oggi. Milleseicento anni! Tra l’ altro l’ opera di Basnage non aveva assolutamente le caratteristiche di uno studio storico nel senso moderno del termine (l’ autore non rimandava quasi mai a fonti ebraiche) ed era stata scritta all’ evidente scopo di screditare la Chiesa cattolica. L’ autore non delineava alcuna continuità tra gli antichi israeliti e le comunità ebraiche a lui coeve, si limitava a descriverne le persecuzioni qui e là nel corso del Medioevo, per sostenere che la colpa di quelle vessazioni era riconducibile per intero alla corrotta istituzione del papato. E che solo la Riforma protestante avrebbe potuto condurre gli israeliti alla salvezza (che – detto per inciso – doveva coincidere con la loro conversione al cristianesimo). Poi trascorse quasi un altro secolo perché lo storico ebreo tedesco Isaak Markus Jost (1793-1860) scrivesse una seconda storia degli ebrei che, malgrado le critiche da lui stesso mosse a Basnage, conservava lo stesso impianto del lavoro dello scrittore protestante. Il primo accenno esplicito a una continuità tra gli ebrei della Bibbia e quelli di tremila anni dopo si trovò solo nel saggio Roma e Gerusalemme (1862) di Moses Hess, un amico di Karl Marx, che scrisse: «La razza ebraica è una razza originaria dell’ umanità che ha mantenuto la propria integrità, nonostante i continui cambiamenti delle condizioni climatiche; il tipo ebraico è rimasto immutato attraverso i secoli». Si dovrà attendere, però, ancora qualche decennio perché sia formulata in modo esplicito la tesi che gli ebrei di oggi sono discendenti diretti di quelli che nel XIII secolo avanti Cristo fuggirono dall’ Egitto guidati da Mosè. Cosa che avvenne solamente con la nascita e lo sviluppo del sionismo di Theodor Herzl. Le fondamenta del processo di costruzione retroa
    ttiva della nazione ebraica furono poste in modo organico da Heinrich Graetz tra la fine dell’ Ottocento e gli inizi del Novecento. Successivamente diventarono per così dire definitive, in pieno Novecento, ad opera di Ben-Zion Dinaburg, nato in Ucraina, poi emigrato in Palestina dove divenne uno dei principali collaboratori di David Ben Gurion. Può apparire paradossale ma la storia ufficiale del popolo ebraico entrò in crisi a seguito della «guerra dei sei giorni» del 1967, quando Israele occupò i territori su cui avrebbe dovuto essere edificato (dal 1948), assieme a quello di Israele, lo Stato palestinese. Frotte di archeologi accorsero in Cisgiordania e nella Giudea biblica a cercare le prove del glorioso passato della loro gente. Però non ne trovarono. Anzi, vennero in possesso di elementi che contraddicevano le loro supposizioni. Le storie dei patriarchi, ad esempio, citavano Filistei, Aramei e un gran numero di cammelli. Ma Filistei, Aramei e cammelli erano comparsi nella regione qualche secolo dopo quello della datazione biblica. Ancora: la terra di Canaan nel XIII secolo, cioè all’ epoca della fuga dall’ Egitto, era ancora governata dai faraoni. Questo significa che, se le cose fossero andate come dal racconto tradizionale, Mosè avrebbe condotto una popolazione di tre milioni di schiavi ebrei liberati, in un viaggio nel deserto durato quarant’ anni, per andare «dall’ Egitto all’ Egitto». Nessuna traccia del fatto che, una volta arrivati nella terra di Canaan, gli ebrei, secondo il racconto del libro di Giosuè, avrebbero sterminato la popolazione locale (meno male, osserva Sand, questo vuol dire che quel genocidio non ci fu!). Nessuna prova dell’ abbattimento delle mura di Gerico che all’ epoca era una piccola e insignificante città. La potente monarchia di re Salomone, fondata per grazia e con la benedizione di un unico Dio, non è mai esistita: ci sono un’ infinità di evidenze della circostanza che negli anni della narrazione biblica, gli abitanti del luogo erano convinti politeisti. «I miti fondamentali sull’ origine antica di un popolo straordinario proveniente dal deserto che aveva conquistato con la forza un vasto paese per edificarvi un regno magnifico», scrive Sand, «servirono fedelmente l’ ascesa del nazionalismo ebraico e l’ impresa di colonizzazione sionista; per un secolo costituirono il carburante testuale che fornì energia spirituale a una politica identitaria estremamente complessa e a una colonizzazione territoriale che esigeva autogiustificazioni e un numero considerevole di vittime». Ma da nessuno scavo archeologico sono emerse prove a conferma di quei miti fondamentali. Anche per quel che riguarda la «seconda cacciata» degli ebrei, quella del 70 d.C., le cose non stanno come è stato tramandato. Contrariamente a quanto viene insegnato nelle scuole israeliane, sull’ arco di Tito eretto a Roma in onore dell’ imperatore sono i soldati romani a portare sulle spalle come bottino la menorah e non gli ebrei a trascinarla dietro di sé. Non esistono in tutta la ricca documentazione romana né una prova né un accenno a un qualsiasi esilio dalla Palestina, come del resto non sono stati rinvenuti elementi che confermassero un’ ampia concentrazione di rifugiati ai confini della Giudea in seguito alla rivolta, elementi che avrebbero dovuto essere rinvenuti se ci fossero stati consistenti spostamenti di popolazione. Ci sono invece prove del fatto che, anche dopo l’ ultima rivolta ebraica, quella del 132 dell’ era volgare, la popolazione ebraica continuò a prosperare su quella terra ancora per due generazioni. Il mito dello sradicamento e dell’ esilio si sviluppò molto tempo dopo, nella tradizione cristiana dalla quale in seguito penetrò in quella ebraica per poi trasformarsi «in una verità assoluta della storia generale e nazionale». Hayyim Milikovsky, studioso dell’ università Bar Ilan, ha dimostrato sulla base di un’ accurata documentazione del secondo e terzo secolo dopo Cristo che il termine «esilio» stava ad indicare un asservimento politico, non uno sradicamento territoriale e che le due cose non erano necessariamente correlate. Ma se i fatti – per quel che riguarda la storia della Palestina tra il I e il II secolo, fino alla distruzione del «secondo tempio» e ai decenni immediatamente successivi – andarono in questo modo, chi furono gli ebrei che ricomparvero nella seconda metà del primo millennio? Probabilmente si tratta di popolazioni convertitesi all’ ebraismo per meglio fronteggiare le aggressioni cristiane, bizantine o musulmane. Ebbe questi caratteri un regno nel sud della penisola arabica a cui avrebbe dedicato alcune pagine, a fine Ottocento, il già citato Graetz. Ci furono comunità ebraiche che si formarono all’ epoca dei Vandali, cioè quando, tra il 430 e il 533, le tribù germaniche giunte dall’ Europa conquistarono l’ Africa settentrionale e fondarono un regno la cui religione dominante era quella cristiana ariana. Ibn Khaldun, il grande storico arabo vissuto nel XIV secolo, ha raccontato la storia di un regno dei monti nordafricani dell’ Aures composto da popolazioni berbere convertite all’ ebraismo che nel 689, sotto la guida della regina Dihya al-Kahina, resistette a lungo a un’ offensiva musulmana (alla fine la regina fu sconfitta, perì in battaglia e i suoi figli si convertirono all’ islam). Dopodiché si può supporre – ma soltanto supporre – che l’ ebraismo «sia comparso nella penisola iberica soprattutto tra gli schiavi, i soldati e i mercanti romani convertiti, come probabilmente avvenne in altre colonie dell’ Impero nell’ area nord-occidentale del bacino mediterraneo». Altra storia è quella della «tribù dei cazari» e del loro impero che restò in vita tra i due e i quattro secoli nelle steppe tra il Volga e il Caucaso settentrionale. La fonte principale che documenta l’ esistenza di questo regno è costituita dal «documento di Cambridge», la lettera di un ebreo cazaro del X secolo, scoperta nel 1912 nella Genizah del Cairo e conservata, appunto, nella famosa biblioteca universitaria inglese. I cazari, in un imprecisato momento tra l’ ottavo e il nono secolo adottarono una fede monoteista e fecero proprie le pratiche culturali ebraiche per contrastare l’ Impero bizantino cristiano e il califfato abasside musulmano. Nel 1016 un esercito russo-bizantino invase il regno ebraico ma gli ebrei cazari sopravvissero sui monti, nelle steppe e nella penisola di Crimea fino all’ invasione mongola di Gengis Khan (nel XIII secolo) che li annientò. In Israele questa storia, alla quale pure sono stati dedicati studi, è stata trattata con una punta di imbarazzo. I «gestori della memoria israeliana», secondo Sand, hanno sempre voluto «tutelarsi dall’ ombra del passato cazaro per il timore che, se fosse stato reso noto che la comunità ebraica insediatasi non discendeva direttamente dai “figli d’ Israele”, questo avrebbe minacciato la legittimità dell’ impresa sionista e tale delegittimazione avrebbe portato a un ripensamento generale del diritto all’ esistenza dello Stato d’ Israele». Al punto che quando Arthur Koestler, autore del celeberrimo libro antistalinista Buio a mezzogiorno, nel 1976 scrisse, sulla storia del regno ebraico cazaro, La tredicesima tribù (pubblicato in Italia da Utet) in Israele il volume fu sì stampato da un piccolo editore di Gerusalemme ma poi non fu mai messo in distribuzione. I lettori israeliani, osserva Sand, quel libro «lo hanno conosciuto solo attraverso i velenosi attacchi di cui è stato oggetto». Solo molto tempo dopo la questione è stata affrontata in seminari e in qualche studio di buon livello. Stesso discorso – cioè eventi dati per certi su cui è opportuno tornare – vale per la tesi, ormai abbondantemente inficiata, che colloca in Germania il punto di confluenza e di rifondazione degli ebrei dell’ Europa orientale e che attribuisce sempre alla Germania la paternità dello yiddish. Non nella nobile Germania ma in terre orientali di minor prestigio «rinacquero» gli ebrei d’ Europa. Quello di Sand è un libro molto coraggioso. Scritto da un israeliano, per il pubblico israeliano, a dispetto della storia ufficiale che
    si insegna nelle scuole di Israele. E contestato da coloro che non sono d’ accordo in punta d’ argomento e senza ricorrere a tentativi di screditare l’ autore. Così si dibatte del passato in un Paese civile.

    Tante altre notizie su Arianna Editrice

  • Daniele Bettini 23 Luglio 2015

    Da Mosè al sionismo: una storia «inventata»
    di Paolo Mieli – 06/10/2010

    Fonte: Corriere della Sera [scheda fonte]e Arianna Editrice

    Fin dalla prima infanzia i bambini israeliani vengono a «sapere» che il popolo a cui appartengono esiste dal momento in cui gli fu data la Torah sul Sinai. Quei bambini sono convinti di essere discendenti diretti delle genti che, uscite dall’ Egitto, si stanziarono, dopo averla conquistata, nella «terra di Israele», promessa, come tutti «sanno», da Dio per fondarvi lo splendido regno di Davide e Salomone, poi separatosi a formare quelli di Giuda e d’ Israele. Crescendo quei bambini apprenderanno che questo popolo, dopo il glorioso periodo monarchico, ha conosciuto l’ esilio per ben due volte: una con la distruzione del Primo Tempio nel sesto secolo a.C.; la seconda dopo quella del Secondo Tempio nel 70 d.C. Impareranno poi che il loro popolo, il più antico di tutti, ha errato in esilio per circa duemila anni, nel corso dei quali non si è mai lasciato integrare né assimilare. Che ha raggiunto lo Yemen, il Marocco, la Spagna, la Germania, la Polonia, angoli remoti della Russia riuscendo sempre a mantenere stretti legami di sangue con le comunità più lontane, preservando di conseguenza la propria unicità. In realtà è molto improbabile che le cose siano andate davvero così. Anzi, Shlomo Sand, storico ebreo, docente all’ Università di Tel Aviv, in un libro, L’ invenzione del popolo ebraico, di imminente pubblicazione per i tipi di Rizzoli, sostiene che si tratta, appunto, di una «invenzione». Questa storia non sta in piedi, afferma Sand: così come ad esempio non c’ è continuità tra gli antichi elleni e i greci di oggi, non c’ è una linea diretta che colleghi gli ebrei di duemila anni fa a quelli attuali. Per di più questo racconto non è andato formandosi spontaneamente; «sono stati invece abili manipolatori del passato che dalla seconda metà del XIX secolo, strato dopo strato, hanno elevato questo cumulo di ricordi servendosi soprattutto di frammenti di memoria religiosa ebraica e cristiana, da cui la loro fervida immaginazione ha ricostruito un’ ininterrotta genealogia del popolo ebraico». Quando, nel 2008, il libro di Sand è stato pubblicato in Israele si è scatenata, come era ovvio che fosse, una grande polemica (ne ha dato conto in modo esauriente, su queste pagine, Davide Frattini il 29 marzo di quello stesso anno). Ma molti storici israeliani, primo tra tutti Tom Segev, hanno difeso Sand e il suo libro che – a dispetto delle accuse piovutegli addosso – ha avuto un grande successo di pubblico. Shlomo Sand racconta di essere stato consapevole, allorché si accinse alla stesura di questo testo, dei rischi che correva: «Mi aspettavo di essere accusato dai miei detrattori di non possedere un’ adeguata conoscenza della storia ebraica, di non essere in grado di cogliere l’ unicità del popolo ebraico, di ignorare ottusamente la sua origine biblica e di negare la sua eterna coesione». Ma, aggiunge, «mi sembrava anche che passare il mio tempo all’ Università di Tel Aviv, in mezzo alla sua ampia collezione di volumi e documenti sulla storia ebraica, senza prendermi il tempo di esaminarli, sarebbe stato un affronto alla mia professione». Con una qualche malizia nei confronti degli altri professori del suo stesso ateneo, Sand dice poi che «è sicuramente piacevole viaggiare in Francia e negli Stati Uniti in qualità di affermato docente per raccogliere materiale sulla cultura occidentale, godendosi il potere e la quiete dell’ ambiente universitario». Però, aggiunge subito dopo, «come storico che contribuisce a modellare la memoria collettiva della società nella quale vive, sentivo fosse mio dovere dare un contributo diretto a questa impresa tanto delicata». Dopodiché, sostiene Sand, «sarebbe stato meglio se il volume fosse stato realizzato da un’ équipe di ricercatori anziché da uno storico solo». Purtroppo, aggiunge non senza una buona dose di perfidia – ancora una volta – nei confronti dei suoi colleghi, non è stato possibile dal momento che non ha trovato qualcuno che fosse disposto a «collaborare a quest’ azione criminosa». Sand è esplicito nel puntare l’ indice contro la maggioranza degli storici del suo Paese: «Vorrei sottolineare che quelle a cui ho attinto sono state quasi esclusivamente fonti che erano già state scoperte in precedenza da storiografi sionisti e israeliani»; «quello che più lascia stupiti è che molte delle informazioni utilizzate per questo saggio erano note da sempre in alcuni circoli ristretti di ricercatori, ma finivano invariabilmente per perdersi per strada quando si trattava di renderle note alla pubblica opinione o di innestarle nella memoria trasmessa dal sistema educativo»; «alcuni elementi erano stati trascurati, altri immediatamente nascosti sotto il tappeto degli storiografi e altri ancora “dimenticati” perché non si confacevano alle necessità ideologiche di una identità nazionale in fieri». Conclusione: «Sfortunatamente pochi dei miei colleghi – gli insegnanti di storia in Israele – ritengono loro dovere intraprendere la pericolosa missione pedagogica di denunciare le tradizionali bugie che si dicono sul passato». Quanto a lui: «Non avrei potuto continuare a vivere in Israele», afferma, «se non avessi scritto questo saggio». Reso omaggio e manifestato il suo debito nei confronti dei grandi studiosi del passato, che hanno dimostrato come sia sempre stato il nazionalismo a generare le nazioni e non viceversa – in particolare Ernest Renan con Che cos’ è una nazione? (Donzelli), Eric J. Hobsbawm e Terence Ranger con L’ invenzione della tradizione (Einaudi); Ernest Gellner con Nazioni e nazionalismo (Editori Riuniti) e Marcel Detienne con Essere autoctoni. Come denazionalizzare le storie nazionali (Sansoni) – Sand ricostruisce come quella della continuità del popolo ebraico dai tempi biblici a quelli odierni sia un’ «invenzione» molto recente. In principio fu Giuseppe Flavio lo storico ebreo di lingua greca che nel primo secolo dopo Cristo raccontò la Guerra giudaica a cui aveva partecipato e scrisse delle Antichità giudaiche (Utet). Poi per tutto il Medioevo non è attestata nessuna forma di storiografia degli ebrei. Sand nota come trascorsero più di milleseicento anni prima che Jacques Basnage (1653-1725), teologo ugonotto originario della Normandia ma residente a Rotterdam, decidesse di riprendere il racconto della Storia degli ebrei dai tempi di Gesù Cristo ad oggi. Milleseicento anni! Tra l’ altro l’ opera di Basnage non aveva assolutamente le caratteristiche di uno studio storico nel senso moderno del termine (l’ autore non rimandava quasi mai a fonti ebraiche) ed era stata scritta all’ evidente scopo di screditare la Chiesa cattolica. L’ autore non delineava alcuna continuità tra gli antichi israeliti e le comunità ebraiche a lui coeve, si limitava a descriverne le persecuzioni qui e là nel corso del Medioevo, per sostenere che la colpa di quelle vessazioni era riconducibile per intero alla corrotta istituzione del papato. E che solo la Riforma protestante avrebbe potuto condurre gli israeliti alla salvezza (che – detto per inciso – doveva coincidere con la loro conversione al cristianesimo). Poi trascorse quasi un altro secolo perché lo storico ebreo tedesco Isaak Markus Jost (1793-1860) scrivesse una seconda storia degli ebrei che, malgrado le critiche da lui stesso mosse a Basnage, conservava lo stesso impianto del lavoro dello scrittore protestante. Il primo accenno esplicito a una continuità tra gli ebrei della Bibbia e quelli di tremila anni dopo si trovò solo nel saggio Roma e Gerusalemme (1862) di Moses Hess, un amico di Karl Marx, che scrisse: «La razza ebraica è una razza originaria dell’ umanità che ha mantenuto la propria integrità, nonostante i continui cambiamenti delle condizioni climatiche; il tipo ebraico è rimasto immutato attraverso i secoli». Si dovrà attendere, però, ancora qualche decennio perché sia formulata in modo esplicito la tesi che gli ebrei di oggi sono discendenti diretti di quelli che nel XIII secolo avanti Cristo fuggirono dall’ Egitto guidati da Mosè. Cosa che avvenne solamente con la nascita e lo sviluppo del sionismo di Theodor Herzl. Le fondamenta del processo di costruzione retroa
    ttiva della nazione ebraica furono poste in modo organico da Heinrich Graetz tra la fine dell’ Ottocento e gli inizi del Novecento. Successivamente diventarono per così dire definitive, in pieno Novecento, ad opera di Ben-Zion Dinaburg, nato in Ucraina, poi emigrato in Palestina dove divenne uno dei principali collaboratori di David Ben Gurion. Può apparire paradossale ma la storia ufficiale del popolo ebraico entrò in crisi a seguito della «guerra dei sei giorni» del 1967, quando Israele occupò i territori su cui avrebbe dovuto essere edificato (dal 1948), assieme a quello di Israele, lo Stato palestinese. Frotte di archeologi accorsero in Cisgiordania e nella Giudea biblica a cercare le prove del glorioso passato della loro gente. Però non ne trovarono. Anzi, vennero in possesso di elementi che contraddicevano le loro supposizioni. Le storie dei patriarchi, ad esempio, citavano Filistei, Aramei e un gran numero di cammelli. Ma Filistei, Aramei e cammelli erano comparsi nella regione qualche secolo dopo quello della datazione biblica. Ancora: la terra di Canaan nel XIII secolo, cioè all’ epoca della fuga dall’ Egitto, era ancora governata dai faraoni. Questo significa che, se le cose fossero andate come dal racconto tradizionale, Mosè avrebbe condotto una popolazione di tre milioni di schiavi ebrei liberati, in un viaggio nel deserto durato quarant’ anni, per andare «dall’ Egitto all’ Egitto». Nessuna traccia del fatto che, una volta arrivati nella terra di Canaan, gli ebrei, secondo il racconto del libro di Giosuè, avrebbero sterminato la popolazione locale (meno male, osserva Sand, questo vuol dire che quel genocidio non ci fu!). Nessuna prova dell’ abbattimento delle mura di Gerico che all’ epoca era una piccola e insignificante città. La potente monarchia di re Salomone, fondata per grazia e con la benedizione di un unico Dio, non è mai esistita: ci sono un’ infinità di evidenze della circostanza che negli anni della narrazione biblica, gli abitanti del luogo erano convinti politeisti. «I miti fondamentali sull’ origine antica di un popolo straordinario proveniente dal deserto che aveva conquistato con la forza un vasto paese per edificarvi un regno magnifico», scrive Sand, «servirono fedelmente l’ ascesa del nazionalismo ebraico e l’ impresa di colonizzazione sionista; per un secolo costituirono il carburante testuale che fornì energia spirituale a una politica identitaria estremamente complessa e a una colonizzazione territoriale che esigeva autogiustificazioni e un numero considerevole di vittime». Ma da nessuno scavo archeologico sono emerse prove a conferma di quei miti fondamentali. Anche per quel che riguarda la «seconda cacciata» degli ebrei, quella del 70 d.C., le cose non stanno come è stato tramandato. Contrariamente a quanto viene insegnato nelle scuole israeliane, sull’ arco di Tito eretto a Roma in onore dell’ imperatore sono i soldati romani a portare sulle spalle come bottino la menorah e non gli ebrei a trascinarla dietro di sé. Non esistono in tutta la ricca documentazione romana né una prova né un accenno a un qualsiasi esilio dalla Palestina, come del resto non sono stati rinvenuti elementi che confermassero un’ ampia concentrazione di rifugiati ai confini della Giudea in seguito alla rivolta, elementi che avrebbero dovuto essere rinvenuti se ci fossero stati consistenti spostamenti di popolazione. Ci sono invece prove del fatto che, anche dopo l’ ultima rivolta ebraica, quella del 132 dell’ era volgare, la popolazione ebraica continuò a prosperare su quella terra ancora per due generazioni. Il mito dello sradicamento e dell’ esilio si sviluppò molto tempo dopo, nella tradizione cristiana dalla quale in seguito penetrò in quella ebraica per poi trasformarsi «in una verità assoluta della storia generale e nazionale». Hayyim Milikovsky, studioso dell’ università Bar Ilan, ha dimostrato sulla base di un’ accurata documentazione del secondo e terzo secolo dopo Cristo che il termine «esilio» stava ad indicare un asservimento politico, non uno sradicamento territoriale e che le due cose non erano necessariamente correlate. Ma se i fatti – per quel che riguarda la storia della Palestina tra il I e il II secolo, fino alla distruzione del «secondo tempio» e ai decenni immediatamente successivi – andarono in questo modo, chi furono gli ebrei che ricomparvero nella seconda metà del primo millennio? Probabilmente si tratta di popolazioni convertitesi all’ ebraismo per meglio fronteggiare le aggressioni cristiane, bizantine o musulmane. Ebbe questi caratteri un regno nel sud della penisola arabica a cui avrebbe dedicato alcune pagine, a fine Ottocento, il già citato Graetz. Ci furono comunità ebraiche che si formarono all’ epoca dei Vandali, cioè quando, tra il 430 e il 533, le tribù germaniche giunte dall’ Europa conquistarono l’ Africa settentrionale e fondarono un regno la cui religione dominante era quella cristiana ariana. Ibn Khaldun, il grande storico arabo vissuto nel XIV secolo, ha raccontato la storia di un regno dei monti nordafricani dell’ Aures composto da popolazioni berbere convertite all’ ebraismo che nel 689, sotto la guida della regina Dihya al-Kahina, resistette a lungo a un’ offensiva musulmana (alla fine la regina fu sconfitta, perì in battaglia e i suoi figli si convertirono all’ islam). Dopodiché si può supporre – ma soltanto supporre – che l’ ebraismo «sia comparso nella penisola iberica soprattutto tra gli schiavi, i soldati e i mercanti romani convertiti, come probabilmente avvenne in altre colonie dell’ Impero nell’ area nord-occidentale del bacino mediterraneo». Altra storia è quella della «tribù dei cazari» e del loro impero che restò in vita tra i due e i quattro secoli nelle steppe tra il Volga e il Caucaso settentrionale. La fonte principale che documenta l’ esistenza di questo regno è costituita dal «documento di Cambridge», la lettera di un ebreo cazaro del X secolo, scoperta nel 1912 nella Genizah del Cairo e conservata, appunto, nella famosa biblioteca universitaria inglese. I cazari, in un imprecisato momento tra l’ ottavo e il nono secolo adottarono una fede monoteista e fecero proprie le pratiche culturali ebraiche per contrastare l’ Impero bizantino cristiano e il califfato abasside musulmano. Nel 1016 un esercito russo-bizantino invase il regno ebraico ma gli ebrei cazari sopravvissero sui monti, nelle steppe e nella penisola di Crimea fino all’ invasione mongola di Gengis Khan (nel XIII secolo) che li annientò. In Israele questa storia, alla quale pure sono stati dedicati studi, è stata trattata con una punta di imbarazzo. I «gestori della memoria israeliana», secondo Sand, hanno sempre voluto «tutelarsi dall’ ombra del passato cazaro per il timore che, se fosse stato reso noto che la comunità ebraica insediatasi non discendeva direttamente dai “figli d’ Israele”, questo avrebbe minacciato la legittimità dell’ impresa sionista e tale delegittimazione avrebbe portato a un ripensamento generale del diritto all’ esistenza dello Stato d’ Israele». Al punto che quando Arthur Koestler, autore del celeberrimo libro antistalinista Buio a mezzogiorno, nel 1976 scrisse, sulla storia del regno ebraico cazaro, La tredicesima tribù (pubblicato in Italia da Utet) in Israele il volume fu sì stampato da un piccolo editore di Gerusalemme ma poi non fu mai messo in distribuzione. I lettori israeliani, osserva Sand, quel libro «lo hanno conosciuto solo attraverso i velenosi attacchi di cui è stato oggetto». Solo molto tempo dopo la questione è stata affrontata in seminari e in qualche studio di buon livello. Stesso discorso – cioè eventi dati per certi su cui è opportuno tornare – vale per la tesi, ormai abbondantemente inficiata, che colloca in Germania il punto di confluenza e di rifondazione degli ebrei dell’ Europa orientale e che attribuisce sempre alla Germania la paternità dello yiddish. Non nella nobile Germania ma in terre orientali di minor prestigio «rinacquero» gli ebrei d’ Europa. Quello di Sand è un libro molto coraggioso. Scritto da un israeliano, per il pubblico israeliano, a dispetto della storia ufficiale che
    si insegna nelle scuole di Israele. E contestato da coloro che non sono d’ accordo in punta d’ argomento e senza ricorrere a tentativi di screditare l’ autore. Così si dibatte del passato in un Paese civile.

    Tante altre notizie su Arianna Editrice

  • Fabio Calabrese 30 Luglio 2015

    Bettini, ottimo e articolato intervento che supporta in pieno il mio punto di vista. Meriterebbe di essere pubblicato come articolo a sé stante.

  • Fabio Calabrese 30 Luglio 2015

    Bettini, ottimo e articolato intervento che supporta in pieno il mio punto di vista. Meriterebbe di essere pubblicato come articolo a sé stante.

  • Ernesto Roli 31 Luglio 2015

    Carissimo Fabio,
    noi non abbiamo perso solo la guerra, abbiamo perso anche la battaglia culturale. Al mondo esistono valenti archeologi, linguisti e ricercatori di ogni genere che hanno dimostrato oramai da anni che la civiltà europea era più antica di quelle orientali. Le loro scoperte tuttavia sono servite a ben poco, perché la cultura ufficiale continua a privilegiare le civiltà orientali.
    Cito a memoria perché dovrei andare a ricercare tra i vari libri, ma ricordo che la Gimbutas fu la prima a mettere in rilievo che tra i vasi a Ceramica a Bande Lineari trovate in Romania (VI millennio) esistevano segni di scrittura molto più antichi di quelli orientali. La cosa non ha avuto più seguito e questo vale anche per tutto il resto. G. Danyel dimostrò l’antichità dei megaliti europei rispetto alla civiltà egiziana. Anche lui non ha avuto seguito. Tutte cose che sappiamo noi ma che nell’ambito culturale di massa ciò non ha preso piede. Manca, come dici tu, il Galileo della storia. Ma in questo clima può nascere? Il tuo malessere nel constatare ciò è molto comprensibile ed è anche il mio da molti anni. Sai benissimo che il concetto di “Ex oriente Lux” è un concetto cristiano e che il concetto di “nostratico” fu elaborato dal linguista francese A. Cuny e dal linguista danese H. Pedersen influenzati dal mito biblico (torre di Babele) che tutte le lingue derivavano dall’ebraico. La Bibbia certamente non conosceva l’ Europa, ma solo i territori orientali. Oggi invece noi conosciamo l’Europa, pertanto e per fortuna tale concetto si applica diversamente, tenendo conto dei singoli gruppi linguistici. Ma in generale il concetto originale è purtroppo rimasto. Per me “nostratico” è pertinente alle sole lingue indoeuropee e basta. Pensa che anche quando sorsero i primi indoeuropeisti, questi erano convinti che gli Indoeuropei provenissero dalle steppe asiatiche e che il sanscrito fosse la lingua più antica di tutte le altre. Per questo motivo facevano derivare tutte le lingue indoeuropee dal sanscrito. Oggi per fortuna non è più così, ma c’è ancora qualcuno che ripete simili stupidaggini. Trovo che questa tua ricerca durata ben quattordici puntate merita una pubblicazione a parte. Hai affermato al tuo studio “Alla ricerca delle origini” che vorresti pubblicare da Ritter e delle rispettive difficoltà. Se l’editore riesci a superare tali difficoltà considera almeno un paio di copie prenotate da me con un contributo doveroso. Su una cosa vorrei che tu mi dessi alcuni chiarimenti. Tanto per capirci. Si tratta dell’ uso del termine “caucasico”, perché per me è piuttosto equivoco. In linguistica la lingue caucasiche non sono lingue indoeuropee. D’altra parte è vero che in alcune discipline si parla di tipo “caucasoide” come sinonimo di “europoide”. Probabilmente tu lo intendi nel senso di europoide. Tuttavia io per indicare gli Indoeuropei preferisco usare il temine europei o nordici. Si tratta di intenderci. comunque grazie per il tuo pregevole studio e rimango in attesa della pubblicazione.
    Amichevoli e cordiali saluti.

    Ernesto Roli

  • Ernesto Roli 31 Luglio 2015

    Carissimo Fabio,
    noi non abbiamo perso solo la guerra, abbiamo perso anche la battaglia culturale. Al mondo esistono valenti archeologi, linguisti e ricercatori di ogni genere che hanno dimostrato oramai da anni che la civiltà europea era più antica di quelle orientali. Le loro scoperte tuttavia sono servite a ben poco, perché la cultura ufficiale continua a privilegiare le civiltà orientali.
    Cito a memoria perché dovrei andare a ricercare tra i vari libri, ma ricordo che la Gimbutas fu la prima a mettere in rilievo che tra i vasi a Ceramica a Bande Lineari trovate in Romania (VI millennio) esistevano segni di scrittura molto più antichi di quelli orientali. La cosa non ha avuto più seguito e questo vale anche per tutto il resto. G. Danyel dimostrò l’antichità dei megaliti europei rispetto alla civiltà egiziana. Anche lui non ha avuto seguito. Tutte cose che sappiamo noi ma che nell’ambito culturale di massa ciò non ha preso piede. Manca, come dici tu, il Galileo della storia. Ma in questo clima può nascere? Il tuo malessere nel constatare ciò è molto comprensibile ed è anche il mio da molti anni. Sai benissimo che il concetto di “Ex oriente Lux” è un concetto cristiano e che il concetto di “nostratico” fu elaborato dal linguista francese A. Cuny e dal linguista danese H. Pedersen influenzati dal mito biblico (torre di Babele) che tutte le lingue derivavano dall’ebraico. La Bibbia certamente non conosceva l’ Europa, ma solo i territori orientali. Oggi invece noi conosciamo l’Europa, pertanto e per fortuna tale concetto si applica diversamente, tenendo conto dei singoli gruppi linguistici. Ma in generale il concetto originale è purtroppo rimasto. Per me “nostratico” è pertinente alle sole lingue indoeuropee e basta. Pensa che anche quando sorsero i primi indoeuropeisti, questi erano convinti che gli Indoeuropei provenissero dalle steppe asiatiche e che il sanscrito fosse la lingua più antica di tutte le altre. Per questo motivo facevano derivare tutte le lingue indoeuropee dal sanscrito. Oggi per fortuna non è più così, ma c’è ancora qualcuno che ripete simili stupidaggini. Trovo che questa tua ricerca durata ben quattordici puntate merita una pubblicazione a parte. Hai affermato al tuo studio “Alla ricerca delle origini” che vorresti pubblicare da Ritter e delle rispettive difficoltà. Se l’editore riesci a superare tali difficoltà considera almeno un paio di copie prenotate da me con un contributo doveroso. Su una cosa vorrei che tu mi dessi alcuni chiarimenti. Tanto per capirci. Si tratta dell’ uso del termine “caucasico”, perché per me è piuttosto equivoco. In linguistica la lingue caucasiche non sono lingue indoeuropee. D’altra parte è vero che in alcune discipline si parla di tipo “caucasoide” come sinonimo di “europoide”. Probabilmente tu lo intendi nel senso di europoide. Tuttavia io per indicare gli Indoeuropei preferisco usare il temine europei o nordici. Si tratta di intenderci. comunque grazie per il tuo pregevole studio e rimango in attesa della pubblicazione.
    Amichevoli e cordiali saluti.

    Ernesto Roli

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